Era il 1983 quando Svetlana Aleksievič presentò all’editore la prima stesura di La guerra non ha un volto di donna. L’epopea delle donne sovietiche nella seconda guerra mondiale. Il libro si scontrò immediatamente con la rigida censura del PCUS, che ne ostacolò la pubblicazione. Bisognò aspettare l’ascesa di Gorbačëv alla Segreteria del partito e l’inizio della perestrojka nel 1985 affinché il libro vedesse la luce, e con essa l’immediato successo. Da quel momento in poi Aleksievič, scrittrice, giornalista e attivista di origini sovietico-bielorusse, è diventata sempre più acclamata, fino a ricevere il premio Nobel per la letteratura nel 2015. Il suo impegno letterario e politico, infatti, ha portato alla luce aspetti della vita e della storia dell’Unione Sovietica fino ad allora rimasti nell’ombra.
L’altra guerra
Nel 1941, più di un milione di donne fu chiamato alle armi dal governo sovietico per far fronte alle perdite subite dall’avanzata di Hitler. Queste donne si ritrovarono arruolate nei ruoli più disparati: infermiere, telegrafiste, soldati di fanteria, carriste, aviatrici, tiratrici… A guerra finita, tuttavia, la loro esperienza fu sostanzialmente messa a tacere. La narrazione del conflitto imposta dal PCUS, infatti, escluse l’esperienza bellica femminile per due principali ragioni. La prima fu un generale ritorno a ruoli di genere più “tradizionali”. La seconda fu evitare di rievocare le enormi perdite umane subite in guerra, che rappresentarono la causa principale dell’entrata in massa delle donne nel conflitto.
Proprio questa esperienza riportò alla luce Aleksievič nella sua opera, nella maniera meno filtrata possibile. Il libro consiste infatti in una raccolta di testimonianze di veterane sovietiche che combatterono la Grande Guerra Patriottica. Le voci raccolte da Aleksievič andarono a squarciare un arazzo le cui trame artificiose erano state tessute con minuzia nel corso di decenni da parte dell’amministrazione sovietica, introducendo elementi nuovi e rivoluzionari nella narrazione degli eventi bellici.
Con quest’opera, infatti, Aleksievič denunciò la rappresentazione istituzionale del conflitto, prettamente “maschile”: “Siamo tutti prigionieri di una rappresentazione ‘maschile’ della guerra. Che nasce da percezioni prettamente ‘maschili’. Rese con parole ‘maschili’. Nel silenzio delle donne. […] Tacciono perfino quelle che sono state al fronte. Se pure all’improvviso cominciano a ricordare, non raccontano la loro guerra ‘femminile’ ma quella ‘maschile’. Si adattano al canone invalso. E solo in casa, o piangendo, nella cerchia delle proprie amiche veterane, si mettono a narrare la propria guerra. Ed è una guerra sconosciuta”.
Aleksievič sfidò dunque la narrazione istituzionale della Grande Guerra Patriottica, e soprattutto della Vittoria ( oggi, in Russia, celebrata il 9 maggio con un giorno di festa nazionale): una Vittoria tronfia di onore, pulita e limpida, gloriosa, adatta alla grande Storia, conquistata da personaggi quasi esclusivamente maschili, altrettanto eroici. Questa visione irrigidita, pomposa e poco realistica, più adatta a un poema epico che a un racconto confidenziale, non venne mai accolta dall’autrice, che invece ha sempre cercato di “ridurre la grande Storia alle dimensioni della persona, per vedere di capirci qualcosa”.
Il singolo però, a differenza di una collettività sulla quale è possibile generalizzare, ospita in sé forze e sentimenti contrastanti, molti dei quali mancano di nobiltà, onore e gloria. Il singolo ha spesso paura, è a volte vile, debole; a volte così compassionevole da riuscire a empatizzare col nemico. Rivela passioni “non istituzionali” e compie azioni vili e terribili. Questo spettacolo dà luogo a uno dei grandi interrogativi del libro: in guerra si rivela la vera natura dell’uomo, che in tempo di pace viene attenuata e smussata dagli orpelli e dalle norme della società civile? O avviene invece un inquietante mutamento in senso regressivo che trasforma l’umano in non-umano? Il libro, appartenendo al genere del romanzo documentario, non ha pretesa alcuna di risolvere questo nodo, e lascia anzi libertà di giudizio alla coscienza del lettore, a sua volta diviso fra testimonianze contrastanti e ugualmente terribili.
Un libro dissacrante
All’origine dell’iniziale volontà censoria c’era il carattere fortemente dissacrante dell’opera di Aleksievič. Innanzitutto, sebbene il libro non abbia la pretesa di fornire una visione universale e onnicomprensiva e la prospettiva femminile non venga dichiarata o considerata l’unica valida e attendibile, l’opera accantona e marginalizza la prospettiva maschile e, pertanto, sminuisce in maniera indiretta la figura dell’uomo sovietico.
In secondo luogo, la figura superstite della donna sovietica viene anch’essa sminuita agli occhi delle autorità, per via di una rappresentazione evidentemente più realistica. Il panorama ricco ed eterogeneo rivelato progressivamente dalle numerose testimonianze mostra figure femminili che si allontanano molto dai modelli proposti dai vertici del potere sovietico, offrendo al loro posto un naturalismo crudo e senza veli. Le donne che raccontano non sono riconducibili direttamente né alla donna eroica in casacca e pantaloni con lo sguardo rivolto verso l’alto, né all’angelo del focolare dalle mani morbide e premurose.
Le donne in guerra
Nonostante l’eterogeneità delle esperienze individuali, dalle testimonianze raccolte emergono temi e sentimenti ricorrenti, grazie ai quali è possibile ricostruire un quadro complessivo dell’esperienza peculiare delle veterane e delineare un profilo più realistico della donna sovietica in battaglia, e della cosiddetta guerra al femminile.
Uno dei temi ricorrenti nelle testimonianze è il patriottismo, coniugato con il culto della personalità di Stalin. Questi, uniti all’ideologia di stampo collettivista che caratterizzava il regime sovietico, rappresentarono una fonte di motivazione la cui impellenza fu in grado di prevalere su tutto, compresi paure e affetti famigliari.
Altri temi ricorrenti sono il concetto di femminilità e la perdita e la ricerca di essa. Seguendo il modello binario tradizionale, la guerra è tradizionalmente “roba da uomini”, priva di qualsivoglia orpello femminile. Pertanto, una donna nell’esercito, specialmente una soldatessa, ha generalmente due possibilità: impegnarsi a preservare integra la propria femminilità, in qualsiasi modo essa fosse intesa; oppure sopprimerla totalmente e adeguarsi al modello tradizionale del soldato maschio. Entrambe le opzioni richiedono uno sforzo innaturale: la prima perché trasporre modi di fare, abitudini e punti di vista tradizionalmente femminili in ambiente militare prevalentemente maschile implica l’introduzione forzata di elementi estranei e considerati superflui. La seconda perché richiede la soppressione di una delle componenti identitarie più forti. In entrambi i casi emerge dalle testimonianze uno sforzo doloroso, cancellato dalla narrazione di regime del vissuto bellico.
Questo e molto altro emerge dalla ricca raccolta di voci dimenticate, accuratamente ricercate e riportate fedelmente da Aleksievič. Il merito più grande di questo libro, forse, è quello di problematizzare una narrazione storica fino ad allora rimasta sostanzialmente indiscussa, e riportarne al centro questioni importanti quanto trascurate.
Fonti e approfondimenti
Aleksievič, S. (2015), “La guerra non ha un volto di donna. L’epopea delle donne sovietiche nella seconda guerra mondiale”, Bompiani. Traduzione di Sergio Rapetti e Paolo Maria Bonora.
Aleksievič, S. (2017), “Dentro la storia e come raccontarla”, Gli Asini, 41.
Rapetti, S. (2016), “Il secondo sguardo di Svetlana” in A. Franchi, S. Rapetti (2016). 51-65.
Lanzarini, S. (2020), “La fine del popolo sovietico: chi è Svetlana Aleksievič?”.
Editing a cura di Elena Noventa
Grafica di Simone d’Ercole
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