La leggenda delle tre scimmie sagge, che influenza la cultura giapponese ormai da secoli, racconta che siano l’emblema della sapienza in quanto non vedendo, non dicendo e non sentendo il male, possano condurre un’esistenza piena e retta. Analizzando la parabola delle nostre élite, sembra che una rimodulazione della storia dei tre primati nipponici leggendari possa essere una metafora perfetta per descriverne lo stato di salute.
La nostra classe dirigente sembra aderire a un motto simile, ma dall’esito diverso: “non vedo, non sento, ma parlo”. Benché incapace di percepire e osservare la complessità di quello che ha intorno, è incredibilmente innamorata solo della propria voce. Sembra questa una frase estremamente populista e tipica del clima di antipolitica che troneggia nel dibattito pubblico, ma proviamo ad allargare il classico concetto di classe dirigente andando a comprendere quello che di solito non viene toccato. Se l’incapacità di ascoltare e vedere, volendo allo stesso tempo parlare è sicuramente una caratteristica dei nostri politici, o almeno della maggior parte di essi, va detto che non sono gli unici. Questa patologia sociale è dilagata praticamente in tutti i luoghi dove il potere si annida, anche in minime parti.
Viene alla mente lo stuolo di manager e capi d’industria che declamano le lodi di riforme e ricette che spesso il mondo circostante definisce, e a volte mostra con fatti chiari, come fallaci e dannose. Allo stesso tempo però questa dannosa qualità sembra riscontrarsi in molti contesti. Nel mondo dell’informazione, dove si auspica un dibattito più alto senza lasciare lo spazio a coloro che potrebbero renderlo tale. Tra gli intellettuali, che si incaponiscono sulle proprie teorie per non concedere di essersi umanamente sbagliati. Nei leader della società civile, che a volte neanche ne ascoltano i membri.
Ma da dove deriva questa incapacità di sentire e di percepire? Alcuni danno la colpa alla società attuale, ai media, alla moltiplicazione dei mezzi di comunicazione che hanno dato a tutti un pulpito. Ma se tutti parlano, allora il segnale si perde nel rumore, come dice Nate Silver, direttore di Five Thiry Eight e autore di “The Signal and The Noise”. Non per un fatto personale, ma meramente statistico, in quanto è troppo grande il chiasso. In questo trambusto, la persona conscia e preoccupata della propria responsabilità riconosce all’interno di questo caos qualcosa: la sua voce. Come in un gioco dell’eco continua a parlare così da avere un ritorno che riconosce, l’unico di cui realmente si fida essendo il proprio, benché di fatto sia un soliloquio, quindi per nulla utile.
Sebbene la teoria sia allettante e probabilmente molto valida, vanno sottolineati altri fattori che potrebbero aiutarci ad arrivare a un quadro più completo, ma comunque mai totale.
Sono molti gli psicologi e i neuropsichiatri che descrivono un trend di autolesionismo in crescita tra i nostri adolescenti. La ragione alla base, spiegano, è la mancanza di strumenti riflessivi per affrontare sfide complesse e i fallimenti che inevitabilmente la vita ci riserva. In una società che ci appiana tutte le difficoltà fin da piccoli e che respinge ogni forma di complessità, arriviamo a non avere gli strumenti cognitivi adatti all’inevitabile complessità. E se lo stesso fosse vero per le nostre classi dirigenti?
In una società in cui l’esistenza della persona è sempre più legata al successo e in cui anche le sfide sono per buona parte esistenziali, in cui la formazione è secondaria e ci si getta nei luoghi di leadership senza alcuna palestra, le nostre élite non sembrano in grado di accettarne le conseguenze né sono in grado di mettersi in dubbio, condizione fondamentale per poter affrontare quello che da sempre la storia e gli eventi pongono sul cammino.
La risposta dei leader, dei capi e in generale delle persone con una certa responsabilità è dunque quella di chiudersi dentro bolle, circondati da lacchè e ruffiani il cui compito non è quello di porre dubbi o testare le risposte pensate, ma semplicemente confermare in modo da non mettere in crisi il potere. Cosa sono queste se non manifestazioni di autolesionismo societario, in cui i migliori per merito restano fuori in quanto portatori di complessità e il loro posto è preso dai mediocri, meno pericolosi e più dannosi per il bene comune.
È dunque probabile che il problema sia insito nelle cosiddette palestre della classe dirigente e negli obiettivi che esse si pongono.
Se lo scopo è quello di sopravvivere mantenendo il potere e non far progredire l’intera società, allora certo l’ascolto e la percezione della complessità sono le minacce più pericolose. Come nel libro Fahrenheit 451 i libri vengono bruciati per non instillare il dubbio, così anche le competenze devono essere bruciate in modo tale da non far vacillare le nostre fragili classi dirigenti. Se abbiamo élite insicure è necessario ripensare il percorso della loro formazione, aumentandone le prove e il periodo di crescita, insegnando ad andare oltre la superficie sottile degli affari, non lodando la mediocrità, ma mostrando loro che l’errore e la fallacia non vanno a incrinare la loro persona, ma possono solo migliorarla.
Allargando il discorso sembra però naturale chiedersi di chi è la colpa di questa incredibile fragilità generale dei nostri esseri umani adulti. Come ci suggerisce V in V per Vendetta nel noto discorso alla nazione britannica, quando si cerca un colpevole è sempre utile guardarsi allo specchio per prima cosa. Non viviamo forse in una società in cui ognuno di noi rifugge l’umiltà, crede di sapere tutto e in cui si preferisce parlare piuttosto che ascoltare? Ma esistono rimedi, non c’è bisogno di preoccuparsi. La pratica costante dell’utilizzo dei nostri sensi, a differenza delle tre scimmiette giapponesi, e dell’arte del dubbio, come suggerita da Ricoeur nel suo I maestri del Sospetto, accompagnata a un uso più parco possibile della parola, soprattutto quando si sa di non sapere, potrebbe riportarci a vecchi fasti al momento insperati.
Editing a cura di Giada S Deregibus
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