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Il destino di Netanyahu non basta a spiegare Rafah

destino di netanyahu, immagini degli ostaggi israeliani

Se prima del 7 ottobre la situazione nella Striscia di Gaza era molto più che critica, quanto avvenuto dopo l’attacco di Hamas l’ha resa un vero e proprio inferno. Ma le accuse rivolte al governo israeliano dalla comunità internazionale – compresa quella di genocidio, in esame alla Corte internazionale di giustizia (Cig) – non sono riuscite a interrompere la violenza. 

La lettura che va per la maggiore nei media internazionali è quella che lega il destino di Netanyahu a quello della Striscia. Questa tuttavia rappresenta solo una tra le possibili interpretazioni. La presa di Rafah, al confine sud, può essere vista infatti come l’ultimo capitolo di una storia che va molto oltre il Primo ministro israeliano.   

Gli ultimi sviluppi a Rafah

Il 6 maggio, il capo dell’ala politica di Hamas, Ismail Haniyeh, ha comunicato di aver accettato la proposta di Qatar ed Egitto per il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi israeliani. Il governo dello Stato ebraico ha però ritenuto la proposta “molto lontana dalle (proprie) richieste fondamentali”. Rifiutandola e rimandando così a un prossimo round negoziale.  

Le operazioni militari intanto proseguono, entrando in una nuova fase. Le Idf hanno infatti preso il controllo del lato palestinese del confine con l’Egitto, a Rafah. Se prima dell’offensiva militare israeliana, la città contava circa 250.000 persone, qui oggi i palestinesi sono circa 1.4 milioni di sfollati e in condizioni terribili. L’intreccio tra violenza ed estrema densità portano molti a ritenere che l’azione segni un’ulteriore intensificazione della pulizia etnica in corso. Un obiettivo espresso a chiare lettere dai (più) falchi della maggioranza a supporto di Netanyahu, i due ministri Bezalel Smotrich e Itaman Ben-Gvir.  

Gli attacchi militari di Israele hanno preso di mira soprattutto i quartieri orientali di Rafah, ma i bombardamenti hanno colpito anche altre aree. Le Idf in precedenza avevano fornito le indicazioni affinché la popolazione palestinese evacuasse la zona. Hamas ha risposto all’offensiva, a suon di razzi anticarro e colpi di mortai. Secondo i funzionari delle Nazioni Unite, più di 100mila persone sono scappate dalla città. Ma il numero è destinato a salire. 

Il consenso attorno a Netanyahu 

Di fronte alle accuse della comunità internazionale, e in particolare degli Stati Uniti, il Primo ministro Netanyahu ha ribadito che le Idf porteranno comunque avanti l’escalation. I funzionari israeliani hanno affermato che l’operazione a Rafah è imprescindibile per smantellare Hamas e riportare a casa gli ostaggi catturati nell’attacco del 7 ottobre. 

La scelta di Israele, che rischia come riporta la BBC di portare al punto di partenza i negoziati, è stata letta come un gesto estremo di Netanyahu. Il consenso attorno alla sua figura nello Stato ebraico sta diminuendo, come testimoniano le grandi proteste che hanno affollato le città israeliane nei mesi scorsi. In base a un recente sondaggio,  il 71% dei cittadini israeliani crede che il Primo ministro debba dimettersi, subito o dopo la guerra. 

Sono infatti in molti a giudicarlo responsabile per le lacune nel sistema di sicurezza del 7 ottobre e per la mancata liberazione dei prigionieri. Gli ultimi sviluppi hanno portato poi a una spaccatura, anche all’interno della maggioranza di governo, in ragione dei crescenti dissidi con Washington. 

Destini in bilico 

Ma il destino di Rafah è legato, più che a Netanyahu, alla visione dei rapporti con i territori palestinesi che in lui trovano un mero interprete. 

La maggioranza degli israeliani continua a vedere nella distruzione di Hamas uno degli obiettivi fondamentali di questa offensiva. Non solo. La devastazione di Gaza e le uccisioni dei civili dei mesi scorsi sono stati riportati da molti media israeliani come “danni collaterali” imputabili solamente al movimento palestinese. Le pressioni dell’AIPAC sulla politica statunitense rappresenta un’altra tessera di un mosaico molto complesso. 

Un mosaico in cui a considerare l’opzione bellica come la migliore via di uscita dal conflitto è una vastissima cerchia di protagonisti. La liberazione degli ostaggi è oggi la priorità per il 56% degli israeliani. Ma questo non mette in discussione l’assunto per cui la pressione militare sia lo strumento da utilizzare, per lo Stato ebraico, al fine di fare valere le proprie posizioni. Per questo, se è vero che l’offensiva rappresenta un crocevia nel destino di Netanyahu, non è vero il contrario.

 

Fonti e approfondimenti

Krever, M., Karadsheh, J., Kaufman, A. & Salman, A.“Israel’s far-right wants to move Palestinians out of Gaza. Its ideas are gaining attentionCNN, 17/01/2024

Mayroz, E., “Why do Israelis and the rest of the world view the Gaza conflict so differently? And can this disconnect be overcome?”, The Conversation, 

Winer, S., “Poll: 71% think Netanyahu should resign either immediately or right after war | The Times of Israel”, Times of Israel, 8/04/2024

Thakker, P., “As Biden warns against Rafah invasion, Aipac pushes Congress to support Israel’s operation”, The Intercept, 8/05/2024

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