Memorie del dottorato: perché bisogna parlare di ricerca e salute mentale

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Chiunque sia passato per il dottorato sa quanto possa essere un’esperienza distruttiva per la propria salute mentale, a qualsiasi stadio del dottorato ci si trovi. Le sfide e le difficoltà a volte sono tali da far rimpiangere la scelta di aver intrapreso questo percorso. Eppure, riscoprire il piacere e il valore della ricerca è un tassello fondamentale per preservare la dignità del proprio lavoro e il proprio benessere mentale.

Il dottorato ha la straordinaria capacità di minare la salute mentale già prima di iniziare, quando ancora formalmente il dottorato non lo hai iniziato. Le domande di dottorato, che se ne faccia una sola o mille, sottopongono i giovani aspiranti dottorandi a una pressione fortissima. Tutto parte dal progetto di dottorato: si deve avere una buona idea, si deve capire come formulare correttamente una domanda di ricerca e come si struttura il progetto in modo efficace, lo si deve scrivere in modo chiaro ed efficiente perché si ha un numero di parole limitato, si deve trovare qualcuno a cui la propria ricerca interessi. Poi si passa ai documenti: cover letter, curriculum vitae, transcript of records, application forms, certificati linguistici, sorvolando sulle peripezie imposte dalla burocrazia italiana o straniera. E infine si arriva ai soldi. In Italia le tasse di partecipazione ai concorsi di dottorato sono tendenzialmente contenute, ma all’estero ogni application può costare anche piuttosto cara, imponendo già dall’inizio una forte “selezione naturale”: c’è chi può permetterselo e chi no.

È esattamente in questo momento che si inizia a percepire per la prima volta il senso di solitudine, perché la maggior parte delle volte questo percorso preliminare è svolto in solitaria: difficilmente all’università si insegna veramente cos’è la ricerca e come si fa. Ci dicono che “per quello c’è il dottorato”, ma per entrare al dottorato spesso è richiesto esattamente quello che si dovrebbe imparare al dottorato. I più fortunati hanno amici dottorandi e vecchi professori a sostenerli, disposti a offrire suggerimenti, correzioni, o anche un “semplice” supporto morale. Eppure, la gran parte delle volte si finisce col sentirsi soli in questo turbinio di aspettative e scadenze.

A questo punto, le ipotesi sono due.

Primo scenario: arrivano i rifiuti. Anche in questo caso, che si abbia partecipato a colpo sicuro a un solo bando o a tanti, i rifiuti sono egualmente pesanti per la salute mentale. I tanti mesi di lavoro che paiono persi, l’investimento emotivo ed economico, il tempo libero e il sonno sacrificati per studiare il più possibile e scrivere giorno e notte “per fare in tempo”, la delusione e il senso di fallimento per non essere stati selezionati, il conseguente senso di inadeguatezza e la percezione che il proprio lavoro non sia stato valutato all’altezza di fare il dottorato di ricerca. Molti mollano, alcuni riprovano. In ogni caso, la frustrazione e la pesantezza rimangono lì, in un angolo più o meno ingombrante del cervello. 

Di nuovo, i più fortunati hanno una famiglia e degli amici al proprio fianco e a ricordare che identificarsi unicamente con quello che si fa è sbagliato e che un rifiuto non equivale a un giudizio negativo su chi sei e sul tuo lavoro, che il dottorato è una giostra, un’altalena, una montagna russa, ecc. Sono tutte considerazioni sicuramente razionali e di enorme aiuto per mettere il rifiuto in prospettiva. Sono parole che molto spesso i dottorandi “già dentro” ripetono come un mantra a chi “sta fuori” (e a se stessi nei momenti più difficili), sapendo bene quanto sia difficile stare dall’altra parte e non farsi travolgere.

Secondo scenario: si superano tutti i passaggi e alla fine si è dentro. Ora si comincia davvero, pur avendo alle spalle quanto appena descritto. Ci si rende conto che non si era minimamente preparati e si inizia a sentire un più o meno insistente senso di smarrimento, ci si inizia a chiedere se si ha veramente fatto la scelta giusta. Di fatto, si ha l’impressione che sia iniziata una corsa incessante e spesso senza una direzione ben precisa. 

Il piacere della ricerca passa in secondo piano, il senso di cosa si sta realmente facendo sfugge. Si deve pubblicare (perché “publish or perish”) e quindi bisogna capire come/quanto/dove pubblicare. Spesso bisogna assistere la propria cattedra di riferimento con corsi, esami, tesisti, studenti. Si deve capire dove fare un periodo all’estero e in quel caso cercare i contatti scontrandosi con altra burocrazia. Bisogna seguire corsi e seminari perché spesso non si riceve formazione. Poi si devono fare esperienze di insegnamento, partecipare a calls for papers e a conferenze, cercare finanziamenti, fare networking. E in tutto ciò, si deve studiare e dedicare del tempo alla propria ricerca, perché la tesi non si scriverà da sola e sarà la base per la prima monografia da pubblicare dopo il dottorato. Tutto questo in tre o massimo quattro anni, che sembrano tanti ma sono un attimo. Senza contare che in Italia si è condannati a una borsa di studio misera rispetto ad altre realtà europee (1.132,68 euro contro per esempio i 2.400 del Belgio).

La salute mentale durante il dottorato è sottoposta a uno stress unico nel suo genere. La vita senza orari di lavoro, la forte competizione tra pari che spesso spinge a non confrontarsi con i colleghi e quindi condanna a ulteriore isolamento, la difficoltà nell’organizzarsi per essere in grado di fare tutto, il poco tempo libero a disposizione per gli affetti e un sano riposo, il senso di colpa causato da chi non è entrato e ti dice “almeno tu lo fai il dottorato”, oppure la mortificante fatica del dover rispondere ad altri che ti chiedono “sì ma quindi che lavoro fai?”. Tutto questo rende molto difficile sentirsi liberi di lamentarsi, perché non se ne ha lo spazio e perché è difficile far capire a qualcuno che non ci è passato cosa si prova. Si è considerati dei privilegiati e quindi non ci si dovrebbe lamentare. In più, molti dottorandi soffrono della cosiddetta “sindrome dell’impostore, ossia una condizione per cui non ci si sente di meritare di ricoprire la propria posizione e si vive nella costante paura di essere scoperti da un momento all’altro per quello che si è: una frode. Quindi si è “fortunati”, non “meritevoli”. Inutile dire che la sindrome dell’impostore coinvolge in particolare le donne, che devono anche dimostrare di essere all’altezza dei colleghi uomini.

Quando il dottorato finisce, una delle sensazioni più degradanti che si possa provare è pensare di non aver lavorato “davvero” nemmeno un giorno in vita propria, come se il dottorato non fosse un lavoro. Non ci si sente preparati al mondo reale, soprattutto se si finisce alla vigilia dei trent’anni, età in cui in Italia si inizia a essere “vecchi” e in cui spesso i propri amici magari lavorano da tempo, vivono da soli e sono economicamente indipendenti. Lo smarrimento e la solitudine permangono, così come la tendenza a dubitare delle proprie scelte e del proprio investimento, o peggio la delusione delle aspettative che si avevano rispetto a cosa doveva essere il dottorato. Il tutto è aggravato dal fatto che raramente le università offrono un reale percorso di orientamento alla carriera post-dottorale.

Secondo i risultati di un’indagine ISTAT del 2018 (confermati poi dal report annuale 2020 di Almalaurea), a sei anni dalla conclusione del dottorato circa il 24% dei dottori di ricerca ha trovato lavoro nel settore universitario, il 36% di questi attraverso un assegno di ricerca. Se passiamo ai dati riguardo alla progressione nella carriera universitaria la situazione è abbastanza disarmante, specialmente guardando all’estero. Infatti, in Italia solo un dottore su dieci lavora come ricercatore o professore universitario (di cui il 40% presso lo stesso ateneo), mentre all’estero il rapporto passa a un dottore su quattro. Molto indicativo è anche il dato riguardo alla soddisfazione della propria scelta: se il 79% dei dottori di ricerca ritiene il dottorato utile per l’accesso al lavoro, il 38% non rifarebbe la stessa scelta.

Quanto c’è di (s)oggettivo in questa descrizione del dottorato? Sicuramente ognuno vive o ha vissuto il dottorato secondo la propria esperienza, chi scrive è influenzata da cosa ha vissuto in prima persona in quanto dottoranda ed è comunque da considerare nell’alveo delle persone fortunate, perché ha una famiglia, degli amici e dei professori che l’hanno sempre sostenuta. Eppure, il fatto che esistano delle esperienze positive non significa che la salute mentale dei dottorandi sia una questione trascurabile. Giusto per citare un paio di esempi, nel 2017 una ricerca pubblicata su Research Policy e nel marzo del 2018 uno studio di Nature Biotechnology avevano già evidenziato l’alta diffusione di disturbi d’ansia e depressione tra giovani ricercatori. Ancora più di recente, nel 2019 un editoriale di Nature ha sottolineato come un dottorando su tre abbia combattuto con ansia e depressione durante il dottorato e come sia quindi urgente un cambio della “cultura della ricerca” per la prossima generazione di dottorandi.

 

 

L’articolo di Nature è stato poi ripreso dal Sole 24 ore, che ha evidenziato altri aspetti molto interessanti, come il carente supporto psicologico offerto dalle università e dai supervisori o come l’aspettativa (incoraggiata) di lavorare oltre orario. Un altro dato drammatico riguarda le discriminazioni subite durante il dottorato: genere, etnia, età, orientamento sessuale e identità di genere, a cui si aggiungono episodi di molestie sessuali. Inoltre, è superfluo aggiungere che la situazione è ulteriormente peggiorata con le incertezze e le restrizioni imposte dalla pandemia da Covid-19. Insomma, non è “solo ansia”.

 

 

Quindi fare il dottorato è necessariamente una scelta sbagliata e/o che ti condanna alla sofferenza? No, non dev’essere necessariamente così e non dovrebbe esserlo a prescindere. Cambiare la cultura della ricerca deve innanzitutto partire dal concetto di dignità del lavoro, perché il dottorato (e fare ricerca) è un lavoro. E in quanto tale va tutelato, investendo in strumenti di supporto psicologico e di orientamento al lavoro, favorendo un bilanciamento tra vita lavorativa e personale, stimolando una ricerca basata sulla qualità e non sulla quantità di ciò che si “produce”, sdoganando il mito che chi produce di più è migliore e più “valido” di chi pubblica meno. 

Infine, è cruciale riscoprire il piacere di fare ricerca, di portare avanti uno studio dall’inizio alla fine, di confrontarsi con un gruppo di ricerca, di imparare costantemente senza sentirsi mai arrivati a destinazione, di stare contribuendo, nel proprio piccolo, ad arricchire una disciplina, cercando di offrire qualcosa di nuovo. Alla fine dei conti, la ricerca dovrebbe essere questo. E ogni tanto è salutare ricordarselo.

 

 

Editing a cura di Carolina Venco

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