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Cosa rimane di Hamas e della sua capacità operativa

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Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

A quasi un anno dagli attacchi del 7 ottobre la diplomazia internazionale è stata incapace di negoziare un accordo per il cessate il fuoco a Gaza. La vita di più di due milioni di persone è stata compromessa in maniera irreversibile. Il dolore scaturito da questa indiscriminata azione militare israeliana, che non accenna ad arrestarsi, creerà un trauma capace di affliggere anche le generazioni dei figli di chi l’ha vissuto. 

La retorica da entrambe le parti nel frattempo accompagna il prosieguo delle ostilità, parte di un più vasto teatro di guerra regionale. Per quanto duramente colpita dallo Stato ebraico, tuttavia, Hamas non sembra cedere. Ma cosa rimane oggi della sua organizzazione e del suo consenso nella Striscia di Gaza?

I termini del conflitto 

Gli obiettivi dichiarati da entrambi gli attori sono pura propaganda. Israele non sarà mai in grado di raggiungere una “vittoria totale”, finché essa verrà intesa come eliminazione della presenza di Hamas dalla Striscia. Un obiettivo più realistico, anche a detta di diverse fonti di intelligence Usa, sarebbe quello di mirare ad indebolire il gruppo guidato da Yahya Sinwar. Ovvero rendere impossibile per l’organizzazione amministrare politicamente e militarmente l’enclave. Così da scongiurare futuri attacchi simili a quelli del 7 ottobre. 

Dall’altro lato la volontà di distruggere lo Stato di Israele e riunificare la Palestina in un territorio unitario è altrettanto irrealizzabile. Dal punto di vista di Hamas, che ancora gode di un diffuso sostegno tra la popolazione, mantenere un parziale controllo delle attività politiche e amministrative che gestisce a Gaza sin dal 2007 vorrebbe dire aver vinto la guerra. Infatti, nonostante alcuni anni fa il gruppo avesse fatto un passo indietro accettando i confini stabiliti nel 1967, la volontà Israeliana di continuare l’espansione degli insediamenti illegali e l’aggravarsi dell’occupazione ha indurito pesantemente le posizioni di Hamas. Fino a rendere l’opzione militare l’unica presa in considerazione.

Lo Stato ebraico ha storicamente sfruttato il conflitto in maniera da forgiare un senso di appartenenza e un’identità israeliana. Il rischio oggi è che posizioni così estreme e il prolungarsi senza precedenti della guerra possano avere l’effetto opposto. Nonostante ciò il governo di Tel Aviv sembra intenzionato a un allargamento incontrollato del conflitto. Se l’Iran e i suoi alleati decidessero di entrare apertamente in guerra, questa decisione potrebbe risultare fatale. Tale ipotesi non sembra essere l’intenzione di nessuno, non dell’Iran e tantomeno degli Stati Uniti, che in caso di allargamento sarebbero forzati a intervenire a difesa dell’alleato israeliano. Ma rimane uno scenario possibile. 

Gli effettivi di Hamas 

Secondo alti ufficiali dell’esercito statunitense intervistati da Reuters, le stime sugli effettivi delle unità militari di Hamas ammontavano a 25 mila soldati prima del 7 ottobre. Ad oggi tale esercito risulta più che dimezzato. Le IDF non starebbero più operando in scontri diretti contro i miliziani del gruppo, bensì si troverebbero a dover fronteggiare operazioni di sabotaggio e attacchi lampo all’interno della Striscia. Nello specifico Hamas impiega trappole esplosive, posizionamento di cecchini e imboscate per evitare scontri diretti con il nemico.

Per Hamas, la rete di tunnel sotterranei che garantisce di condurre tali operazioni è un’infrastruttura dal grande peso strategico. Costruita nell’arco degli ultimi 17 anni, la rete ha una lunghezza stimata di 500 km. Una vera e propria città sotterranea dotata di impianti di areazione, idraulici ed elettricità. Secondo le fonti statunitensi e le stesse IDF il 70% di tali infrastrutture sarebbero ancora operative.

L’operazione Atlantis

Nonostante gli intensi bombardamenti dal cielo, l’avanzata dell’esercito di Tel Aviv sul campo e i rocamboleschi tentativi di inondare i tunnel, i miliziani di Hamas sono ancora in grado di organizzare imboscate e perpetrare azioni di guerriglia. Nonché di scomparire sottoterra quando necessario.

Le IDF hanno investito ingenti mezzi, risorse economiche ma soprattutto tempo per cercare di arginare l’operatività delle truppe di Hamas. E costringere i miliziani a uscire allo scoperto, abbandonando i tunnel nei quali si nascondono. Tale operazione è stata denominata Atlantis. Nella pratica si è cercato di inondare i tunnel con acqua di mare, risultato: un disastro. Non solo si è ignorato il rischio di coinvolgere gli ostaggi, che con tutta probabilità si trovano nella rete di tunnel, ma il piano è stato semplicemente inefficace.

Si prospettava un cambio di paradigma in grado di decidere le sorti del conflitto a seguito di questa operazione. Il fallimento ha coinvolto interi reparti delle IDF per mesi. La progettazione, il mantenimento e la sorveglianza delle infrastrutture necessarie per inondare i tunnel hanno diretto ingenti risorse umane ed economiche verso un fallimento che diversi ingegneri avevano predetto. Il semplice impiego di camere stagne capaci di sigillare alcune sezioni dei tunnel ha impedito la compromissione dell’intero sistema.

L’organizzazione di Hamas 

La struttura di potere di Hamas è molto complessa, riunendo diverse componenti. Il  Politburo è l’ufficio politico che con il supporto della Shura (consiglio) ha potere di delineare la politica economica, sociale e militare del movimento. 

L’ala militare è rappresentata dalle brigate Izz ad-Din al-Qassam, organizzate in una struttura operativa e di comando su suddivisioni regionali semi indipendenti. Tale decentramento permette di non compromettere l’intera macchina bellica in caso di cattura o eliminazione di una divisione. 

La rete Daʿwa rappresenta invece ciò che possiamo definire la struttura statale dell’organizzazione. Si occupa dei servizi sociali quali educazione, sanità, tassazione e sussidi alla popolazione. È l’organo fondativo del movimento. Rimane fondamentale in quanto capace di generare supporto sia economico che politico. Senza i quali Hamas non potrebbe esistere.

La caccia ai leader 

L’eliminazione dei membri del Politburo dell’organizzazione è una delle dimensioni più intricate in questo conflitto. Da un lato rappresenta il raggiungimento degli obbiettivi che dovrebbero giustificare, sia a livello interno che internazionale, l’atrocità di questa offensiva. Dall’altro può potenzialmente mettere a rischio l’esistenza stessa di Israele. La caccia ai leader dell’organizzazione ha fomentato il conflitto e creato una frattura interna alla società Israeliana che oggi pare insanabile. 

Vi sono inoltre una serie di leader in esilio, forzato o volontario che contribuiscono alle relazioni internazionali del movimento da Doha al Libano, dall’Iran fino alla Siria. Israele ha colpito duramente la struttura portante di Hamas in questi mesi. Abbiamo conferma dell’uccisione di almeno due membri del Politburo, Ismail Haniyeh e Saleh al-Arouri – oltre a quella di Yahya Sinwar ancora da confermare. 

Il primo era a capo dell’ufficio politico dell’organizzazione ed era uno dei principali interlocutori dei mediatori internazionali impegnati per un cessate il fuoco. La sua uccisione getta dubbi sulle volontà dichiarata da Israele di impegno per una risoluzione diplomatica delle atrocità. Colpendo uno dei massimi leader di Hamas a Teheran, Israele ha reso come mai prima di allora plausibile la possibilità di una guerra aperta in tutta la regione. Saleh al-Arouri era invece a capo della direzione delle operazioni in Cisgiordania, ucciso a Beirut a inizio gennaio 2024. Aveva stretti legami con le brigate Izz ad-Din al-Qassam sin dai tempi della loro fondazione ed espansione nell’area della West Bank.

Inoltre, sono stati sicuramente uccisi da Israele almeno due comandanti, figure di primo piano dell’ala militare del movimento: Mohammed Deif e il suo vice Marwan Issa, i quali hanno guidato per anni le operazioni militari e attacchi contro obiettivi israeliani.

Hamas a Gaza dopo il 7 ottobre

Su quanto sostegno può ancora poggiare la presenza di Hamas nella Striscia alla fine della guerra, e chi può eventualmente prendere il suo posto? Questa è forse la domanda cruciale che bisogna porsi per prevedere le sorti di Hamas. Il gruppo deve la maggior parte del consenso di cui gode all’interventismo militare intransigente nei confronti dell’occupazione coloniale israeliana.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha fallito nell’intercettare il malcontento della popolazione palestinese nei confronti di decennali e inconcludenti tentativi diplomatici di migliorare le condizioni dell’occupazione. Hamas ha saputo invece rispondere alla pancia del malcontento popolare. E alla sete di vendetta scaturita da decenni di occupazione israeliana e abusi di potere da parte dell’Anp. 

Un conto è però supportare questa ideologia, un altro è viverne le conseguenze in maniera diretta e letale per quasi un anno, senza tregua, sotto incessanti bombardamenti e senza un luogo sicuro dove rifugiarsi, mentre tutt’attorno la morte, l’epidemia, la carestia e la disperazione sono le uniche realtà visibili. Sete di vendetta per i crimini commessi da Israele o risentimento verso chi può essere imputato di averli provocati in maniera così devastante?

Il consenso di Hamas

Nel dicembre 2023 il Palestinian Center for Policy and Survey Research (PCPSR), pubblicava i dati di un sondaggio condotto nella West Bank (750 intervistati) e a Gaza (485 intervistati). È emerso che il 72% degli intervistati riteneva ancora legittima l’azione militare intrapresa da Hamas contro Israele. Questo non deve essere inteso come supporto alle azioni criminali perpetrate da Hamas il 7 ottobre e ampiamente propagandate da Israele. 

Bisogna sforzarsi di entrare nell’ottica di chi subisce un’occupazione violenta da oltre 75 anni, in un contesto di guerra, dove persone innocenti sono uccise, incarcerate, private di diritti ogni giorno. Ovviamente la popolazione civile israeliana vive le conseguenze di questo clima di conflitto in maniera analoga. Rispetto alla controparte palestinese, gode di uno status altamente privilegiato rispetto alla controparte araba nel paese.

Inoltre, bisogna considerare il livello di sfiducia e disillusione riservato alle notizie che compaiono nella stampa internazionale, e anche questo vale per entrambe le parti. L’85% degli intervistati arabi palestinesi ha dichiarato di non aver visto, o di non credere, ai video delle violenze dei crimini di guerra perpetrati da Hamas il 7 ottobre. Solo il 10% crede invece che siano stati commessi.

Soprattutto a causa delle politiche provocatorie implementate dall’amministrazione atatunitense  guidata da Trump, tra il 2017 e il 2021 il supporto verso Hamas è cresciuto sia a Gaza che nella West Bank in maniera considerevole. Dal 50% al 55% nella Striscia  e dal 35% al 54% in Cisgiordania. Picco che a dicembre 2023 ha raggiunto il 68% in quest’ultima area, a causa del conflitto in corso a Gaza.

Proprio a Gaza si è assistito a diffuse manifestazioni di supporto verso le azioni violente di Hamas condotte il 7 ottobre. Ma l’effetto logorante della guerra ha ridimensionato il supporto iniziale.

Il futuro politico di Gaza

Le possibili alternative di un futuro politico per Gaza sono molteplici e dipendono in gran parte da come Israele deciderà di agire: un ripristino di un governo dell’Autorità Nazionale Palestinese a Gaza, con il supporto di Stati Uniti e mondo arabo, oppure la ripresa dell’occupazione israeliana della Striscia, operazione complessa, costosa e che non gode del supporto USA. Molto dipende dalle prossime elezioni statunitensi.

Netanyahu sembra intenzionato a ritardare la resa dei conti politica interna sino a quando non sarà chiaro chi diverrà il prossimo inquilino della Casa Bianca. Una nuova coalizione di governo a Tel Aviv, capace di escludere tutte le componenti estremiste e religiose di destra, potrebbe anche essere un’altra opzione. Gli obiettivi del post conflitto, così come del conflitto stesso, sono ancora molto incerti e sembra mancare una strategia unitaria perseguibile.

Il futuro politico di Hamas

Hamas, nel frattempo, regge il colpo. La storia dovrebbe aver insegnato che non si combatte il terrorismo uccidendo i terroristi in quanto si è sempre rivelata una strategia inefficace. La trappola di Hamas era anche intesa a incastrare Israele in ciò che ricorda altri grandi fallimenti di eserciti ultratecnologici e militarmente superiori nel combattere un nemico fortemente motivato, in possesso di una minuziosa conoscenza del campo di battaglia e forte del sostegno della popolazione per cui lotta. Si veda il caso del Vietnam e dall’Afghanistan. In Israele non manca certo il supporto verso le IDF. Ma la frammentazione politica e societaria è sempre più profonda.

La squadra di governo al potere lotta più per la sua stessa sopravvivenza politica che per la sbandierata causa del ritorno degli ostaggi e il fallimento di intelligence che il 7 ottobre rappresenta dimostra come Israele non sarà mai al sicuro finché non abbandonerà il progetto sionista di colonizzazione d’insediamento della Palestina e di pulizia etnica.

Fonti e approfondimenti 

ECFR. Mapping Palestinian Politics 

Elbaum, J., “Is It Possible to Destroy Hamas? Experts Weigh in as US Rhetoric Shifts”, Algemeiner, 16/05/2024

Hoffman, B., “How Much of a Threat Does Hamas Still Pose to Israel?”, Council on Foreign Relations, 14/06/2024 

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