La COP29, che si è aperta la scorsa settimana a Baku, in Azerbaijan, e continuerà fino al prossimo 22 novembre (anche se è probabile che i lavori durino più a lungo per raggiungere un accordo, come era già successo l’anno scorso), è la terza edizione consecutiva della Conferenza delle Parti sul Cambiamento Climatico (dopo quelle di Sharm El Sheik e Dubai) a tenersi in uno Stato autoritario, la cui economia si basa prevalentemente sull’estrazione, la produzione e il commercio di combustibili fossili. La prima settimana di lavori ha già fatto emergere posizioni estremamente diverse fra il Nord e il Sud del mondo, con gli Stati del Sud, i cosiddetti outsider, portatori delle richieste più progressiste e ambiziose.
“We don’t seek charity, but equity and justice”
Tra i gruppi di Paesi che chiedono di accelerare l’azione climatica ci sono i Small Islands Developing States (SIDS), di cui fanno parte, fra le altre, Porto Rico, Polinesia francese, Nuova Caledonia, Isole Vergini britanniche, Isole Cayman e Martinica. Sebbene i Paesi SIDS abbiano contribuito, e contribuiscano, solo in minima parte alla crisi climatica, sono tra i territori piú vulnerabili. Esposti sia a eventi meteorologici estremi (come i tifoni) che alle conseguenze più permanenti del cambiamento climatico (come erosione costiera e innalzamento del livello del mare), questi territori sono particolarmente vulnerabili per via della loro posizione isolata e remota, che li rende quasi totalmente dipendenti dalle importazioni estere. Motivi per cui, per questi Paesi, la lotta al cambiamento climatico è una lotta per la sopravvivenza.
Sin dalla scorsa edizione della COP questo gruppo ha chiesto con grande fermezza finanziamenti maggiori e più accessibili per aumentare e rafforzare la loro resilienza socioeconomica ai mutamenti climatici. Senza finanziamenti, infatti, non riescono a portare avanti né progetti di adattamento né di mitigazione del cambiamento climatico.
La necessità di finanziamenti è stata fissata dai SIDS come priorità qualche mese fa durante la loro Conferenza Internazionale SIDS (SIDS4), che stabilisce gli obiettivi-chiave di sviluppo del gruppo. Con esplicito riferimento alla COP29, il Presidente delle Maldive ha dichiarato: “Non cerchiamo carità, ma equità e giustizia, nell’affrontare una crisi della quale siamo responsabili in minuscola parte”.
In materia di adattamento, il tema principale è l’accesso alle risorse del Loss and Damage Fund, istituito per assistere i Paesi piú vulnerabili nel far fronte ai danni causati dagli effetti catastrofici del cambiamento climatico. I 500 milioni di dollari allocati loro durante la COP28 per la promozione di iniziative di adattamento coprono solo lo 0.2% dei loro bisogni, che spaziano dalla necessità di accelerare il progresso tecnologico a quella di diminuire la dipendenza dalle importazioni estere di energia.
La diversificazione delle fonti energetiche è al centro anche delle attività di mitigazione che i SIDS, avendo più fondi, vorrebbero implementare, visto che fanno grande fatica a trovare finanziamenti esterni per la transizione energetica.
Africa e carbon market
Il tema del supporto finanziario è in cima alle liste di priorità di diversi gruppi di negoziatori presenti a Baku, incluso quello dei negoziatori africani (AGN). Del resto, nell’agenda di questa COP29 c’è la definizione del Nuovo obiettivo finanziario (NCQG). In merito, la richiesta di AFG è formulare un NCQG che risponda alle necessità dei Paesi a medio-basso reddito, spesso fortemente indebitati, permettendo loro di contribuire al raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi senza accrescere il proprio debito pubblico.
Altre richieste di AFG a COP29 riguardano l’Articolo 6 dell’Accordo di Parigi inerente i mercati di carbonio (carbon market). I carbon markets rappresentano per l’Africa una strategia molto promettente per ridurre le emissioni, ma non priva di criticità. Spesso, infatti, a garantire gli accordi sui mercati del carbonio sono enti privati. Ne risulta che la riduzione delle emissioni, che dovrebbe essere l’obiettivo principale, perde di rilevanza di fronte alla possibilità di guadagno, rischiando, tra l’altro, che i progetti finanziati trascurino aspetti come il rispetto delle comunità indigene e dei diritti umani.
Per favorire un funzionamento corretto ed efficace dei carbon market, AGN chiede che a Baku si modifichi l’Articolo 6, integrando standard specifici per il mercato africano. Lo scopo è permettere non solo la quantificazione trasparente delle emissioni ridotte e il monitoraggio costante dei progetti, ma anche garantire che gli scambi di crediti del carbonio (gli strumenti finanziari compensativi delle emissioni scambiati nei carbon market) tra Paesi avvengano equamente e tenendo conto delle peculiarità socioeconomiche, climatiche ed ambientali dei Paesi africani. In questo senso, AGN aggiunge alla sua posizione negoziale la definizione di standard minimi sui prezzi dei crediti del carbonio, per limitare il rischio che i Paesi africani – visto il loro attuale scarso potere negoziale – siano costretti a svenderli.
Nessuna giustizia climatica senza diritti umani
Da mesi organizzazioni di attivisti denunciano diverse criticità legate al rispetto dei diritti umani in Azerbaijan. A giugno 2023 un gruppo di attivisti ambientali ha manifestato contro la costruzione di un secondo lago artificiale vicino alla miniera d’oro di Söyüdlü, poiché – essendo giá un altro lago vicino utilizzato per lo scarico illegale dei rifiuti tossici – temevano l’aumento della contaminazione delle acque. Le proteste sono state represse con violenza e 25 giornalisti, intenti a documentare gli avvenimenti, sono stati arrestati.
In previsione della COP29, il presidente azero Aliyev (in carica da oltre vent’anni) ha dichiarato di aver ridotto qualsiasi rischio di malcontento pubblico ed “eliminato le critiche”. Vittime di questa operazione sono stati anche gli attivisti climatici e per i diritti umani, come il fondatore dell’organizzazione Climate Justice Initiative Anar Mammadli, che ad aprile 2024 è stato arrestato con l’accusa di contrabbando dopo aver denunciato, a livello internazionale, le violazioni dei diritti umani perpetrate dal governo.
Gli attivisti azeri sperano che la COP29 permetta di accendere le luci sull’operato del governo nei confronti delle minoranze, degli attivisti e del dissenso. Lo slogan è lo stesso coniato dagli attivisti egiziani durante la COP27: “Senza rispetto dei diritti umani, non può esserci nessuna giustizia climatica”.
La lotta al cambiamento climatico è anche una questione di genere
Oggetto di critiche è stata anche la decisione iniziale del governo azero di creare un comitato organizzatore della COP29 composto esclusivamente da 28 uomini. Sebbene dopo neanche una settimana da questo annuncio il comitato sia stato riformato e ora comprenda 30 uomini e 12 donne, è stato ampiamente denunciato come si sia comunque trattato di un passo indietro considerevole da una prospettiva di genere.
In una lettera al presidente Aliyev, 88 donne leader attive nella lotta al cambiamento climatico hanno ricordato il ruolo chiave giocato dalla compagine femminile nelle precedenti edizioni della COP (tra tutte, sono state citate anche Laurence Tubiana e Christiana Figueres, senza le quali non si sarebbe raggiunto l’Accordo di Parigi) e hanno chiesto che venisse ripensata la composizione del comitato organizzativo.
Da più parti si è segnalato che includere donne nel comitato organizzativo (così come nei negoziati) è indispensabile per dare voce alla componente della società non solo più numerosa, ma tendenzialmente anche piú vulnerabile alle conseguenze del cambiamento climatico. Qualche giorno prima dell’inizio della Conferenza, 50 attiviste per il clima senegalesi hanno marciato per chiedere alla COP29 di concretizzare gli impegni presi con l’Accordo di Parigi e di sostenere in modo particolare le donne delle zone rurali del Pianeta, visto che sono chiamate ad affrontare sempre più e sempre più intensi eventi climatici estremi.
Secondo uno studio di Banca Mondiale, l’integrazione e il coinvolgimento attivo delle donne nella lotta al cambiamento climatico è anche conveniente. A fronte di un investimento complessivo di 35 miliardi di dollari per coprire i costi di accesso femminile alla formazione, al supporto imprenditoriale e alla terra, si potrebbero ridurre le emissioni globali di 1.5 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno fino al 2050.
La parità di genere è una sfida in salita
Per ora, quella della parità di genere sembra essere ancora una strada in salita, anche nelle questioni climatiche. Analizzando i cosiddetti modelli di Just Transition per una transizione economica sostenibile e inclusiva di molti Paesi (inclusi quelli del Nord) si può notare come questi non tengano conto della questione di genere, neanche quando ci sono espliciti riferimenti alla parità. In primo luogo, la just transition interessa settori – in particolare quello edile, manifatturiero ed energetico – dove la maggior parte dei lavoratori sono uomini. Secondo uno studio di International Energy Agency, le donne impiegate nel settore energetico sono il 16% (in media, negli altri settori, rappresentano il 39% della forza lavoro), con percentuali ancora piú basse se si parla di posizioni apicali.
Inoltre, le donne impiegate nel settore energetico prevalentemente ricoprono mansioni poco qualificate, cosiddette low-skilled. Ciò si riflette sia sui salari – che sono piú bassi del 20% per le donne – sia sulle loro capacità di progressione della carriera o di mantenimento del posto di lavoro. In secondo luogo, i modelli di transizione proposti prevedono la creazione di nuove professioni (le professioni green), accessibili per chi ha avuto una formazione STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) di alto livello, che per motivi culturali è ancora perseguita dalle donne in maniera fortemente minoritaria anche nei Paesi con un gap di genere medio-basso.
Infine, secondo l’Agenzia ONU per il Lavoro (ILO), il metodo di welfare sociale preferito nei modelli di just transition è prevalentemente basato sui sussidi di disoccupazione, che per le donne sono molto meno efficaci che per gli uomini. Una donna ha, in genere, un percorso professionale piú discontinuo di un uomo e, poiché i sussidi di disoccupazione si basano sui contributi obbligatori versati durante il periodo lavorativo, per le donne è meno probabile essere totalmente coperte per tutta la durata della disoccupazione. Inoltre, le donne, soprattutto quelle che svolgono professioni meno qualificate, sono piú esposte al lavoro informale (ossia senza un contratto legalmente vincolante) e, di conseguenza, escluse dal diritto al sussidio di disoccupazione.
Fonti e approfondimenti
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