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Soia, il filo sottile tra la Cina e l’ecosistema sudamericano

Soia

@Dallas Krentzel - Flickr - CC BY 2.0

Esiste una porzione del Sudamerica ribattezzata significativamente come “Repubblica Unita della Soia”. La zona – che si estende per buona parte del Brasile, nella quasi totalità dell’Argentina e in larghe zone di Bolivia, Paraguay e Uruguay – ha preso il nome da una campagna pubblicitaria lanciata dalla multinazionale svizzera Syngenta, dal 2017 di proprietà della cinese ChemChina, leader mondiale nel settore della vendita di semi e pesticidi. 

Se in questi luoghi fino a cinquant’anni fa le coltivazioni erano le più disparate, oggi è la soia a monopolizzare lo scenario espandendosi in enormi distese di territorio lavorato con la monocoltura del legume. A causa dell’enorme richiesta internazionale,  alla soia sono stati destinati circa 46 milioni di ettari di terra della Repubblica, un’area che corrisponde quasi al doppio della superficie dell’intero Regno Unito. 

Solo nel Mato Grosso, Stato del Brasile appena a sud dell’Amazzonia, dagli anni Ottanta è stata creata una zona in cui attualmente alla coltivazione della soia sono destinati 7 milioni di ettari, rispetto ai 3 milioni del 2000. Il cambiamento nel luogo – dagli abitanti definito cerrado – non è avvenuto in maniera naturale, ma attraverso una riconversione del suolo fatta con l’obiettivo di rendere il terreno adatto alla coltivazione della soia. Per fare ciò, sono state utilizzate tecniche invasive, concimi e pesticidi chimici che hanno avuto un impatto drastico sul territorio di questa zona di America latina. Oggi, il Brasile produce circa 117 milioni di tonnellate all’anno di soia ed è il primo consumatore al mondo di pesticidi. 

La domanda, dunque, dovrebbe apparire scontata: perché la richiesta di soia è cresciuta a tal punto da rendere conveniente produrre esclusivamente questo legume?

Le cause dell’aumento della domanda di soia

Bisogna subito rendere chiaro che l’aumento della domanda non dipende dall’incremento dell’utilizzo del legume nelle diete vegane e vegetariane, anzi. La motivazione è da ricercare esattamente nel suo opposto, ovvero nella vertiginosa avanzata della presenza di carne sulle tavole di tutto il mondo.

Se fino agli Sessanta il consumo di carne in Europa era mediamente di circa 50 chili all’anno per persona – mentre negli Stati Uniti si attestava già intorno agli 89 chili – nel 2017 la quantità annuale di prodotto mangiata da ogni singolo abitante del Vecchio Continente ha raggiunto la quota di 80,6 chili. In realtà, a fare la differenza maggiore nel computo totale è un altro attore del quale parleremo più avanti, la Cina, passata da una media di 4 chili all’anno per persona agli attuali 58,2.  Intanto, per fissare i numeri di questa evoluzione, è importante dire che la produzione mondiale di carne è passata dai 71 milioni di tonnellate nel 1961 ai 323 milioni di tonnellate del 2017, portando così a 70 miliardi il numero di animali uccisi ogni anno.

Ma, anche se molti di noi ne sono all’oscuro, per sfamare gli animali dei quali ci nutriamo è necessario produrre una quantità elevatissima di soia, soprattutto OGM. Essa, infatti, è un alimento fondamentale in tutte le tipologie di allevamenti intensivi a causa dell’altissima concentrazione di proteine di alto valore biologico e della presenza di aminoacidi limitanti, soprattutto la lisina. I mangimi per i maiali sono composti per il 20% di semi oleosi provenienti da questo legume e, ad oggi, il 70% della produzione mondiale di soia è destinato a sfamare il bestiame degli allevamenti industriali. 

Coltivare la soia sufficiente a sfamare tutti questi animali necessitava – e necessita tuttora – di un vastissimo territorio. I grandi attori internazionali, specialmente la Cina, hanno così dovuto incentivare gli agricoltori di tutto il mondo a modificare le proprie coltivazioni, rendendogli conveniente la produzione del legume, grazie alle importazioni. Quando ciò non è accettato da chi quelle terre le vive e le lavora, una delle tecniche più utilizzate da individui, governi o aziende – soprattutto multinazionali – è quella di comprare in blocco enormi appezzamenti in zone fertili, per riconvertirli in base ai propri interessi; tutto ciò passando sopra ai diritti dei piccoli agricoltori, costretti ad abbandonare la propria terra, e distruggendo il precedente ecosistema, che spesso era ricco di biodiversità come nel caso della Repubblica Unita della Soia. Questo fenomeno viene definito land grabbing (letteralmente, accaparramento della terra) e minaccia la conservazione dell’ambiente, la sicurezza alimentare e i diritti delle popolazioni locali, oltre a creare un numero sempre crescente di migranti economici.

Il ruolo della Cina

Come detto, la Cina è la nazione nella quale, in proporzione,  il consumo di carne è aumentato  più di tutte. Con ciò, è aumentato in maniera esponenziale anche il numero di animali presenti nel Paese, facendo raggiungere al gigante asiatico la quota di 700 milioni di suini allevati ogni anno, la metà dei capi di tutto il mondo. Come visto in precedenza, però, i mangimi per nutrire il bestiame hanno un’elevata presenza di soia e la Cina, nonostante l’estensione, non ha il territorio adatto per la coltivazione della quantità richiesta. Per questo motivo, nonostante la sua politica spesso autarchica nelle importazioni, Pechino ha dovuto liberalizzare le importazioni di soia, attingendo principalmente dal mercato latinoamericano e da quello statunitense. 

La guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti ha inevitabilmente influito anche sul commercio della soia. Nel botta e risposta tra i due colossi mondiali, il governo di Xi Jinping ha infatti applicato al legume prodotto negli USA – anche se la misura è stata applicata integralmente solo nel novembre del 2018 – un dazio del 25%, aumentando di conseguenza il suo import dall’America latina, specialmente dal Brasile. La scelta della Cina ha così portato gli Stati latinoamericani produttori di soia ad aumentarne la coltivazione, già altissima. Per fare ciò, la frontiera agricola brasiliana si è spostata verso nord andando a rosicchiare, un pezzo alla volta, parti importanti della foresta amazzonica. 

Se  Lula aveva posto un freno allo sfruttamento intensivo delle terre brasiliane, già con il governo Temer le cose stavano cambiando. Con l’avvento di Jair Bolsonaro alla presidenza del Brasile, il trend ha finito per invertirsi totalmente. Come vi avevamo raccontato in un nostro precedente articolo, infatti, il nuovo presidente brasiliano era riuscito a vincere le elezioni soprattutto grazie all’appoggio dei grandi coltivatori di soia, garantendogli il via libera allo sfruttamento delle terre e privando gli indigeni – che in quei luoghi vivono – di ogni diritto. Non a caso, il primo atto compiuto da Bolsonaro in qualità di presidente è stato proprio varare una serie di leggi in favore dei grandi produttori e dei magnati dell’industria chimica destinata alle coltivazioni.

Il mese di febbraio del 2019 ha confermato questa tendenza. Il segretario speciale per gli affari strategici Maynard Marques de Santa Rosa ha, infatti, annunciato in questo mese un piano per integrare nel sistema produttivo nazionale la zona degli affluenti a nord del Rio delle Amazzoni. In questo grande piano rientrano anche tre progetti di infrastrutture – una diga idroelettrica, un ponte e un’estensione autostradale – che arriveranno a toccare ampie zone di foresta pluviale. Il progetto è comunque ancora in fase di discussione al Parlamento brasiliano.

Dietro questa corsa alla soia, ci sono aziende che ne gestiscono il commercio, come la francese Louis Dreyfus, le statunitensi Cargill, Archer Daniel Midland, Bunge, il conglomerato cinese Cofco e la brasiliana Amaggi, di proprietà della famiglia di Blairo Maggi, ex governatore del Mato Grosso ed ex ministro dell’agricoltura. Tutti questi attori, insieme, gestiscono il 57% delle esportazioni di soia brasiliane. 

Conclusioni

Se il trend del consumo di carne non diminuirà, secondo il professore e ricercatore americano Tony Weis  – autore di The Global Food Economy: The Battle for the Future of Farming – nel 2050 bisognerà impiegare due terzi delle terre coltivabili, destinandole alla soia, e le conseguenze sul nostro pianeta saranno devastanti: la biodiversità finirà per lasciare il posto a distese di monocolture, e l’Amazzonia, polmone della Terra, scomparirà un pezzo alla volta. A livello macro sono quindi necessarie importanti regolamentazioni per far sì che questo sistema risulti sempre meno conveniente per giganti mondiali e grandi multinazionali; a livello micro, nel nostro piccolo, dobbiamo fare la nostra parte cercando di misurare attentamente il consumo di carne quotidiano e scegliendo, ove possibile, di comprare da piccoli allevatori scollegati dalla grande industria alimentare. 

Fonti e approfondimenti:

Ian Verrender, Is globalisation coming to an end?, ABC, 19/06/2016

Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI), Stefano Liberti, Il futuro del cibo. Soia e geopolitica: viaggio nella filiera alimentare che sta cambiando il mondo

Francesco Betrò, Il Brasile ha abbandonato l’Amazzonia (e chi la difende), Lo Spiegone, 23/07/2017

Francesco Betrò, La svendita dell’Amazzonia è una questione politica, Lo Spiegone, 07/09/2017

Francesco Betrò, Omofobo e misogino, chi è il prossimo (probabile) presidente brasiliano, Lo Spiegone, 10/10/2018

Francesca Rongaroli, Lo “sviluppo” in Amazzonia, secondo Bolsonaro, Lo Spiegone, 10/03/2019

Marta Gatti, Diritto alla terra negato in Brasile, Osservatorio Diritti, 04/10/2017

Matteo Savi, Lo scontro tra “Land Grabbing e diritti delle comunità”, Lo Spiegone, 15/05/2018

World Wide Fund for Nature, WWF, L’Amazzonia nel piatto, 2014

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