Il sud degli Stati Uniti ha una solida e radicata tradizione conservatrice. Non è un caso se, al di sotto del North Carolina e oltre la cosiddetta Bible Belt, ogni coppia di senatori di ciascuno Stato appartiene al Partito repubblicano. L’unica eccezione è quella dell’Alabama, dove il democratico Doug Jones è riuscito, nel 2017, a soffiare per una manciata di voti il controllo di un posto in Senato al repubblicano Roy Moore, sostenuto da Trump. Il presidente, in quell’occasione, si complimentò con Jones per la fortunosa vittoria, ma aggiunse anche un monito: i repubblicani avrebbero avuto di lì a poco un’altra possibilità per appropriarsi del seggio. Oggi, tre anni più tardi, quel momento è finalmente arrivato. Jones è di nuovo in corsa, deve difendere lo scranno senatoriale dal candidato repubblicano Tommy Tuberville, in una battaglia che non si preannuncia affatto facile per il senatore democratico. Per comprendere al meglio la situazione, facciamo un passo indietro e torniamo alle elezioni del 2017 da cui Jones, contro ogni previsione, uscì trionfante.
Jeff Sessions, il grande sconfitto
La storia della contesa del seggio, di cui quest’anno si gioca un nuovo round, incomincia nel 2017, quando Jeff Sessions – senatore di lungo corso che aveva mantenuto lo stesso posto in Senato per vent’anni – venne nominato procuratore generale degli USA da Donald Trump, fortemente sostenuto da Sessions durante la sua campagna elettorale. Successivamente alla nomina, incompatibile con il ruolo fino ad allora ricoperto dal politico, il governatore dell’Alabama nominò senatore ad interim il procuratore di Stato Luther Strange, perché svolgesse le funzioni senatoriali fino a quando le successive elezioni suppletive non avessero colmato il vuoto istituzionale lasciato da Sessions.
Da procuratore generale, l’ex-senatore dovette fin da subito affrontare traversie inaspettate. Nell’ambito delle investigazioni sul Russiagate, venne interrogato riguardo ad alcuni incontri, avvenuti durante la campagna elettorale del 2016, con un diplomatico russo il cui coinvolgimento nella questione è stato ormai accertato. Sessions fu scagionato, ma scelse di non partecipare alle indagini volte a chiarire il ruolo del presidente nelle infiltrazioni del Cremlino nelle presidenziali di quell’anno. Da allora i rapporti fra i due si fecero tesi, con Trump che tacciava Sessions di codardia e con il neo-procuratore che, invece, affermava di aver fatto soltanto la cosa più giusta, finché, pochi mesi più tardi, l’ex-senatore non avanzò le dimissioni. Sessions si defilò così dalla scena politica, salvo ricomparire due anni più tardi, in occasione delle primarie per la corsa allo stesso seggio che aveva controllato dal 1997, ora occupato dal democratico Doug Jones. Come candidato, Sessions non ottenne l’appoggio di Trump, la cui scelta ricadde invece sull’ex-allenatore di football Tommy Tuberville, contro cui perse la corsa repubblicana.
Roy Moore, il milite beffardo
Durante le primarie repubblicane che, in Alabama, seguirono la nomina di Sessions a procuratore generale, si distinsero subito due candidati: l’appena designato senatore temporaneo, Luther Strange, e Roy Moore, un ex-militare strettamente legato alle frange evangelicali dello Stato. Mentre il primo aveva dalla propria l’importante endorsement di Trump, il secondo incassò soltanto il supporto di personalità secondarie del partito. Per Strange sarebbe dovuto essere un gioco da ragazzi aggiudicarsi il titolo di sfidante repubblicano per il seggio, eppure non andò così.
Forte del sostegno di Trump (il quale aveva fatto registrare proprio in Alabama il più ampio consenso durante le elezioni del 2016), Strange fece l’errore di basare su questo l’intera campagna elettorale, cercando di emulare il neo-presidente, riprendendone gli slogan, rilanciando le stesse proposte, utilizzando la medesima retorica xenofoba. I cittadini dell’Alabama però, fermo restando il loro sostegno al presidente, non videro affatto di buon occhio il candidato da lui scelto in quanto rappresentante, per certi versi, dell’establishment contro cui Trump si era fortemente schierato. Su Strange pesava in particolare l’ombra della nomina a senatore provvisorio da parte del governatore dell’Alabama Robert J. Bentley, sul quale lo stesso Strange, in quanto procuratore di Stato, in quel periodo stava indagando per un presunto abuso d’ufficio, poi confermato.
Al contrario, Moore era un candidato perfetto per l’Alabama. Questi infatti assomiglia più a Trump di quanto gli somigliasse lo sfidante: è religioso, reazionario e populista. È conosciuto per essere stato sospeso dal ruolo di giudice-capo della Corte Suprema dell’Alabama in due occasioni. La prima volta per aver impedito la rimozione di un grande monumento dei dieci comandamenti dal palazzo di giustizia dell’Alabama, la seconda per il rifiuto opposto alla ratifica di regolamenti più permissivi riguardanti i matrimoni omosessuali. Nel 2017 fu proprio Moore, infatti, a vincere, costringendo Trump ad appoggiare il candidato a cui fino a quel momento si era opposto, seppur blandamente. Ma di lì a poco una bufera si sarebbe abbattuta su Moore, rendendo ancora più instabile la posizione della Casa Bianca e rimettendo in discussione la leadership repubblicana nello Stato.
Il democratico conservatore: Doug Jones
Le prime avvisaglie del disastro elettorale che avrebbe portato di lì a poco i repubblicani a perdere il seggio in Alabama non si fecero attendere. Risale a quel periodo la pubblicazione sulle pagine del Washington Post delle testimonianze di alcune donne, le quali affermavano di aver subito molestie sessuali da parte di Moore fra gli anni Settanta e Ottanta, quando non erano neppure maggiorenni. Lo scandalo ebbe risonanza nazionale, raffreddò l’entusiasmo della dirigenza repubblicana per il candidato e costrinse Trump a un ulteriore passo indietro.
Chi trasse giovamento dall’inchiesta fu il democratico Doug Jones, alla cui campagna elettorale il suo partito, intravedendo nello scandalo suscitato dalle testimonianze delle donne un inaspettato spiraglio, diede tutto a un tratto nuova energia. Se, infatti, fino a quel momento gli sponsor democratici avevano preferito non investire risorse preziose in uno Stato di tanto solida tradizione repubblicana, da allora iniziarono a finanziare il proprio candidato come non avevano mai fatto.
Jones, da parte sua, non è privo di meriti: con 11.5 milioni di dollari a disposizione (Moore ne aveva accumulati appena 3.5), condusse una campagna elettorale intensa e mirata, rivolgendosi a tutti coloro che avrebbero potuto trovare nei nuovi, inquietanti risvolti riguardanti il candidato repubblicano, la motivazione per votare per i democratici. Grazie a una vecchia sentenza da lui ottenuta come procuratore distrettuale contro un gruppo di suprematisti bianchi, Jones riuscì a intercettare il voto della comunità afroamericana, specialmente delle donne; mentre per via della sua visione politica liberale, ben lontana dalle idee che figure come Bernie Sanders avevano portato nel dibattito democratico l’anno precedente, poté raccogliere quello dei più moderati, anche repubblicani.
Coach Tommy Tuberville
Alla fine la battaglia fu vinta da Jones, che riuscì a strappare per un soffio il seggio che non era stato più occupato da un democratico dopo il 1992, dando ai progressisti la speranza di recuperare terreno nei confronti dei repubblicani in vista delle Midterm del 2018. In quell’occasione, in realtà, il loro svantaggio si accrebbe ulteriormente, arrivando alla situazione attuale di 53 seggi a 45 per i conservatori. Le prossime elezioni potrebbero tuttavia realizzare quello sperato capovolgimento: per il Red Party infatti, la tornata elettorale ventura si preannuncia particolarmente ardua. La prospettiva della mancata riconferma di Mike Pence a vicepresidente si fa sempre più concreta, paventando un’ulteriore riduzione del vantaggio repubblicano nella camera alta, ed è proprio negli Stati come l’Alabama che i conservatori potrebbero permettersi di riprendere fiato.
In realtà è difficile che Jones riesca a reggere il confronto. Le proiezioni vedono favorito Tommy Tuberville, l’ex-allenatore di football supportato da Trump, che nonostante la scarsa esperienza politica avrebbe già il 75% di probabilità di uscire vittorioso dalle elezioni di novembre. Gli osservatori sostengono però che non sarebbe prudente per nessuno dei due schieramenti dare per scontata la vittoria dei repubblicani. Giustificano la prudenza innanzitutto gli errori di Tuberville che, esattamente come fece Luther Strange durante le primarie repubblicane del 2017, ha finora sorretto la propria candidatura esclusivamente sull’endorsement del presidente, senza comparire di persona sul territorio. In secondo luogo, pesano su di lui i sospetti di un coinvolgimento nella frode finanziaria operata dal fondo speculativo di sua proprietà, riportando alla memoria degli elettori il caso di corruzione che aveva penalizzato Strange.
Se la campagna elettorale di Tuberville ricorda la parabola del repubblicano favorito tre anni fa, anche quella di Jones non manca di punti di contatto con il 2017. In primo luogo l’elettorato affezionato, che è rimasto con lui dopo la presa del seggio (i giovani e gli afroamericani in testa), conquistato dalle battaglie del senatore specialmente nel campo della sanità pubblica, fattore ancor più rilevante a causa della pandemia che ha colpito sproporzionalmente i neri. Anche in questa occasione, inoltre, i democratici hanno preferito non investire nella corsa in Alabama, scegliendo di far confluire le risorse verso territori dove le possibilità di vittoria sono più concrete. Ciononostante, ancora una volta il divario fra le disponibilità economiche dei candidati è pressoché siderale: 8 milioni di dollari rimasti al senatore uscente contro i circa 500mila dello sfidante.
Insomma, anche se il risultato sembra scontato, non si direbbe davvero finita per Doug Jones. Tutto si chiarirà fra meno di un mese, quando si terranno le elezioni. Quel che si può affermare con certezza è che in Alabama gli eventi finora non hanno sempre preso la piega che ci si sarebbe aspettati. Con questi presupposti, chissà allora che non si rivelino profetiche le parole di Jeff Sessions il quale, appena sconfitto da Tuberville, espresse preoccupazione per la scarsissima esperienza politica dell’ex-allenatore, ricordando al contempo a Trump i casi di Strange e di Moore, che per ben due volte in pochi anni avevano dimostrato che non era stato il candidato appoggiato dal presidente a ottenere la vittoria in Alabama.
Fonti e approfondimenti
Kim Chandler e Steve Peoples, Democrat Jones wins stunning red-state Alabama Senate upset, Associated Press, 13/12/2017
Grace Panetta, Democratic Sen. Doug Jones faces a tough reelection fight against Tommy Tuberville in Alabama, Business Insider, 18/09/2020
Burgess Everett e James Arkin, Democrats leave Doug Jones hanging as Senate map takes shape, Politico, 05/03/2020
Ella Nilsen e Li Zhou, How the Senate’s most endangered Democrat thinks he can win, again, Vox, 21/09/2020
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