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Quando cala il sipario, ovvero la sconfitta di Kamala Harris

Kamala Harris è stata sconfitta. Il sipario è calato. Per i democratici sembra il remake di un film horror già visto nel 2016. Fare i conti con la realtà, ridisegnare la traiettoria del partito e individuare nuovi leader in vista del prossimo futuro sarà il primo passo da compiere. O almeno dovrebbe esserlo.

Le difficoltà iniziali 

I segnali di avvertimento per Harris erano già arrivati in queste ultime due settimane, quando i margini negli Stati chiave andavano via via riducendosi, salvo rimbalzi vari negli ultimi giorni. Molte cose potrebbero essere dette, a partire dalla nascita della campagna Harris-Walz. Il caos interno causato dal dibattito fra Biden e Trump che ha portato il presidente in carica a farsi di parte ha dato avvio alla campagna lampo di Harris. 

Un cambiamento tardivo, cui i democratici non hanno voluto far fronte in precedenza facendo finta di nulla, salvo poi vedersi costretti a muoversi solo dopo la plastica evidenza dei fatti. Con tutte le attenuanti possibili del caso, d’altronde sfiduciare o abbandonare il proprio stesso presidente non è ovviamente cosa facile. Tuttavia questa sequela di eventi hanno portato a un acceso confronto prima della convention. E se all’inizio Harris è sembrata avere un buon momentum nel corso delle settimane il trend è andato cambiando. 

La strategia di Harris 

La campagna di Harris è stata per certi versi disciplinata e ordinata, mentre per altri è stata vacua e un po’ priva di contenuti. La vicepresidente si è trovata in effetti a gestire una situazione non semplice, in bilico tra la difesa dell’operato dell’attuale amministrazione (di cui fa parte) e l’esigenza di dover dimostrare discontinuità e novità. Un’esigenza mostrata anche nelle ultime dichiarazioni nei giorni prima dell’election day, dove ha cercato di smarcarsi da Biden. D’altronde non è più una novità quanto sia complicato per un incumbent (seppur Harris non fosse personalmente il presidente) mantenere la propria posizione, in uno schema generalizzato che sembra premiare sempre più spesso chi sta all’opposizione. E proprio su questa strada sono arrivati i principali inciampi.

Nella legittima e strategica ricerca del voto dell’elettorato moderato Harris ha fatto infatti fatica, attirandosi anche critiche da parte dei suoi sostenitori. Rilanciare il sostegno di molti repubblicani non proprio amati dall’elettorato dem, dichiarare in diretta da Oprah che è armata e che sparerebbe se qualcuno entrasse in casa sua (e il gun control?) e accodarsi, in un certo senso, all’avversario sul tema della sicurezza alla frontiera non sembrano aver aiutato Harris. Anzi, per molti versi l’impressione è che la campagna democratica sembra a un certo punto essersi fatta dettare l’agenda da quella repubblicana. E che quel momento positivo iniziale sopra accennato sia poi andato a infrangersi nella rincorsa dell’avversario, palesando difficoltà nell’imporre la propria di agenda.

Le sottovalutazioni di Harris

Molti analisti e commentatori hanno poi in parte sottovalutato l’importanza dell’economia, nonostante i sondaggi mostrassero quanto questa contasse. Sovrastimando altre questioni come quella dell’aborto. Specialmente nei territori del Midwest, dove la percezione di un’economia schiacciata dall’inflazione e dalla conseguente erosione del potere di acquisto di un ceto medio già provato in questi anni ha fatto la differenza. E il Blue Wall si è infranto nuovamente dopo il 2016.

I sostenitori di Trump riportavano infatti come l’economia fosse la priorità principale, mentre per quelli di Harris la salute della democrazia occupava la prima posizione. Preoccupazione evidentemente insufficiente. Specialmente fra le fasce della popolazione più in difficoltà o in segmenti come quello dei latinos, di coloro i quali guadagnano meno di 50.000 dollari l’anno e i giovani. Tutti gruppi elettorali dove Trump ha guadagnato margine rispetto al 2020.

I voti mancati di Harris

Gli exit polls della CNN mostrano un quadro abbastanza chiaro delle difficoltà avute da Harris alle urne. A partire dal voto femminile, su cui i democratici hanno puntato molto, ma che vede in questo momento la vicepresidente aver ottenuto meno di Hillary Clinton e di Biden. Fra gli uomini latinoamericani è risultata invece direttamente sconfitta da Trump, segnando un’inversione di tendenza rispetto alle ultime due elezioni. Mentre un’erosione del consenso (minima) fra le donne afroamericane e (più ampia) fra le latinoamericane si è palesata all’orizzonte. 

Sconfitta invece su entrambi i segmenti di genere fra i bianchi. Margini rosicchiati da Trump sui giovani e profonda divisione sui divari d’istruzione sono gli altri numeri importanti. Così come il più ampio consenso ritrovato da Trump rispetto al 2020 nelle zone rurali e il nuovo vantaggio ottenuto nei sobborghi.

Gli arabo-americani (non) per Harris

Discorso in più lo meritano gli arabo-americani, finiti già sotto la lente d’ingrandimento durante le primarie in Michigan. In quell’occasione circa 100.000 elettori democratici scelsero di non schierarsi con Biden, mostrando il loro dissenso verso i fatti di Gaza e la situazione in Palestina. E la rappresentazione plastica di questo distaccamento la vediamo proprio in Michigan, dove in una contea di 100.000 abitanti come quella di Dearborn, dove il 40% della popolazione è arabo-americana, la candidata terza del Green Party Jill Stein ha raccolto quasi il 20% contro il 27.8% di Harris. 

Trump è quindi risultato vincitore in questo territorio, fra chi ha scelto di non votare, di votare per Stein o addirittura in questo segmento ha optato per l’ex, e prossimo, presidente. E la deputata arabo-americana Rashida Tlaib, assicuratasi nuovamente con ampissimo vantaggio il suo seggio alla Camera nel dodicesimo distretto del Michigan, nei giorni scorsi si era rifiutata di dare il suo endorsement a Kamala Harris.

Dem: quali prospettive?

Ora, alla luce dei risultati e della sconfitta, ciò che colpisce è che per i dem per la prima volta in quasi 50 anni in nessuno dei 50 Stati c’è stato uno spostamento di voti loro favorevole. Per non parlare della dolorosa sconfitta nel voto popolare, dove i repubblicani non si imponevano dal 2004 con Bush. Il voto ha assunto molti tratti, fra cui quello del “voto contro”, in congruenza con la forte polarizzazione interna. Quello trumpiano specialmente. Contro l’establishment, contro i famigerati media mainstream, contro il politicamente corretto e la woke culture, contro l’immigrazione incontrollata e tante altre sfumature che da quel mondo provengono. 

Gli avvertimenti sulla salute della democrazia, l’importanza delle istituzioni e la difesa dello Stato di diritto sono nobili e fondamentali questioni che meritano di essere affrontate e tenute in alta considerazione. Così come la protezione delle minoranze, uno dei tratti specifici di qualsiasi democrazia. A queste andrebbero anche aggiunti piani e proposte per la costruzione di un’offerta politica in grado di migliorare la vita delle persone. Una cosa non esclude affatto l’altra. I democratici dovranno affrontare questa sconfitta cercando di trarne delle giuste conclusioni da cui ripartire. Se decidessero di scagliarsi esclusivamente contro l’elettorato repubblicano commetterebbero un grave errore, non riconoscendo alcune debolezze che li attanagliano. 

Fonti e approfondimenti

Bai, M., Where did Kamala Harris’s campaign go wrong?, The Washington Post, 06/11/2024

Buck, B., What Democrats must learn from Trump’s victory, MSNBC, 06/11/2024

Hendrickson, J., When the Show Is Over, The Atlantic, 05/11/2024

McCarthy, D., This Is Why Trump Won, The New York Times, 06/11/2024

Nagourney, A., If Trump Wins, Here’s Why, The New York Times, 04/11/2024

Kashinsky, L., Schneider, E., Sentner, I., Fuchs, H., Democrats sink into despair after Trump win, Politico, 06/11/2024

Wolf, Z., Merrill, C., Mullery, W., Anatomy of three Trump elections: How Americans shifted in 2024 vs. 2020 and 2016, CNN, 06/11/202

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