“Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi.”
Così, il giornalista Dino Buzzati descrisse sul Corriere della Sera, a due giorni dal disastro, quella che è rimasta impressa nella memoria collettiva del nostro Paese come “la tragedia del Vajont”. La frana più disastrosa mai verificatasi in Europa è stata probabilmente una delle massime espressioni del potere della natura e delle conseguenze degli errori umani, e oggi la diga del Vajont, ancora in piedi anche se vuota, è un simbolo dell’importanza del rispetto dell’ambiente e della sicurezza delle opere ingegneristiche.
Un’opera ingegneristica senza precedenti
Costruita nel 1960 sul monte Toc, nel Cadore, al confine tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, la diga del Vajont rappresentava un’opera ingegneristica senza precedenti in Italia e in Europa. Progettata alla fine degli anni Venti con l’obiettivo di fornire energia idroelettrica agli abitanti del Veneto, la diga, una delle più alte al mondo con i suoi 262 metri, faceva parte di una complessa rete di dighe, centrali idroelettriche e gallerie costruite per la produzione di energia idroelettrica dalla Società Adriatica di Elettricità (SADE). Sfruttando la profondità della gola scavata dal torrente Vajont tra i monti Toc e Salta, la diga raccoglieva le acque provenienti dalle dighe e dalle centrali idroelettriche costruite più a monte, lungo il corso del fiume Piave, e le sfruttava per la produzione di energia.
Cronaca di un disastro annunciato
La sera del 9 ottobre 1963, un blocco di 270 milioni di metri cubi di roccia franò dal pendio del Monte Toc nella diga del Vajont, a una velocità di 100 km/h. Avendo un’estensione superiore a quella della diga, la frana provocò due ondate d’acqua alte oltre 250 metri. Risalendo la valle, la prima distrusse Erto e Casso e sommerse i paesi di Pineda, San Martino e Le Spesse, fino al passo di Sant’Osvaldo. La seconda, invece, si riversò sulla valle ai piedi della diga, sommergendo in pochi minuti Longarone.
Quella del 9 ottobre non era, però, la prima frana a cadere nella diga del Vajont. Già dal 1956, era stato scoperto che le pendici del Monte Toc (non a caso soprannominato “la montagna che cammina”) fossero instabili, essendo composte da depositi di terra franati precedentemente, anziché da roccia solida. Prima ancora del completamento della diga nel settembre 1960, un giornale locale aveva addirittura denunciato che nelle vicinanze del bacino si stessero verificavano sempre più frequentemente eventi franosi, sollevando dubbi sulla probabilità di un disastro imminente. La giornalista Tina Merlin, che aveva dato alla questione una rilevanza nazionale pubblicando un articolo su L’Unità, venne denunciata per diffusione di “notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”. Processata, fu assolta nel novembre 1960.
Subito dopo il completamento della diga, poi, una serie di piccole frane diffusero nei paesi a valle del Monte Toc il timore che la montagna potesse crollare. SADE decise di chiedere consulenza al geologo austriaco Leopold Müller che, assieme ai geologi Franco Giudici e Edoardo Semenza, scoprirono sotto la superficie del monte Toc un’enorme frana silente in movimento, che secondo loro avrebbero potuto essere aggravata dalla diga, dato che per loro la montagna era intrinsecamente instabile e inarrestabile. Nonostante i rischi evidenziati da questo consulto, gli ingegneri di SADE decisero di riempire il bacino fino a 25 metri al di sotto del suo livello massimo, convinti di poter così prevenire ed evitare in ogni caso un disastro.
Tuttavia, i movimenti del terreno continuavano ad accelerare con l’innalzamento del livello dell’acqua nella diga, e le amministrazioni locali iniziarono a preoccuparsi seriamente. Nel frattempo, SADE aveva venduto al neonato Ente Nazionale per l’Energia Elettrica (ENEL) la diga, che era qundi diventata proprietà dello Stato.
Pochi giorni prima del disastro, i sindaci di Erto e Casso avevano invitato gli abitanti a evacuare i villaggi per il rischio di una frana imminente. Tuttavia, tutti gli avvertimenti si rivelarono in gran parte inefficaci. Il preavviso era insufficiente a consentire l’evacuazione degli abitanti a valle e il fatto che la frana si verificò di notte contribuì a cogliere i residenti della valle mentre erano incapaci di difendersi.
L’entità dei danni fu evidente solo il mattino successivo, quando si capì che le possibilità di salvare o ritrovare i dispersi erano minime e che la maggior parte delle strutture della zona erano distrutte. Insieme a Longarone, altri quattro paesi (Pirago, Rivalta, Villanova e Fae) furono travolti, per un totale di 2.056 vittime e altrettanti feriti. Paradossalmente, una delle poche cose che rimase in piedi fu la diga stessa, che subì pochi danni.
Due storie opposte di ricostruzione
Subito dopo la tragedia si cominciò a lavorare alla ricostruzione. Non tutti i paesi coinvolti nel disastro vissero, però, la stessa sorte, sebbene distassero solo pochi chilometri gli uni dagli altri e fossero distrutti e inagibili allo stesso modo. In questo senso, la storia di Erto e Casso e quella di Longarone sono emblematiche.
A Erto e Casso, l’11 ottobre 1963 venne disposto da parte delle autorità nazioniali lo sgombero totale del paese e il divieto di accedervi per ragioni di sicurezza. Così, gli abitanti divennero profughi e sfollati in cerca di ospitalità nelle vicinanze e questa misura finì per ostacolare la ricostruzione del paese.
Ai cittadini sfollati che avevano perso il proprio lavoro fu inizialmente concesso un sussidio, con la garanzia di un posto di lavoro come operai nella zona industriale che sarebbe sorta nelle vicinanze di Maniago, una piccola frazione vicina a Erto e Casso, al termine della ricostruzione. In un primo momento, i residenti opposero questa misura e tentarono di rientrare nelle loro case, tanto che per ostacolarli il Governo costruì una recinzione che impediva agli abitanti di raggiungerle (il cosiddetto “muro della vergogna”) ed Enel interruppe la fornitura di elettricità nella zona. Nonostante questi strenui tentativi iniziali, al momento di decidere delle loro sorti tramite un referendum indetto dalle autorità locali, i superstiti rinunciarono alle loro case e alla possibilità di ricostruire il paese nel suo luogo originale, esprimendosi favorevolmente alla costruzione ex novo dei comuni di Vajont e Maniago, che presero il posto di Erto e Casso, nel 1966.
Diversamente, la ricostruzione di Longarone seguì tutt’altro percorso, a cominciare dal fatto che già pochi giorni dopo il disastro il Governo diede il via libera alla ricostruzione del paese nel luogo in cui sorgeva prima della frana del 9 ottobre 1963. La ricostruzione iniziò nell’estate del 1967 e, alla fine del 1975, quasi tutto il paese era stato rimesso in piedi. Inoltre, in questo stesso periodo, si lavorò per ricostruire e rafforzare il tessuto industriale della zona di Longarone, nonostante solo una delle sette industrie presenti nel comune si fosse salvata, e furono creati 20 mila nuovi posti di lavoro. In questo processo, furono di fondamentale importanza iniziative locali come la creazione del Consorzio per il Nucleo dell’Industrializzazione della provincia di Belluno (CONIB) o della Commissione provinciale per la riattivazione delle attività economiche e professionali.
Un’altro fattore che determinò in modo sostanziale il diverso esito delle esperienze di ricostruzione di Erto e Casso e di Longarone furono i contributi provinciali erogati durante tutta la fase di ricostruzione, come previsto dalla Legge Speciale sul Vajont Bellunese del 4 novembre 1963. Questa legge introduceva due innovazioni: la possibilità di ricostruire le attività commerciali e artigianali anche in luoghi diversi da quelli originali (purché in provincia di Belluno o Udine) e quella di cedere a terzi i diritti di ricostruzione, con l’obiettivo di rallentare l’emigrazione da queste zone. In effetti, la misura favorì il boom economico nel bellunese (1967-1975), con caratteristiche ed esiti diversi da zona a zona a causa della speculazione. A Longarone, Conib e Commissione provinciale vigilarono sul fatto che i titolari delle imprese beneficiarie dei sussidi di ricostruzione non ne approfittassero in modo illecito. Ciò non avvenne, invece, nell’area industriale di Maniago, dove queste istituzioni non esistevano e dove ancora oggi rimangono numerosi processi aperti per speculazione.
La vicenda processuale
Parallelamente alla ricostruzione, si aprirono anche le indagini per accertare le cause della tragedia. Condotte dalla magistratura di Belluno, le indagini si conclusero nel febbraio 1968, evidenziando che la tragedia era stata aggravata dalla negligenza umana, poiché, sebbene la diga fosse stata progettata secondo le più moderne competenze tecniche, non erano state prese in considerazione importanti relazioni geologiche.
Il processo ebbe inizio il 25 novembre 1968 a L’Aquila, e durante le udienze, emerse quanto già messo in risalto dalle indagini, ossia che il disastro non era stato solo il risultato di forze naturali, bensì era stato aggravato dalla negligenza umana. In particolare, si evidenziò che i costruttori non avevano rispettato i requisiti di conservazione del suolo e avevano riempito il serbatoio della diga oltre le norme di sicurezza. Per questo motivo, nel dicembre 1969, furono condannati a 6 anni di reclusione i tre principali imputati: il Direttore del Servizio Costruzioni Idrauliche di SADE Alberigo Biadene, il Presidente della IV Sezione del Consiglio Superiore dei Lavori pubblici Curzio Batini e il Capo del Genio Civile Almo Violin, ritenuti colpevoli di negligenza e omicidio colposo per non aver tenuto conto dell’instabilità geologica e dei segnali di allarme.
A luglio 1970, la Corte d’Appello dell’Aquila rivisitò la sentenza, riconoscendo la responsabilità degli imputati anche per i reati di frana e inondazione, in quanto l’evento sarebbe stato prevedibile. Le condanne furono poi confermate, con un leggero alleggerimento delle pene, dalla Corte di Cassazione nel marzo 1971.
Nel 1971 iniziarono anche le cause civili promosse dai Comuni colpiti dal disastro. Al termine dei procedimenti, lo Stato e gli eredi di SADE (Enel e Montedison), furono riconosciuti come corresponsabili e furono condannati a risarcire i comuni danneggiati per un totale di 900 miliardi di lire, da corrispondere in parti uguali. I risarcimenti erano volti a compensare la distruzione di edifici e opere pubbliche, le sofferenze subite dalla popolazione, i danni all’ambiente e alle proprietà comunali, oltre che la perdita d’identità delle comunità. Subito dopo il disastro, ENEL aveva offerto un risarcimento di 10 miliardi di lire ai superstiti, a condizione che rinunciassero a costituirsi parte civile nel processo. Molti accettarono e decisero di non procedere per vie legali.
Fonti e approfondimenti
Buzzanti, Dino. Natura crudele, Corriere della Sera 11 Ottobre 1963
Corriere delle Alpi. Longarone, il boom economico dopo la tragedia, Vajont 1963-2013
Corriere delle Alpi. A casa propria da clandestini: Erto tra abbandono e ricostruzione, Vajont 1963-2013
Merlin, Tina. Sulla pelle viva: come si costruisce una catastrofe: il caso del Vajont. 4 ed. Caselle di Sommacampagna (Verona): Cierre, 2001.
Reberschak, Maurizio, and Ivo Mattozzi, eds. Il Vajont dopo il Vajont : 1963–2000. Venezia: Marsilio, 2009.
Semenza, E. (1966). Sintesi Degli Studi Geologici Sulla Frana Del Vajont, Meseo Tridentino Di Scienze Naturali, Trento.
Reberschak, Maurizio, ed. Il grande Vajont. Sommacampagna (Verona): Cierre Ed., 2003.
Saba, Andrea Filippo. “Le dighe.” Passato e Presente 82 (2011): 32–37.
Editing a cura di Elena Noventa