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La fine di un regime familiare: la (nuova?) Siria di al-Jawlani

siria Assad

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Il 2024 si è concluso in modo sconvolgente per i cittadini siriani: festa, gioia e tanta felicità per la presa del potere da parte di gruppi ribelli coordinati da Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) e la conseguente cacciata di Bashar al-Asad. Un’improvvisa fine del regime di quest’ultimo, che in 13 anni di guerra civile ha causato all’incirca mezzo milione di vittime e provocato sei milioni di rifugiati siriani in giro per il Medio Oriente e il resto del mondo. Un avvenimento che, tuttavia, non decreterà la fine del conflitto nel suo complesso e che, invece, provoca tanta incertezza. 

Il regime familiare e il ruolo del Ba’ath 

Per oltre cinquant’anni, il partito Ba’ath siriano, sotto la dinastia degli Asad, ha operato come un temuto strumento di repressione, governando la Siria con il pugno  di ferro fino a domenica 8 dicembre, quando è crollato sotto un’improvvisa offensiva dei ribelli guidati da HTS. Nel 2011, il presidente Bashar al-Asad ha reagito con violenza alle manifestazioni pacifiche per la democrazia che caratterizzarono la Primavera araba. Come il padre Hafez prima di lui, Bashar ha scelto la forza per reprimere qualsiasi forma di opposizione durante il suo periodo a capo del Paese. 

Il partito Ba’ath (il cui significato in lingua araba è “resurrezione”), fondato il 17 aprile 1947 da Michel Aflaq, un cristiano ortodosso, e Salah Bitar, un musulmano sunnita di formazione francese, sostiene l’unità araba. Nel 1953, il partito si è fuso con il Partito socialista arabo, guadagnando popolarità in diverse fasce della società, dagli intellettuali ai contadini, e incentivando la nascita di filiali in vari Paesi arabi, tra cui l’Iraq.

Un colpo di Stato militare dell’8 marzo 1963 portò il partito al potere in Siria; meno di tre anni dopo, un secondo colpo di Stato, vide il generale Hafez al-Asad estromettere i fondatori del partito, causando una scissione con il Ba’ath iracheno.Il 16 novembre 1970, un terzo colpo di Stato segnò l’inizio della dinastia Asad, appartenenti alla minoranza alawita, una diramazione dell’Islam sciita in un Paese a maggioranza musulmana sunnita, con Hafez al-Asad che divenne Capo di Stato. Il suo predecessore, Nureddin al-Atassi, fu incarcerato per i successivi 23 anni. 

L’anno seguente fu adottata una nuova costituzione, proclamando il partito Baath come “Capo dello Stato e della società” e introducendo il cosiddetto “referendum presidenziale”. Grazie a questo sistema, Hafez al-Asad fu eletto presidente e rimase in carica fino alla sua morte, avvenuta nel giugno del 2000. Durante i suoi tre decenni di governo, l’opposizione e i media furono silenziati, le proteste vietate e il Paese mantenne uno stato di emergenza permanente.

Per esempio, nel febbraio 1982 il regime represse brutalmente un’insurrezione della Fratellanza Musulmana nella città di Hama, con un numero di vittime stimato tra 10.000 e 40.000, ma impossibile da verificare a causa del controllo sui media. In Siria, la politica era semplice; senza opposizione, il partito Baath proponeva un “candidato” che veniva poi eletto tramite referendum. Sia Hafez che Bashar al-Asad furono “eletti” con oltre il 90% dei voti. Quando Hafez morì, Bashar non aveva l’età costituzionale per diventare presidente, ma un emendamento gli assicurò la successione, un atto denunciato dall’opposizione come l’instaurazione di una “repubblica ereditaria”.

Nel 2011, la Primavera araba, che era iniziata in Tunisia, si diffuse verso est attraverso Libia ed Egitto, raggiungendo la Siria a marzo. Questa rappresentava la più grande sfida al regime del partito Ba’ath. Nonostante le promesse di riforme, Bashar al-Asad rispose con violenza, schiacciando le proteste pro-democrazia. Il 22 febbraio 2012, il governo indisse un referendum su una nuova costituzione, ma ciò non impedì che la rivolta degenerasse rapidamente in una guerra civile che causò oltre mezzo milione di morti e milioni di sfollati. Quando i ribelli islamisti conquistarono Damasco dopo un’offensiva lampo durata meno di due settimane lo scorso dicembre, proclamarono “la fine di questo periodo buio e l’inizio di una nuova era per la Siria”, sottolineando con queste parole quanto il regime ba’athista abbia governato la popolazione siriana attraverso il terrore e la paura. 

Tra la Jihad e l’essere “presentabili”: cos’è Hay’at Tahrir al-Sham?

Hay’at Tahrir al-Sham (o Movimento per la Liberazione del Levante)è emerso come un attore centrale nel panorama jihadista globale, specialmente negli ultimi sviluppi che hanno portato alla destabilizzazione della dinastia degli Asad in Siria.

È stato proprio Ahmed al-Sharaa detto Abu Mohammed al-Jawlani, leader di HTS, a guidare l’insurrezione che ha portato alla caduta del regime siriano. Da allora, sembra però intenzionato a crearsi una nuova immagine. Il suo è diventato un volto noto nei media internazionali e un attore politico chiave nella Siria post-asadista, incontrando diplomatici di vari Paesi e apparendo frequentemente in televisione. Questo cambiamento è significativo, considerando che in passato era raro vederlo nei media. L’approccio di HTS, caratterizzato da ripetute affermazioni di rispetto per la diversità e il pluralismo siriano, ha portato alcuni osservatori a parlare di un jihadismo “diverso”.

Considerare il gruppo come realmente moderato e capace di abbracciare  pluralismo,  secolarismo e democrazia, risulterebbe un poco eccessivo. Tuttavia, il focus del gruppo sulla governance e sul localismo è un approccio che non è estraneo ai movimenti di stampo jihadista, la cui storia  ha visto fasi di attenzione sia verso obiettivi globali che localisti. Un esempio chiave è Abdullah Yusuf Azzam, la cui morte nel 1989 ha alterato gli equilibri di potere all’interno di al-Qaeda, facendo emergere una visione più globalista rispetto al jihad localista che questi promuoveva, focalizzato sulla distruzione di Israele e sulla creazione di uno stato palestinese islamico.

Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un ritorno del jihadismo localista non solo in Siria, ma anche in regioni come il Sahel, dove gruppi legati ad al-Qaeda hanno guadagnato terreno in Mali e Burkina Faso. In questo contesto, l’orientamento localista di al-Jawlani può essere interpretato come una strategia per consolidare il suo potere nel lungo termine, rivelando così la sua attenzione al cosiddetto “long game”.

Negli ultimi mesi , la figura di Abu Mohammed al-Jawlani è tornata al centro dell’attenzione, non solo per il suo passato jihadista, ma anche per la sua apparente trasformazione in un politico moderato e rassicurante, tanto per i siriani quanto per i governi stranieri. 

Abu Mohammad al-Jawlani ha 42 anni e il suo nome di battaglia è divisibile in due parti. Abu Mohammad significa “padre di Mohammad”, secondo la tradizione araba di chiamare qualcuno con il nome del primogenito. La seconda parte è però quella più significativa: al-Jawlani infatti significa “del Golan”, in riferimento alle alture del Golan, in Siria, da cui il padre partì nel 1967, quando il territorio fu occupato dalle truppe israeliane durante la Guerra dei Sei Giorni. La famiglia si trasferì prima in Arabia Saudita e poi tornò a Damasco. Nel 2003, con l’invasione statunitense dell’Iraq e la caduta di Saddam Hussein, al-Jawlani decise di unirsi alla lotta contro i soldati statunitensi. In quel periodo, il regime di Bashar al-Asad incoraggiava i volontari a unirsi a gruppi estremisti in Iraq, che spesso terrorizzavano anche la popolazione irachena con violenze inaudite. 

Nel 2011, dopo essere stato imprigionato dalle forze statunitensi per 5 anni, al-Jawlani divenne uno dei  comandanti dello Stato Islamico in Iraq, un gruppo che non aveva ancora raggiunto la notorietà che avrebbe avuto nel 2014, quando conquistò ampie porzioni di Siria e Iraq proclamando la nascita del Califfato. Le sue modalità operative erano già chiare: attentati, esecuzioni, intimidazioni e un ambizioso progetto di espansione territoriale. In particolare, al-Jawlani era responsabile delle operazioni nella zona di Mosul, la seconda città dell’Iraq, un’area storicamente colpita dalla presenza dello Stato Islamico.

Sempre nel 2011, al-Baghdadi incaricò al-Jawlani di espandere lo Stato Islamico in Siria. Sfruttando il caos creato dalla ribellione contro il regime di al-Asad, al-Jawlani attraversò il confine con una piccola squadra e fondò un gruppo che si sviluppò rapidamente. Per mascherare le sue vere intenzioni, non chiamò il suo gruppo Stato Islamico in Siria, ma usò il nome Jabhat al-Nusra, “il Fronte del Supporto”, per evitare di destare allarmi internazionali.

Il gruppo reclutò rapidamente migliaia di uomini. Al-Jawlani, all’epoca una figura misteriosa, attirò l’attenzione di al-Baghdadi, che inviò un suo emissario a indagare su di lui. L’inviato tornò preoccupato, descrivendo al-Jawlani come astuto e ambizioso, e avvertendo che si preoccupava più della sua immagine mediatica che della religione dei suoi uomini.

Nel 2013, al-Baghdadi rivelò che Jabhat al-Nusra era solo un nome di copertura per lo Stato Islamico e annunciò che il gruppo era ora conosciuto come Stato Islamico in Iraq e nel Levante (ISIS). Al-Jawlani, però, rifiutò di cedere il controllo e proclamò una scissione, rendendo Jabhat al-Nusra un’entità autonoma. Questo portò a una divisione tra i combattenti, con alcuni che scelsero di seguire al-Baghdadi e altri che rimasero leali ad al-Jawlani.

Dopo la scissione, al-Jawlani iniziò a rilasciare interviste e a cercare finanziamenti attraverso sequestri di persona. Nel 2016, si distaccò anche da al-Qaida, sostenendo che rimanere legati a essa avrebbe giustificato attacchi statunitensi contro i siriani. Il gruppo cambiò nome in Jabhat Fatah al-Sham e successivamente in Hay’at Tahrir al-Sham, cercando di presentarsi come una forza più moderata, concentrata sulla Siria.

Nonostante la sua immagine di islamista, al-Jawlani mostrò segni di pragmatismo, creando un governo locale e amministrando la regione di Idlib. Tuttavia, rimase sotto costante minaccia di attacchi, sia da parte delle forze di al-Asad che dai suoi ex alleati. Al-Jawlani avviò quindi una campagna contro le cellule dello Stato Islamico e di al-Qaida nella Regione, mantenendo un profilo alto e cercando di evitare il radicalismo.

Oggi, alcuni lo considerano ancora un jihadista e un terrorista, ma al-Jawlani ha dimostrato di preferire strade meno estreme, sebbene in un contesto complesso e violento. Il suo gruppo ha persino emesso dichiarazioni per garantire la sicurezza delle minoranze religiose e ha cercato di rassicurare le comunità locali.

Recentemente, al-Jawlani ha iniziato a farsi chiamare Ahmad al-Shara’a, il suo vero nome, suggerendo una possibile aspirazione a un ruolo di leadership più ampio, forse persino come futuro presidente della Siria. Tuttavia, rimane incerto quale sia il suo modello di Siria ideale, considerando la complessità etnica e religiosa del Paese.

L’incertezza: quale futuro per la Siria?

Da quando ha assunto il potere, al-Jawlani ha messo in atto una strategia di riabilitazione e rassicurazione mediatica, caratterizzata da gesti simbolici e dichiarazioni inclusive, in particolare nei confronti delle minoranze cristiane e druse. Questi elementi sono volti a convincere la comunità internazionale, e in particolare l’Occidente, a vedere il nuovo governo siriano come il soggetto più adatto a guidare il futuro della Siria. Tuttavia, questo endorsement presenta delle contraddizioni, poiché HTS è ancora inserita nella lista nera del terrorismo delle Nazioni Unite e di quasi tutti i governi occidentali.

Al-Jawlani ha promesso di ripristinare la sicurezza e la stabilità in Siria, di far tornare i milioni di rifugiati sparsi tra Europa e Medio Oriente e di riattivare i servizi essenziali. Inoltre, HTS si è impegnato a risanare un Paese in bancarotta, proponendo un passaggio da un’economia controllata dallo Stato a un modello di libero mercato per attrarre investitori esteri. L’obiettivo della nuova leadership è dimostrare che il governo si ispira a un Islam tollerante e inclusivo, distaccandosi dalle sue radici jihadiste  e promuovendo una transizione democratica.

Tuttavia, sarà cruciale per il nuovo governo siriano intraprendere un processo realmente inclusivo, democratico e non settario, per differenziarsi da altre esperienze fallimentari nella regione; HTS dovrà evitare di replicare gli schemi di Hamas a Gaza o di Hezbollah in Libano, per allontanare la Siria da modelli clientelari fortemente dipendenti dai sostenitori esterni, come la Turchia.

Il governo di transizione intende dimostrarsi un esempio “positivo” anche al di fuori dei confini siriani, mirando a conquistare la fiducia di altre realtà fragili che affrontano regimi autoritari percepiti come corrotti e illegittimi, come in Libia, Algeria, Egitto e Iraq. In questa prospettiva, la nuova leadership islamista intende costruirsi una credibilità rinnovata smantellando le eredità autoritarie della Guerra Fredda in Medio Oriente, cercando di inaugurare un governo che rappresenti una continuazione delle Primavere Arabe.

Tuttavia, il contesto in cui al-Jawlani opera è intriso di fragilità e incertezze, con dinamiche locali, nazionali e internazionali che possono ristrutturare gli equilibri nell’area MENA. Una delle principali preoccupazioni riguarda il fattore curdo. HTS e i suoi affiliati controllano circa il 60% del territorio siriano, mentre le milizie curdo-siriane e cristiano-assire delle Forze Democratiche Siriane (SDF) presidiano il nord e il nord-est. Recentemente, l’Esercito Nazionale Siriano (SNA), alleato di HTS e più filoturco, ha attaccato le forze SDF, occupando importanti sezioni del Rojava. Sebbene le violenze si siano temporaneamente placate, rimangono elevati i rischi di nuove tensioni.

L’obiettivo del SNA e della Turchia è creare un corridoio terrestre tra Afrin e al-Bab, per isolare la Turchia dalle incursioni delle forze curdo-siriane. La Turchia, che ospita oltre cinque milioni di rifugiati siriani, vede in questa transizione un’opportunità per esercitare pressioni su SNA e affrontare la minaccia rappresentata dal PKK e dall’YPG. Le forze curde, consapevoli della loro posizione come minoranza pericolosa ma influente, hanno tentato di stabilire contatti con HTS per isolare il SNA e migliorare la loro posizione. Al-Jawlani, in un gesto di apertura, ha dichiarato che i curdi siriani sono parte integrante del Paese, promettendo protezione e il ritorno delle famiglie curde ad Afrin.

Se questo dialogo tra SDF e HTS dovesse concretizzarsi, la Siria si dividerebbe in due: ribelli islamisti a ovest e curdo-siriani a est. Anche se ciò potrebbe ridurre alcune tensioni, non garantirebbe stabilità, poiché attori esterni come Turchia e ISIS potrebbero aumentare la violenza e la frammentazione.

Il ruolo degli attori esterni diventa di importanza fondamentale. La Russia cerca di mantenere le sue basi costiere, ma recenti sviluppi suggeriscono un ridimensionamento della sua presenza operativa in Siria. La garanzia di libertà di manovra offerta da Assad è ora precaria a causa dell’influenza turca su HTS e SNA, e Mosca ha riconosciuto la sconfitta di al-Asad, cercando un accordo con HTS. Anche l’Iran, con la perdita della Siria come tassello fondamentale, si trova in una posizione difficile, non potendo più rifornire le sue milizie regionali.

Israele, nel frattempo, ha intensificato i bombardamenti contro le basi militari siriane per prevenire il traffico di armi e ha approfittato della situazione per espandere la sua presenza nel Golan. Al-Jawlani, pur cercando di non aprire nuovi fronti, ha messo in guardia contro l’occupazione israeliana, evidenziando la necessità di non aggravare ulteriormente le tensioni.

In sintesi, il futuro della Siria non appare orientato verso una transizione pacifica e indipendente, ma piuttosto come un nuovo terreno di scontro, caratterizzato da dinamiche multilivello. Le variabili politiche e militari rimangono complesse e in continua evoluzione, mentre il contesto siriano e regionale potrebbe dare vita a un periodo di rinnovamento intriso di incertezze.

 

Fonti e approfondimenti 

Gianluca Ansalone, 2025 La galassia del terrore, Affari Internazionali, 2025.

Giuseppe Dentice, Andrea Fusco, Il futuro incerto della nuova Siria: impatti, prospettive ed evoluzioni, Centro Studi Internazionali, 2024.

Mostafa Salem, How Syria’s rebel leader went from radical jihadist to a blazer-wearing ‘revolutionary’, CNN, 2024.

Orwa Ajjoub, Crossroads in Idlib: HTS navigating internal divisions amid popular discontent, Middle East Institute, 2024.

United Nations Security Council, ABU MOHAMMED AL-JAWLANI, 2017.

US DoS, Amendments to the Terrorist Designations of al-Nusrah Front, 2018.

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