A seguito del fragile cessate il fuoco imposto a Israele da Donald Trump, gli scambi di prigionieri previsti dal piano statunitense si sono conclusi. Gli ostaggi israeliani ancora in vita sono tornati alle loro case, mentre molti dei palestinesi arrestati durante il genocidio a Gaza non potranno fare lo stesso.
Le trattative sulla lista dei prigionieri palestinesi condannati all’ergastolo hanno avuto come obiettivo il rilascio di leader politici capaci di unificare lo spettro politico palestinese, frammentato da decenni a causa dell’ingerenza israeliana e delle divergenze dei partiti impegnati nella resistenza. I nomi più emblematici sono quelli di Marwan Barghouti, Ibrahim Hamed, Hassan Salameh e Ahmad Sa’adat. In totale, sono undici gli ergastolani che Israele rifiuta di rilasciare per motivi di sicurezza.
Ma è proprio sulla figura di Barghouti che si concentra la speranza palestinese di veder sorgere una leadership capace di traghettare le trattative con Israele in direzione di una futura convivenza pacifica.
Barghouti è stato incarcerato nel 2002 con l’accusa di terrorismo per aver organizzato e guidato la resistenza armata dei Tanzim (il movimento giovanile di Fatah) durante la seconda Intifada (2000-2003). Ventitré anni di carcere durante i quali sono state documentate continue violazioni dei suoi diritti attraverso torture e condizioni di detenzione illegali. Dalla prigione, Barghouti ha condotto diversi scioperi della fame. Dall’inizio del genocidio a Gaza, è detenuto in regime di isolamento prolungato.
Barghouti: una visione e un simbolo
Negli anni della prima Intifada (1987-1989), Barghouti era uno studente in grado di organizzare e coordinare proteste essenzialmente pacifiche. Per questo, nel 1987, venne deportato in Giordania.
Era lo stesso anno in cui una nuova generazione di palestinesi, nati sotto l’occupazione, dimostrò di non aver paura di resistere, attraverso una sollevazione non violenta dal basso. Questa reazione del popolo stupì sia l’occupante che la resistenza armata dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), rifugiatasi dal 1975 in Libano e poi costretta – in seguito all’invasione israeliana del Paese dei cedri del 1982 – a trasferirsi in Tunisia.
Barghouti fu in grado di tornare in Cisgiordania solo nel 1993 come conseguenza diretta delle trattative tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat nel contesto degli Accordi di Oslo (1993-2000). Dopo il suo ultimo arresto – al quale erano preceduti altri due all’età di quindici e diciassette anni -, ha tentato in diversi modi di far sentire la sua voce fuori dal carcere, operazione che Israele ha attivamente tentato di contenere.
Il Documento dei detenuti
Nel 2006, nonostante la detenzione in regime di isolamento, Barghouti riuscì a far pubblicare – probabilmente grazie ai suoi unici contatti con l’esterno, legali e familiari – il Documento di conciliazione nazionale dei detenuti.
Il testo comparve in un momento di massima tensione interna tra Fatah e Hamas. Infatti, in seguito alla vittoria elettorale di Hamas a Gaza e al rifiuto di Mahmud Abbas (Abu Mazen) del movimento Fatah di riconoscere un membro del gruppo islamista a capo delle forze di sicurezza della Striscia, tra il dicembre 2006 e l’estate del 2007, scoppiò una vera e propria guerra civile.
L’impatto politico del Documento fu notevole, visto che portava la firma di cinque rappresentanti, tutti detenuti, delle più influenti realtà politiche e paramilitari attive nella resistenza anticoloniale contro Israele. In particolare, si trattava di: Marwan Barghouti (Fatah), Abd al-Khalid al-Natsheh (Hamas), Mustafa Badarneh (Fronte popolare per la liberazione della Palestina), Bassam al-Sa’di (Jihad islamica), Abd al-Rahim Mallouh (Fronte democratico per la liberazione della Palestina).
Il testo promuoveva il riconoscimento dell’Olp a rappresentante del popolo palestinese. Per la prima volta, le diverse fazioni concordavano su un futuro Stato palestinese, con Gerusalemme est capitale, sulla base dei confini del 1967, ovvero prima della Guerra dei sei giorni, che stravolse la mappa nata nel 1949, a seguito della Nakba. Il Documento incoraggiava inoltre l’unità di azione tra Hamas e Fatah, sia nella resistenza, che nel negoziato con l’occupante.
Da simbolo a mito
Questo fu un momento chiave nella vita di Barghouti e per la storia della Palestina. Gli anni che seguirono trasformarono il simbolo in mito. La riconciliazione tra Hamas e Fatah non avvenne: il partito di Abbas divenne sempre più corrotto e incapace sia di rappresentare la volontà del popolo palestinese che di arrestare il furto di territori in Cisgiordania. Mentre Gaza forgiava nel metallo e nel fuoco delle sue guerre il suo modello di resistenza all’occupazione, la Cisgiordania veniva sbrindellata e soffocata dal controllo capillare del territorio imposto dai check point israeliani.
In questo contesto di peggioramento delle condizioni di vita del popolo palestinese, il mito della mancata unificazione che avrebbe potuto cambiare le cose si è legato indissolubilmente alla figura di Barghouti, anche a causa degli sforzi di Israele di silenziare la sua voce.
Barghouti rappresenta da decenni l’alternativa alla leadership di Abbas. Il quale esercita contemporaneamente il ruolo di presidente del Comitato centrale di Fatah (ramo esecutivo del partito) e del Comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Palestina libera (che rappresenta le istanze dei partiti che compongono l’organizzazione sul piano internazionale).
Sia la leadership del novantenne Abbas che l’incarcerazione di Barghouti sono funzionali al mantenimento dello status quo che ha permesso il peggioramento delle condizioni di occupazione del popolo palestinese. Israele ha continuato a espandere i suoi insediamenti in Cisgiordania, reprimendo violentemente ogni tentativo di insurrezione a Gaza, ebbro di potere, forza militare e forte dell’impunità che l’immobilità della comunità internazionale ha sempre garantito.
L’accusa e il processo
La questione del rilascio di Barghouti è fondamentale soprattutto alla luce del lento ma inesorabile declino della leadership di Abbas. Come Barghouti stesso ha sostenuto durante la prima udienza del processo in cui è stato coinvolto: «Non c’è altra soluzione se non questa soluzione».
Lo stesso svolgimento del processo a suo carico risulta fazioso e sospetto. Barghouti si è sempre dichiarato innocente e rifiuta di riconoscere la legittimità del tribunale israeliano che lo ha condannato a cinque ergastoli e quaranta anni di carcere aggiuntivi. L’accusa ha trattato Barghouti come un cittadino israeliano accusato di crimini comuni, tra i quali cinque omicidi, incitazione al terrorismo, organizzazione e finanziamento di gruppi legati ad attività terroristiche.
Sul piano legale, lo svolgimento del processo rappresenta una violazione delle Convenzioni di Ginevra e del diritto internazionale umanitario. Le violazioni riguardano il trasferimento illegittimo del detenuto dai Territori palestinesi occupati alle carceri israeliane, la negazione dello status di prigioniero politico e l’applicazione della giurisdizione di Tel Aviv su un territorio che non le appartiene.
Divide et impera
Lo stato attuale delle cose segue il principio del divide et impera. La nascita stessa di Hamas segue questo principio, dal momento che Fatah ha sempre promosso una linea laica di governance di ispirazione socialista, panaraba, secolare e soprattutto pragmatica. L’ascesa di Hamas è stata finanziata da Benjamin Netanyahu nel corso dei suoi sei governi: infatti, diversi analisti israeliani e fonti d’archivio confermano che, negli anni Ottanta, Israele tollerò e favorì il gruppo islamista come contrappeso a Fatah.
Disumanizzare un intero popolo accostandolo a gruppo armato, la cui ideologia risale all’Islam politico dei Fratelli musulmani, è stata un’operazione mediatica molto più semplice e funzionale rispetto a delegittimare la controparte palestinese con la quale si sono firmati gli accordi di Oslo.
Questo accade da quando il processo di criminalizzazione dell’Islam ha iniziato a influenzare le opinioni pubbliche occidentali. Il percorso, avviato a seguito della Rivoluzione islamica in Iran, si è poi consolidato definitivamente a seguito dell’11 settembre. Tale processo ha posto la base culturale per l’avvio di una campagna di demonizzazione della religione islamica, descritta come violenta e retrograda, e dei musulmani che diventano, al contempo, vittime perfette della logica coloniale di sfruttamento e dominio e nemici da contrastare.
Fondamentalismo religioso e fanatismo spirituale sono fenomeni propri di ogni società. L’attuale governo israeliano ne è una prova concreta. Nonostante ciò, la narrazione pubblica delle dinamiche interne alla società israeliana non pone mai l’accento sulla pericolosità intrinseca di questo approccio per politica, società e stabilità dell’intera regione.
La strumentalizzazione politica della fede e l’eccesso di zelo nel professarla pubblicamente sono sempre stati strumenti in grado di manipolare il consenso. Ma ciò che lede la dignità dei musulmani è l’aver dipinto l’Islam come strutturalmente non compatibile all’ideale di società occidentale.
Israele e Hamas
Netanyahu ha così potuto rivendicare di essere in guerra anche per conto del “mondo libero” contro l’oscurantismo islamico di un gruppo di estremisti affiliati all’Asse della resistenza. Quella coalizione include milizie e gruppi politici affiliati all’Iran, che rivendicano l’eliminazione di Israele dalla mappa.
Negli ultimi quindici anni, Israele ha condotto almeno quattro guerre contro Hamas, ottenendo solo la percezione di aver addomesticato un nemico al punto da renderlo praticamente innocuo. Il risultato è stato il 7 ottobre 2023. Ma Hamas non è stata sconfitta: i regolamenti di conti interni a Gaza sono iniziati immediatamente dopo il cessate il fuoco e i clan ostili al gruppo islamista sono stati puniti con l’accusa di aver collaborato con le forze d’occupazione.
Uno dei massimi leader militari e poi politici di Hamas, Yahya Sinwar, ucciso a Gaza il 16 ottobre 2024, era stato liberato nel 2011 grazie allo scambio di prigionieri avvenuto durante le trattative per la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit. La sua liberazione è stata funzionale alla narrativa israeliana, poiché Sinwar è stato uno degli architetti del 7 ottobre.
Al contrario di Sinwar, durante lo scambio di prigionieri del 2011, Barghouti rimase in carcere. Sono il pragmatismo politico che Barghouti rivendica e la conseguente pace che si augura possa derivarne a spaventare. L’obiettivo di Israele infatti non è la pace, ma la pulizia etnica della Palestina: dopo di essa il delirio biblico della grande Israele potrà procedere, se Europa e Stati Uniti continueranno ad appoggiare qualsiasi tipo di governo a Tel Aviv.
La nostra parte
Barghouti rivendica che l’unica via alla risoluzione dello stato di occupazione è la convivenza dei due popoli in due Stati con eguali diritti, continuità territoriale e libertà di movimento. Questo prevede la restituzione dei territori sottratti ai palestinesi e il ritiro della popolazione israeliana nei confini fissati prima del 1967.
L’attenzione del mondo per la figura di Marwan Barghouti non durerà a lungo. Israele preferisce che si parli delle violazioni continue del cessate il fuoco rispetto al tema della liberazione di un uomo che da solo non porterà la soluzione a ogni problema. Ma che, tuttavia, incarna unità e rappresentanza per un popolo largamente propenso al compromesso politico in cambio di una cessazione delle ostilità e del miglioramento delle proprie condizioni di vita.
Proprio a causa della rottura di questo silenzio e all’infiammarsi delle opinioni pubbliche di tutto il mondo di fronte all’orrore di un genocidio in diretta, Barghouti molto probabilmente rimarrà in carcere. E con lui la speranza di una vera chance di cambiamento e di legittimità per le istanze dei palestinesi.
Fonti
Channel 4 news. “Israel kills Hamas leader Yahya Sinwar in Gaza”. YouTube, 17 ottobre 2024.
European council on foreign relations. Mapping Palestinian Politics.
“Marwan Barghouti: l’ultima intervista prima dell’arresto”, YouTube, 15 ottobre 2025.
Mohammed el-Kurd. 2025. Perfect Victims. Haymarket Books.
Ultimavoce, “Israele sapeva del 7 ottobre”, 15 ottobre 2024.
Zeteo. “The Case of Marwan Barghouti: How Israel Imprisoned Palestine’s Most Popular Leader”. YouTube. 18 gennaio 2025.