Non c’è liberazione senza libertà di informazione

Remix da Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay e foto di Digital Buggu via Pexels

«Mi si riferisce che noto Gobetti sia stato recentemente a Parigi e che oggi sia in Sicilia. Prego informarmi e vigilare per rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore di governo e fascismo». Il 1° giugno del 1924 Benito Mussolini telegrafava al prefetto di Torino queste parole su Piero Gobetti, giornalista antifascista. Il 9 giugno Gobetti veniva preso a bastonate. Moriva, anche a seguito di quelle percosse, il 15 febbraio 1926. Non aveva ancora compiuto 25 anni. 

Giacomo Matteotti, politico e giornalista. Antifascista, ucciso dal regime il 10 giugno 1924 per le sue idee e per le accuse mosse nei confronti di Mussolini. Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera, firmatario del Manifesto degli intellettuali antifascisti. Inizialmente possibilista sulla normalizzazione del fascismo, i suoi attacchi contro il regime aumentarono a seguito dell’omicidio Matteotti. In un discorso del 24 giugno 1924, denunciò la soppressione della libertà come necessità intrinseca del regime. Nel 1925 venne di fatto estromesso dal Corriere che, da quel momento in poi, si allineò al fascismo.

L’elenco dei giornalisti uccisi, censurati o portati al silenzio durante il Ventennio è lungo. La regola era una: se non entravi nel Sindacato fascista dei giornalisti e non eseguivi gli ordini ne pagavi le conseguenze. Ciò rendeva la stampa italiana «la più libera del mondo. […] Il giornalismo italiano è libero perché serve soltanto una causa ed un regime». Furono proprio queste le parole che il Duce pronunciò in un discorso del 10 ottobre 1928. Mussolini si sbagliava. Giornalisti e giornaliste libere non si allinearono mai. Partigiani e partigiane scelsero la via della montagna e il 25 aprile 1945 ci liberarono dal nazifascismo. 

Pietra angolare della democrazia

Mussolini sapeva quanto fosse importante controllare l’informazione, renderla asservita al potere. Non è un caso che, dopo il suo arresto il 25 luglio 1943, i giornalisti messi a tacere furono subito reintegrati. E ancor meno casuale è la scelta fatta nel 1948 dai padri e dalle madri costituenti che, nell’articolo 21 della nostra Costituzione, sancirono: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». “Tutti” (e tutte) affinché la libertà non fosse vincolata alla cittadinanza. “Ogni altro mezzo”, in previsione dei mutamenti della tecnologia. Anche se l’articolo 21 non parla mai di libertà di informazione, la Corte costituzionale ne ha dato una lettura ampia tutelandola grazie all’ombrello della libertà di manifestazione del pensiero. Anzi, ha fatto molto di più: ha definito l’articolo 21 la pietra angolare della nostra democrazia. Se non c’è libertà di manifestazione del pensiero – e quindi libertà di informazione – la nostra democrazia non esiste. È lettera morta. 

Libertà di informazione è democrazia

Libertà di informare e di essere informati. Condizioni necessarie per definire democratico un sistema. “Max”, questo il nome di battaglia del partigiano Massimo Rendina, lo sapeva bene. Giornalista, scelse la Resistenza nel 1943. Credeva nell’informazione libera e continuò a farlo anche dopo la fine della guerra: conduttore di telegiornale in RAI, venne cacciato con l’accusa di essere comunista in quanto iscritto al Pci (per poi allontanarsene spostandosi verso l’ala sinistra della DC). Da giornalista a partigiano, poi ancora giornalista. Come se le due categorie fossero in qualche modo collegate: entrambi in piedi con la schiena dritta, radicati in mezzo alle persone per combattere il potere, controllandolo. Non tutti, sia chiaro. Ma di esempi simili ne è piena la storia italiana. Spesso basta seguire l’odore di paura che suscitano nel potere, anche in democrazia. Anche nel 2021. Il caso della giornalista Nancy Porsia irrompe prepotente per ricordarcelo. 

Porsia, autrice dell’inchiesta sul coinvolgimento della guardia costiera libica nel traffico di esseri umani, è stata intercettata dalla procura di Trapani per sei mesi. Senza essere né indiziata né indagata. In un procedimento sulle Ong attive nel soccorso in mare al largo della Libia che, con il suo lavoro svolto a terra, non aveva nulla a che fare. Tracciata in ogni suo spostamento attraverso un sistema GPS. Niente di illegale: per intercettarla, l’allora pm Andrea Tarondo ha fatto appello all’articolo 266 comma 2 del Codice Penale riferendo che, nelle conversazioni delle persone indagate, era stato fatto il suo nome. Per questo motivo gli inquirenti hanno ritenuto opportuno e necessario sospendere i suoi diritti: alla privacy, come cittadina libera, e alla tutela delle fonti, come giornalista. Una motivazione che regge sul piano giuridico, ma che getta vergogna sull’intero ordinamento italiano. Uno, perché nemmeno una riga delle intercettazioni è finita nell’informativa del processo. Due, perché le tempistiche sono quantomeno sospette: proprio in quel periodo storico l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti firmava l’accordo sui migranti con l’allora presidente libico Al Serraj. 

Lo stato della libertà di stampa

Nonostante i buoni propositi sanciti dalla Costituzione, la libertà di stampa è lontana dall’essere pienamente tutelata nel nostro Paese. Reporters sans frontières mette l’Italia al 41° nella classifica 2021, dopo il Burkina Faso e il Botswana (rispettivamente 37° e 38°). Secondo l’Organizzazione non governativa francese, nel nostro Paese gli attacchi contro i giornalisti sono aumentati. 

Intimidazioni, censure e finanche la morte: sappiamo bene in che modo il potere in Italia ha trattato i giornalisti anche dopo il fascismo. Come Carmine Pecorelli, freddato con quattro colpi di pistola nella sua macchina una sera di marzo del 1979 perché, probabilmente, sapeva troppo sulla DC andreottiana. La ferita per il suo omicidio senza responsabili non guarirà mai e il dolore rimarrà sempre vivo. 

Questo, come i casi più recenti di violazione della libertà, rischiano di minare irreversibilmente la fiducia dell’opinione pubblica nel processo democratico: ogni attacco alla libertà di informazione è un attacco alla nostra democrazia. Quella democrazia che, il 25 aprile del 1945, metteva le radici in Italia grazie al coraggio di tante e tanti giovani. Partigiane e partigiani. Giornaliste e giornalisti. 

 

 

Editing a cura di Carolina Venco

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