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La crisi invisibile: i migranti in fuga da Maduro

Migranti Venezuela

@Cristal Montanez - Flickr - Attribution-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-SA 2.0)

La crisi sociale, economica e politica del Venezuela ha ormai smesso di essere un problema interno per diventare una sfida cruciale di tutta la Regione, oltre che del continente americano.

Le pressioni internazionali contro il governo di Nicolás Maduro si intensificano e la crisi migratoria di portata drammatica potrebbe essere il terreno dove si giocherà la tenuta o il crollo del regime chavista.

Secondo l’ultimo report dell’IOM (Organizzazione internazionale per le migrazioni) i flussi in uscita dal Venezuela sono aumentati drasticamente dal 2015 in poi: si è passati da circa 695 mila a 2,3 milioni di persone in uscita nel luglio 2018, con un picco proprio nello stesso anno che aveva registrato, in aprile, 1,6 milioni di emigrati.

Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da un aumento dei flussi infra-regionali, considerando che, sempre secondo i dati riportati, circa 1,5 milioni di venezuelani si sono spostati nel solo Sud America. Le destinazioni principali sono Colombia, Stati Uniti e Spagna, ma crescono i numeri, tra gli altri, verso Panama, Argentina, Brasile e Perù, creando non pochi squilibri nelle precarie dinamiche socio-politiche della regione.

I numeri già allarmanti sono purtroppo stime incomplete, non potendo tenere in considerazione tutto il fenomeno dell’immigrazione irregolare, ma anche i flussi di transito temporaneo dovuti alla scarsezza di risorse nella Repubblica bolivariana.

L’origine delle migrazioni: la crisi venezuelana

Praticamente invisibile agli occhi europei, la crisi migratoria venezuelana è stata paragonata, per numeri e portata, a quella dei profughi siriani o dei rohingya in Myanmar. Questo vero e proprio “esodo” trova giustificazione nel clima di insicurezza e violenza generalizzata, nella mancanza di cibo e di medicinali, nell’impossibilità di accedere ai servizi sociali essenziali e nella perdita del reddito, frutto di una tremenda crisi economica, oltre che sociale e politica, iniziata con Chávez e radicalizzata con Maduro.

Secondo l’Observatório de la Voz da Diáspora Venezuelana, che ha elaborato uno dei primi studi in merito al fenomeno, nel 2016 si sono registrate 28.479 morti violente (89 ogni 100 mila persone – a Londra lo stesso dato è di 1,6 ogni 100 mila). Soltanto la Siria e la Somalia sono più pericolose.  Il FMI stima l’inflazione intorno al 13000% e che, entro la fine del 2018, l’economia venezuelana sarà la metà di quello che era nel 2013. Un terzo dei venezuelani mangia meno di due pasti al giorno e, secondo un’indagine su 6.500 famiglie, il 74% della popolazione perde in media 8,9 kg all’anno. Circa l’80% dei venezuelani vive sotto la soglia di povertà, nel Paese mancano beni essenziali come cibo e medicine e i CLAP (Comitati Locali di Approvvigionamento e Produzione), organizzati per distribuire alimenti e beni alla popolazione in difficoltà, risultano insufficienti oltre a generare casi di corruzione e mercato secondario.

Fino al 1999 il Venezuela è stato un Paese di arrivo per i migranti sudamericani e non; dall’arrivo al potere di Hugo Chávez la tendenza si è invertita fino ad arrivare a trend in uscita drammatici dal 2014 ad oggi, pressoché in coincidenza con la presidenza Maduro. Se inizialmente a emigrare erano i cittadini più benestanti, spaventati dal clima rivoluzionario e in cerca di stabilità verso gli Stati Uniti o l’Europa, negli ultimi quattro anni la situazione è radicalmente cambiata. La crisi economica ha ridotto drasticamente il tenore di vita dei ceti medi e aggravato le condizioni dei cittadini intorno alla soglia di povertà. Inizialmente molti erano costretti a spostarsi fuori dai confini per reperire beni di prima necessità, con il tempo gran parte di loro ha cominciato a non fare più ritorno in Venezuela.

Gli ultimi dati disponibili inseriti nel rapporto UNHCR dello scorso settembre segnalano circa 2,648 milioni di Venezuelani che vivono fuori dal loro Paese, di cui circa 1,9 sono emigrati dal 2015 e per il 70% verso altri paesi della regione sudamericana.  Tali dati non possono, ovviamente, contenere i numeri dell’immigrazione clandestina, verosimilmente aumentata nell’ultimo biennio in concomitanza con un inasprimento dei controlli alle frontiere degli Stati confinanti e del clima di insofferenza verso gli immigrati venezuelani.

L’UNHCR riporta che dal 2014 il numero di cittadini venezuelani in cerca di asilo nel mondo è aumentato del 2.000%.  In merito, l’Alto commissariato ONU per i rifugiati si è occupato, nel marzo 2018, di aggiornare le linee guida rivolte agli Stati cercando di incoraggiarli a garantire ai cittadini venezuelani l’accesso sul proprio territorio e alle procedure di asilo. Tra il 2014 e il 2018 quasi 350 mila venezuelani hanno presentato domanda di asilo in uno Stato terzo, 94 mila solo lo scorso anno, con una percentuale totale altissima di richieste in Perù (circa 133 mila).  Sono molti però quelli che optano o cercano altre forme di uscita legale: tra il 2015 e il 2018 sono state presentate circa 966 mila domande tra visti, permessi di soggiorno temporanei o altre forme di regolarizzazione per uscire dal Paese e poter usufruire di garanzie essenziali come quelle relative ad assistenza sanitaria, istruzione, accesso al lavoro o ricongiungimento familiare.

L’UNHCR ha riconosciuto il grande valore della Dichiarazione di Cartagena del 1984 che, sull’impronta della Convenzione ONU del 1951, tutela lo status dei rifugiati; questa, a sua volta basata sull’articolo 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, riconosce il diritto delle persone a chiedere l’asilo dalle persecuzioni in altri paesi. Tale status deve essere riconosciuto a “Chiunque nel giustificato timore d’essere perseguitato per ragioni di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi”. L’Alto commissariato ONU ha voluto specificare come, benché i venezuelani non si trovino in gran parte nelle condizioni di ottenere asilo politico, è evidente che tutti necessitino di protezione internazionale non essendo in condizione di tornare nel Paese di origine a causa dell’elevata instabilità sociale, economica e politica e, pertanto, tutti gli Stati terzi coinvolti nella crisi migratoria devono cooperare al fine di garantire un’adeguata gestione della stessa.

A tutto ciò si aggiungono le persone che, per volontà o necessità, rimangono fuori da tali meccanismi, senza alcun documento di viaggio o permesso di soggiorno legale nei Paesi dove transitano. Questo li rende invisibili o quantomeno inestimabili in sede di monitoraggio, ma sopratutto particolarmente vulnerabili ed esposti a fenomeni come sfruttamento, violenze plurime e xenofobia.

Reazioni e tensioni internazionali

Non sono mancati incontri internazionali e interregionali per cercare forme di coordinamento e supporto nel monitoraggio e nella gestione del fenomeno.

L’UNHCR e l’IOM si sono impegnati nominando Eduardo Stein Joint Special Representative, con il mandato di promuovere il dialogo e la mediazione necessaria alle soluzioni umanitarie da mettere in campo, in particolare riguardo l’accesso al territorio di Stati terzi, la protezione dei rifugiati e il rispetto della legalità nell’accoglienza.

La Commissione interamericana per i diritti dell’uomo è intervenuta con una risoluzione (02/2018) per sollecitare la solidarietà di tutti gli Stati della regione e il riconoscimento della protezione internazionale ai venezuelani, nonché offrendo assistenza tecnica nell’elaborazione e implementazione di strategie comuni.

Il 3 settembre 13 delegati di Paesi latinoamericani (Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Messico, Panamá, Paraguay, Perù, Uruguay e Repubblica Dominicana) riuniti in Ecuador, in assenza però di un rappresentante del governo Maduro, hanno discusso delle ricadute dei flussi migratori sulla regione. Il documento approvato a Quito chiede al Venezuela di affrontare il problema dei tempi di concessione di passaporti per i migranti e di accettare gli aiuti umanitari; i firmatari si impegnano, inoltre, a “cooperare secondo le forme più adeguate e opportune al fine di offrire alle migliaia di sfollati assistenza umanitaria, meccanismi per rimanere nel territorio del paese in questione da immigrato regolare e strumenti per combattere i traffici illeciti e la tratta di migranti”.

A livello nazionale molti Stati stanno adottando soluzioni straordinarie per far fronte alla situazione e nell’ultimo anno, con l’aggravarsi della crisi, sono cresciute le tensioni anche nei Paesi più solidali.

Ecuador e Perù hanno modificato le norme relative all’entrata: se prima era sufficiente possedere la Carta d’identità, dal 25 agosto 2018 serve un passaporto, il che richiede non solo tempi più lunghi, ma anche una cifra che si aggira intorno ai 200 dollari americani, impossibile da pagare per un venezuelano medio. La Colombia ha criticato fortemente tale scelta, per il rischio del cd effetto tappo di bottiglia: sono circa 4 mila le persone che al giorno percorrono la rotta colombiana, per poi transitare, spesso,  proprio verso il Perù o l’Ecuador. Maggiori difficoltà in entrata in questi due Paesi significano automaticamente un aggravio sul governo di Bogotà e, soprattutto, centinaia di migranti bloccati alle frontiere. Tensioni si registrano anche in Brasile, dove ad agosto è stato incendiato il campo di accoglienza di Pacaraima, ossia il principale varco di accesso al Paese con una stima di circa 400 migranti al giorno.

Maduro ha dovuto affrontare molte tensioni in sede ALBA (Alianza Bolivariana para nuestra América), l’organismo internazionale fondato nel 2004 per iniziativa di Hugo Chávez e Fidel Castro e basato sulla cooperazione tra i governi socialisti della regione. All’ultimo vertice di Caracas, a inizio 2018, tutti i membri avevano condannato le ingerenze straniere in Venezuela, dichiarando inammissibile l’esclusione del Paese dall’ottavo vertice OSA di Lima ad aprile. Se in quell’occasione tutti erano concordi sulla necessità di rafforzare la cooperazione e il supporto reciproco come risposta alla volontà statunitense di seminare divisione nella Regione, non sono tardate le defezioni. Il 23 agosto, l’Ecuador ha annunciato la sua uscita dal gruppo ALBA proprio per condannare la passività del governo Maduro nell’affrontare la crisi economica e politica che causa la fuoriuscita in massa di venezuelani dal Paese.

Il 26 settembre i governi di Argentina, Cile, Colombia, Paraguay, Perù e Canada hanno formalmente richiesto alla Corte penale internazionale di aprire un’indagine contro alcuni funzionari venezuelani di alto livello per abusi commessi dal Governo Maduro a partire dal 2014, ossia dall’inizio delle repressioni di piazza. Già lo scorso anno l’attenzione della Corte dell’Aia era stata sollecitata per indagare sull’erede di Chávez e su alcuni suoi ministri. Nello specifico si parlava di presunto omicidio, tra il 2015 e il 2017, di circa ottomila persone, nonché di tortura, detenzione arbitraria, violazione di domicilio e sottoposizione di civili al giudizio di tribunali militari per ragioni politiche.

Sulla crisi migratoria venezuelana, e tutto ciò che l’ha generata, si giocano gli equilibri geopolitici del continente americano: a sud le sinergie dell’ALBA e i pericoli dei populismi; a nord gli USA sono preoccupati di perdere uno dei principali fornitori di greggio e temono alleanze con Cina, Russia, India e Cuba, che hanno già fatto endorsement a favore dell’amministrazione venezuelana.

Le elezioni del 21 maggio 2018 hanno riconfermato Maduro per un secondo mandato fino al 2025, seppur con un tasso di astensionismo superiore al 50% e fortissime contestazioni in merito alla convocazione e allo svolgimento della tornata elettorale. Gli USA sono il baluardo dell’opposizione venezuelana, ancorata a un passivo anti-chavismo e in cerca di alternative valide su ogni piano. L’amministrazione Trump ha dichiarato il Venezuela “una minaccia inusuale e straordinaria contro la sicurezza nazionale e la politica estera degli Stati Uniti” e alla vigilia del voto dello scorso maggio gli Stati Uniti hanno accusato Maduro di approfittare direttamente dal narcotraffico. Questo non è stato sufficiente a scalfire il risultato elettorale, ma rientra in una strategia più ampia che Raul Castro ha definito come ripresa della Dottrina Monroe, il noto strumento dell’imperialismo statunitense in America Latina.

Fonti e Approfondimenti

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