Il declino dello Stato tra globalizzazione e neoliberismo

Il dibattito sui limiti imposti dalla globalizzazione ai poteri dello Stato è ormai da un ventennio presente sulle pagine dei quotidiani. La crescita dell’interdipendenza dell’economia internazionale, con soggetti privati globali sempre più grandi e prominenti, ha mostrato la debolezza dell’apparato statale davanti a tali cambiamenti. Multinazionali ed hedge funds sono presenti in vari territori, con bilanci spesso superiori a quelli degli Stati stessi e con interessi così pervasivi a livello nazionale da poter mettere in difficoltà e talvolta addirittura ricattare i Paesi.

Questa tendenza ha portato nel tempo, in particolare nei primi anni Duemila, alcuni pensatori e manager ad azzardare la teoria dell’inutilità dell’attore statale. Tuttora, in alcune parti del globo il privato cerca di sostituirsi al pubblico. Si guardi alle zone autogovernate proposte da Elon Musk in Arizona e ai distretti semiautonomi di Google in California, dove anche i servizi più basilari vengono operati dalle compagnie private aziendali. Azioni che ridurrebbero lo Stato a mero passacarte.

La crisi del 2008 ha però mostrato come lo Stato sia un soggetto necessario e che la globalizzazione e la narrazione neoliberista partita dagli anni Settanta lo abbiano reso solo più vulnerabile e meno efficace, ma non meno importante. 

È tornata dunque in auge una letteratura sul ruolo dello Stato nel mondo degli investimenti – ad esempio col libro “Lo Stato Innovatore” di Mariana Mazzuccato – nella regolamentazione e in tutti quei campi fondamentali – dal welfare alle infrastrutture – in un sistema-Paese, che solo lo Stato può portare a termine, rivalutandolo. Cerchiamo di ripercorrere la parabola del potere statuale nell’era della globalizzazione.

I grandi nemici dello Stato: Ronald Reagan e Margaret Tatcher

L’opposizione al potere e al ruolo dello Stato ha radici antiche, molto antecedenti al fenomeno dell’economia globale. Polanyi nel suo “Great Transformation” ripercorre la nascita delle prime forme di economia del XII secolo sfatando il mito del mercato autogeneratosi. L’economista ungherese sottolinea come solo l’attore statuale, con la sua potenza regolativa, che consente l’eliminazione di monopoli e barriere create dai costi di transazione, permetta la nascita dei primi mercati nazionali. Nella sua ricostruzione però ricorda come fin dall’inizio l’azione statuale venne ostacolata dai privati, che la trovarono inutile in quanto secondo loro distorcente del “naturale” funzionamento del mercato (legge della domanda e dell’offerta). Ciechi, a parere di Polanyi, di fronte al fatto che questo equilibrio ha come unico risultato l’autodistruzione dell’economia stessa, come conseguenza dello sfruttamento del lavoratore, che è inevitabilmente anche consumatore.

Superate le fasi iniziali della rivoluzione industriale, dall’inizio del Novecento fino alla metà del secolo abbiamo assistito a un lento trionfo dell’apparato statale e del suo ruolo, sia fuori che dentro l’economia. Questo processo è culminato nel New Deal, nelle guerre mondiali e nelle teorie keynesiane sulla regolamentazione del commercio – mai applicate ma protagoniste a Bretton Woods nel 1944. In questi anni nessuno è più potente dello Stato, il quale attraverso la sua forza ricostruisce i continenti devastati dalla  Seconda guerra mondiale ed è il principale motore di economia e sviluppo, relegando i privati ad attori secondari da sostenere. È a partire dagli anni Settanta che qualcosa inizia a cambiare. Daniel Stedman Jones, nel suo “Master of the universe” in cui racconta la nascita del neoliberismo, mostra come, a partire dalla stagflazione degli anni Settanta, economisti e politici vari usarono il fallimento delle manovre statali basate sul trade off tra inflazione e disoccupazione per indicare nello Stato il nemico numero uno.

L’economia sempre più interconnessa – come si può notare dalla crescita di potenze economiche votate all’esportazione quali Giappone e Germania – inizia dunque a minare la forza e la giurisdizione del potere statuale. A trent’anni dalla nascita delle prime organizzazioni internazionali economiche (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale) si inizia a vederne gli effetti nell’apparato statale che ormai ha totalmente perso alcune delle sue prerogative. Dani Rodrik rappresenta bene questa crisi nel suo trilemma. L’economista turco esplica come non si possano avere nello stesso momento democrazia, globalizzazione e sovranità nazionale, ma solo due di queste tre. In questi anni iniziano le prime fughe di capitale e la nascente economia finanziaria garantisce i primi lauti guadagni, ma alla sola condizione di essere libera da limiti, come tasse e dazi.

Due personaggi furono più di tutti fautori di questo attacco al potere statuale dal punto di vista politico: Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Il presidente degli USA e la Prima ministra britannica, ferventi ascoltatori delle teorie neoliberiste, iniziarono a definire che la soluzione era meno Stato, per liberare le forze dei privati, e l’innovazione che solo questi attori, secondo loro, potevano garantire.

Le multinazionali e gli accordi di libero scambio internazionali

L’economia globale però non ha frenato mentre lo Stato veniva attaccato internamente da coloro che lo ritenevano inutile e pericoloso, come i teorici neoliberisti Hayek e Friedman. Mentre queste teorie e la mano dei governi ideologizzati facevano crollare le amministrazioni in Sud America e ampliavano i deficit dei Paesi africani e del Sud del mondo, le multinazionali aumentavano sempre di più il proprio capitale, le proprie connessioni e la loro pervasività

Istituzioni come l’Organizzazione Mondiale del Commercio e il Fondo Monetario Internazionale divennero i centri di propagazione della lotta al potere statuale. Attraverso gli accordi di rientro del debito e i rigidi piani di austerità i Paesi furono costretti a tagliare i propri bilanci, con il welfare statale in prima fila, ma iniziarono a vedersi limitati anche in altri settori.

L’adesione a tali istituzioni comprendeva anche accordi giudiziari per dirimere questioni e per risolvere controversie. Numerosi furono i casi di Paesi citati in giudizio da multinazionali in queste sedi internazionali. L’apice fu raggiunto nel caso degli accordi di libero scambio del TTIP, Transatlantic Trade and Investment Partnership, e del TTP, Trans-Pacific Partnership. Ambedue non sono stati portati a termine dopo l’opposizione dei cittadini europei nel primo caso e quella di Donald Trump nel secondo. Tutti e due gli accordi però prevedevano tribunali speciali, in cui le aziende avrebbero potuto citare in giudizio, in corti scelte per metà dagli Stati e dalle aziende, gli Stati stessi, ove questi avessero agito per limitare i loro guadagni, per esempio inserendo una tassa o regolamentando un settore. Dei veri e propri processi all’attore statuale, che da rappresentante dei cittadini eletto democraticamente sarebbe diventato sottoposto a corti semiprivate, scelte da consigli di amministrazioni e amministratori delegati.

Gli anni Novanta furono sicuramente l’immagine del trionfo di questa tendenza. Enormi guadagni e disuguaglianze distorsive segnarono profondamente il mondo e gli Stati Uniti tra tutti. Lo Stato nordamericano in questo periodo divenne il principale sostenitore del modello che voleva governi deboli e sottomessi agli interessi privati. L’amministrazione Clinton è sicuramente la principale fautrice della spinta globale, talmente marcata da arrivare a costringere l’allora segretario al Tesoro del presidente Robert Reich alle dimissioni. Da notarsi e sottolinearsi il fenomeno delle “revolving doors”, importante per comprendere uno degli aspetti di questa debolezza statuale. 

Quest’espressione sta a indicare la facilità con cui la stessa persona passi da ruoli pubblici a compagnie private, spesso senza risolvere totalmente il precedente conflitto di interessi e a volte facendo successivamente il percorso inverso. Un modello però fallimentare, che ha spogliato di competenze gli apparati governativi, i cui vertici sono spesso intrisi di una profonda devozione a soggetti privati con cui hanno collaborato precedentemente. Nel 2008, all’alba della crisi finanziaria più devastante della storia economica del pianeta, il segretario al Tesoro dell’allora amministrazione George W. Bush, Henry Paulson, era stato precedentemente CEO della Goldman Sachs, una delle banche al centro della crisi stessa. Inutile sottolineare come questo lo abbia influenzato poi nelle scelte.

Conclusioni

Il processo di globalizzazione dell’economia e degli scambi commerciali ha portato a un indebolimento del potere statuale, che si è trovato costretto nella sua sovranità economica e politica. È necessario sottolineare come questo sia avvenuto e stia avvenendo sia per Stati autoritari sia per Stati democratici. Un esempio è il tentativo del governo cinese di limitare l’impero economico del magnate Jack Ma, che con la creazione dell’Ant Group avrebbe probabilmente avuto un’influenza su Pechino difficilmente controllabile. 

Mariana Mazzucato descrive il percorso degli ultimi anni come una storia di socializzazione dei rischi e privatizzazione dei profitti. La globalizzazione ha sicuramente portato a questo, ma indebolendo lo Stato ha reso ancora più difficile la capacità di risolvere le crisi, mettendo a rischio l’esistenza stessa di un mondo globale, come dimostrano le spinte autarchiche e di chiusura chieste da politici in vari Paesi. Polanyi descriveva nel suo “doppio movimento” questo fenomeno. Nel suo caso parlava dei fascismi come della risposta della società a un mercato incontrollato che però porta inevitabilmente a una situazione di ulteriore distruzione. Lo Stato va quindi riscoperto come l’unico attore che può garantire un equilibrio tra mondo globale e locale e come garante dei diritti sociali e umani.

 

Fonti e approfondimenti

Jones, Daniel, S. 2021. “Masters of the Universe”. Princeton University Press. Princeton.

Mazzucato, M. 2013. “The entrepreneurial State”. Anthem Press. Londra.

Polanyi, K. 1944. “The great transformation”. Farrar & Rinehart. Londra.

Reich, R. 2020. “The System: Who Rigged It, How We Fix It”. Knopf. New York.

Rodrik, D. 2011. “The Globalization Paradox: Why Global Markets, States, and Democracy Can’t Coexit”. WW Norton. New York & Londra.

 

Editing a cura di Cecilia Coletti

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