Ospitare un evento sportivo o musicale di portata globale, riunire capi di Stato, governo o ministri per summit o conferenze, presentare importanti innovazioni tecnologiche, promuovere la diffusione della propria lingua e cultura in altri Paesi o, anche solo, vantare cantanti, musicisti, sportivi di alto profilo, se sfruttato bene, permette a uno Stato di disegnare esso stesso la propria immagine nel mondo. Fino ad arrivare a influenzare le preferenze e i comportamenti di altri attori, grazie alla forza d’attrazione e persuasione, piuttosto che attraverso la coercizione.
Le prime volte che mi sono avvicinata allo studio della regione dei Grandi laghi sono rimasta colpita dalla capacità del Ruanda di fare tutto ciò. Gli studiosi lo definiscono soft power. Uno strumento con cui anche un Paese tanto piccolo, dalla storia travagliata, nel giro di un paio di decenni è stato in grado di assurgere a potenza continentale. Non solo per la sua forza militare, che non è in discussione, essendo l’esercito di Kigali uno dei più efficienti d’Africa. Ma anche e soprattutto per la capacità del suo leader, Paul Kagame (al potere dal 1994), di ricostruire l’immagine del suo Paese, rendendolo un modello per molti nel continente africano e non solo.
Dopo il genocidio del 1994, il Ruanda ha assunto l’aspetto di uno Stato che è riuscito a risollevarsi
investendo in educazione, salute e infrastrutture, tanto da fare un balzo significativo in molti indici socioeconomici (anche se non tutta la popolazione ne ha beneficiato allo stesso modo). Ne derivano i tratti di un Paese stabile, con un’economia in crescita e degli standard di vita superiori a molte altre realtà del continente. In Africa subsahariana, il Ruanda è sempre più leader nelle innovazioni tecnologiche e scientifiche. Mentre la sua abilità nel promuovere cultura, paesaggi naturali e biodiversità, lo pone da tempo tra le principali destinazioni turistiche africane.
Kigali è riuscita nel tempo ad attrarre diversi summit di rilevanza continentale e internazionale. Dall’incontro dei capi di governo del Commonwealth (di cui il Ruanda fa parte pur non essendo un’ex colonia britannica) di giugno 2022, all’Africa Ceo forum – soprannominato la “Davos d’Africa” – di maggio 2024. Passando per il 73esimo congresso della Fifa, tenutosi al Centro congressi di Kigali a marzo 2023.
Ciliegina sulla torta è proprio la passione di Kagame per lo sport
Che non è solo espressione del soft power ruandese, ma permette anche di ripulire l’immagine del Paese, il cosiddetto sportwashing. Concentrando l’attenzione sulla realizzazione di eventi sportivi di alto profilo o sullo sviluppo di partnership di prestigio, Kagame riesce a distoglierla dalle numerose ombre oscure che caratterizzano il suo regime. Dalle violazioni sistematiche dei diritti umani, alla scomparsa di diversi oppositori politici, fino al coinvolgimento nei conflitti congolesi.
Negli ultimi anni, diverse squadre di calcio europee – Arsenal, Paris Saint-Germain e Bayern Monaco – hanno iniziato, in cambio di cospicui fondi, a esporre lo slogan “Visit Rwanda” sulle proprie maglie e sui tabelloni allo stadio. Ogni anno, i 12 migliori club di basket del continente africano si riuniscono alla Kigali Arena per la Basketball Africa League, nata su forte impulso ruandese e con il patrocinio di Nba e Fiba. Mentre i prossimi mondiali di ciclismo sono previsti per settembre 2025, sempre nella capitale ruandese. E poi Kagame sogna che il progetto di un circuito futuristico, che si snoda tra le colline e le foreste, gli permetta di riportare presto – magari già nel 2027 – un Gran premio di Formula 1 in Africa, o meglio, in Ruanda.
Stando al Soft power index, rilasciato da Brand Finance, nel 2023 il Ruanda era 104esimo (su 193 Paesi), nono nel continente africano. Ma l’indice non è in grado di descrivere appieno la capacità di proiezione internazionale di Kigali. Ce ne siamo resi conto nelle ultime settimane, quando l’offensiva del Movimento del 23 marzo (M23), supportato dalle truppe ruandesi, si è intensificata, portando il gruppo armato a conquistare Goma, capitale del Nord Kivu, nell’Est della Repubblica Democratica del Congo (Rdc).
Mentre migliaia di congolesi perdevano la vita, l’Occidente non ha mosso un dito
Le Nazioni Unite hanno contato almeno 3.000 morti solo a Goma in cinque giorni, mentre tanti altri hanno abbandonato le loro case per sfuggire alla violenza. L’Occidente però non si è mosso. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è rimasto inerte. Le cancellerie europee hanno rilasciato dichiarazioni vuote, limitandosi a chiedere al Ruanda di ritirare le proprie truppe dal Nord Kivu. Gli Stati Uniti hanno addirittura tagliato gli aiuti umanitari alla Rdc (anche se nell’ambito di una più ampia strategia di riduzione del sostegno umanitario in tutto il mondo).
Solo il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione, chiedendo a Commissione e Consiglio di sospendere gli accordi minerari con il Ruanda. Tuttavia, la prima sostiene che la misura sia controproducente e ben pochi Paesi europei sono favorevoli a imporre sanzioni su Kigali.
Kagame ha avuto la sfacciataggine di dichiarare alla Cnn che, se c’erano truppe ruandesi in territorio congolese, lui – comandante in capo dell’esercito – non ne aveva idea. Di fronte a una bugia tanto palese in molti siamo rimasti sbalorditi. La presenza ruandese nell’Est della Rdc è stata accertata da anni dalle Nazioni Unite. Ma la comunità internazionale, ancora una volta, non ha reagito.
Le richieste della società civile congolese e delle istituzioni politiche di adottare delle misure forti – sanzioni, blocco degli aiuti e degli scambi commerciali – contro il Ruanda finora sono rimaste largamente inascoltate. Sembra che quasi nessuno abbia realmente intenzione di fermare l’ambizione egemonica di Kigali nella regione. E Kagame lo sa e se ne approfitta.
D’altronde, la disparità di trattamento con altri casi è evidente. Solo per restare in Africa subsahariana, quando in diversi Paesi (come Mali, Burkina Faso e Niger), i militari hanno rovesciato i governi civili e preso il potere, la comunità internazionale ha immediatamente reagito. Oltre a condannare i golpe, ha bloccato gli aiuti allo sviluppo e sanzionato i leader delle giunte. Invece, in Sudan – dove da quasi due anni imperversa un conflitto tra paramilitari e forze regolari – diversi leader di entrambi gli schieramenti sono stati colpiti dal congelamento dei beni e dal divieto di viaggiare in vari Paesi occidentali.
La chiave sta proprio nel soft power del Ruanda, oltre che nella capacità di Kagame di intessere profondi legami con Usa e Ue
Da un lato, il Ruanda si schiera con l’Occidente negli organismi internazionali, gli fornisce minerali critici per la transizione ecologica (attraverso contrabbando e saccheggio) e protegge gli investimenti energetici dell’Europa nel nord del Mozambico. Il tutto presentandosi come garante della stabilità nel continente africano.
Dall’altro lato, l’Occidente che, in cambio, è pronto a soprassedere alle violazioni dei diritti umani e alla mancanza di libertà di espressione tipici di un regime autoritario quale è Kigali. Ma dietro a questo atteggiamento accondiscente, c’è anche il retaggio del genocidio, su cui Kagame continua a far leva, ricordando a Stati Uniti e Unione europea di non essere stati capaci di intervenire adeguatamente. Perciò, l’Occidente si guarda bene dall’agire, anche di fronte a una violazione tanto palese della sovranità e dell’integrità territoriale di un Paese vicino.
E tutto ciò mentre il numero dei morti e degli sfollati continua a crescere inesorabilmente.
Ne vale la pena? Per niente.
Non può essere la capacità di uno Stato di giocare con gli strumenti del soft power a impedirci di assumere consapevolezza di quanto quello stesso Stato sta provocando in un Paese confinante. Non può essere l’apparente distanza tra noi e loro, tra Roma e Goma, tra Kinshasa e Bruxelles, a lasciare in un angolino lontano le violenze dell’M23 e dell’esercito ruandese. E no, non può essere il nostro bisogno di minerali per produrre cellulari, computer e altri dispositivi elettronici a non ricordarci che quelle risorse provengono da un’area di conflitto e che sono intrise del sangue degli abitanti innocenti di quella regione.
Ma, soprattutto, non può essere la capacità di influenza e persuasione del Ruanda a farci dimenticare che i diritti umani vengono prima di ogni cosa e che le violenze e gli abusi nelle province orientali della Rdc vanno contro le più basilari norme del diritto internazionale.
Vogliamo veramente, tra qualche mese, guardare i mondiali di ciclismo in diretta televisiva da Kigali o, addirittura, nella capitale ruandese stessa, ben sapendo quali massacri l’M23 e l’esercito del Ruanda stanno commettendo, impuniti, solo qualche chilometro più in là? Alla coscienza di ciascuno di noi, la risposta.