Quanto successo in Siria nelle ultime settimane, con i ribelli siriani che hanno scalzato Bashar al-Asad, ha complicato uno scenario regionale già profondamente fragile e intricato, dominato da una molteplicità di attori locali, regionali e internazionali, e da una guerra in corso che non pare vicina alla fine. La caduta de facto del regime ba’thista degli al-Asad, che per cinquant’anni ha governato il Paese, rappresenta una svolta storica, destinata a ridefinire gli equilibri della regione nei prossimi anni. È ormai evidente che il Medio Oriente come lo abbiamo conosciuto negli ultimi due decenni stia entrando in una nuova fase, segnata da un complesso ridimensionamento dei rapporti di forza e di potere.
Un elemento su cui gli analisti concordano è però la tempestività con cui i cosiddetti “ribelli”, un rimescolamento di gruppi di opposizione al regime di Bashar al-Asad, siano riusciti a conquistare il controllo della maggior parte del territorio siriano, incluse le principali città e la capitale Damasco. Questi gruppi, tanto eterogenei quanto supportati da attori esterni con agende spesso divergenti, restano al centro delle speculazioni sul futuro del Paese. Mentre il ruolo giocato dalle potenze regionali e internazionali rimane ancora in parte da decifrare, una cosa appare chiara: alcune di queste fazioni avranno un peso determinante nel plasmare la Siria dei prossimi anni.
La direzione futura della Siria rimane incerta, suscitando interrogativi e preoccupazioni sia a livello locale che internazionale. La caduta del regime di Bashar al-Asad ha generato reazioni contrastanti: in molte aree del Paese, dove la repressione del regime era più stringente, si sono registrati episodi di gioia e celebrazione, con la popolazione che festeggia la fine di decenni di oppressione.
Al contrario, i gruppi curdi nel nord e nell’est del Paese stanno affrontando un momento di grande incertezza, preoccupati per possibili minacce alla loro sicurezza e autonomia in un contesto già fragile. Allo stesso tempo, tra molti siriani prevalgono cautela e apprensione, consapevoli delle sfide che attendono il Paese in questa delicata fase di transizione.
La conformazione dei ribelli siriani
Senza voler entrare nel complesso mondo delle forze siriane di opposizione, tre sono i gruppi principali da tenere in considerazione.
Le Forze democratiche siriane (Sdf), sostenute dagli Stati Uniti, rappresentano un’alleanza che ha svolto un ruolo cruciale nel combattere lo Stato Islamico (Isis) e nel cercare di consolidare un’autonomia curda nel nord-est della Siria. Attualmente, le Sdf controllano una vasta porzione di territorio in questa regione, che comprende sia le zone storicamente a maggioranza curda sia le aree recentemente occupate a est del fiume Eufrate.
L’Esercito Nazionale Siriano (Sna), sostenuto dalla Turchia, è un gruppo formato da diverse fazioni di opposizione armata. Il supporto turco ha garantito loro risorse e capacità operative significative, ma ha anche legato le loro strategie agli interessi di Ankara, il cui coinvolgimento e obiettivi nella caduta del regime siriano sono ancora da chiarire.
Hay’at Tahrir al-Sham (Hts) (Movimento per la liberazione del Levante) è una coalizione di diversi gruppi sotto la guida di Abu Mohammed al-Julani, che ha svolto un ruolo determinante nella caduta del regime e nella conquista delle principali città siriane. Tuttavia, Hts nella sua forma attuale esiste solo dal 2017.
Inizialmente affiliato ad al-Qaeda attraverso il Fronte al-Nusra, sotto la leadership di al-Julani, il gruppo ha progressivamente abbandonato le sue radici jihadiste, tentando di ridefinirsi come un attore più “moderato” e concentrato esclusivamente sulla lotta contro il regime di Bashar al-Asad. Questa trasformazione, accompagnata da significativi cambiamenti ideologici e strategici, mira a ottenere una legittimità tanto locale quanto internazionale, puntando anche al riconoscimento della dignità e della sovranità statuale della Siria.
È probabile che Hay’at Tahrir al-Sham assuma un ruolo guida nella transizione post-regime in Siria. Tuttavia, permangono legittimi dubbi riguardo alla sua evoluzione: da gruppo jihadista affiliato ad al-Qaeda, Hts si propone ora come esercito di liberazione nazionale. Anche la gestione dei rapporti con gli altri principali gruppi di opposizione resta incerta.
Durante la presa di città chiave come Aleppo e Hama, ci sono state frizioni fra Hts e l’Sna sostenuto dalla Turchia. Inoltre, il futuro dei curdi e delle Forze democratiche siriane, che attualmente controllano una vasta porzione del Paese, è ancora da definire. Nelle ultime ore, sembra che Hts e le forze curde delle Sdf abbiano discusso una qualche forma di accordo, suggerendo una possibile apertura alla collaborazione.
Chi gestisce la transizione?
Incerto è quindi il futuro di una Siria guidata, non solo ma in gran parte, da ciò che sarà di Hay’at Tahrir al-Sham. Alcuni elementi del recente passato offrono però spunti di riflessione sul possibile approccio del gruppo al governo. Dal 2017, Hts ha costruito e gestito un governo parallelo nella regione di Idlib, nel nord-ovest della Siria.
Questa gestione si è caratterizzata come una sorta di tecnocrazia autoritaria, lontana dal modello di governo estremista di matrice islamista che molti avrebbero immaginato considerato il passato del gruppo. Pur operando in modo autoritario, Hts ha tentato di implementare un sistema di governance e servizi che, sebbene limitato e controverso, segna un’evoluzione rispetto alle sue radici jihadiste, suggerendo una strategia più pragmatica per consolidare il controllo e ottenere legittimità, sebbene non democratico in senso stretto.
L’approccio di Hts nella regione di Idlib è stato inoltre lontano da quello transnazionale proposto da al-Qaeda e Isis, facendo pensare a un gruppo che mira principalmente a consolidare il proprio controllo a livello locale e a presentarsi come una forza legittima all’interno della Siria.
La caduta del regime siriano si è verificata dunque con sorprendente rapidità e, per la maggior parte, senza un eccessivo spargimento di sangue, eccezion fatta per alcuni scontri con le forze russe nel nord della Siria nelle fasi iniziali dell’avanzata delle forze di opposizione.
Questo scenario ha evocato inevitabili paragoni con eventi simili nella regione, come la presa di Kabul da parte dei talebani nel 2021, pur evidenziando importanti differenze. Non si è trattato di un colpo di stato violento e con un ingente spargimento di sangue. È plausibile che una parte del regime di Bashar al-Asad abbia negoziato durante le avanzate delle forze di opposizione, cercando di preservare una continuità istituzionale e limitare il caos.
Sulla base di quanto riportato da Al-Jazeera, tutte le istituzioni statali rimarranno operative sotto la supervisione dell’attuale primo ministro Mohammad Ghazi al-Jalali, segnalando una volontà di evitare il collasso totale del sistema statale.
Ipotesi di regime change?
Questa apparente transizione ordinata pone una domanda cruciale: siamo di fronte a un nuovo regime change? Gli esempi di Afghanistan, Iraq e Libia offrono moniti severi sulla fragilità di simili processi. La storia recente insegna che il crollo di un regime autoritario, se non accompagnato da una solida visione politica e da un ampio consenso tra le parti, può gettare un Paese nel caos e in ulteriori conflitti prolungati.
La Siria, già devastata da oltre 13 anni di guerra civile e dal coinvolgimento nella guerra in corso con Israele, non può permettersi di seguire un percorso simile. Per questo, il modo in cui le nuove forze in campo gestiranno questa delicata fase di transizione sarà decisivo per evitare di ripetere gli errori di altre crisi regionali.