La calma apparente di Hong Kong

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

In questi giorni la tensione ad Hong Kong è altissima, ma a dire il vero non è mai calata nell’ultimo anno e mezzo. Gli studenti di alcune facoltà dell’università cittadina sono in sciopero contro i nuovi tagli al diritto allo studio, mentre sono stati arrestati vari partecipanti a piccole proteste di lavoratori, sindacalisti e ambientalisti, oltre che i proprietari di una libreria che vendeva libri satirici riguardanti il governo di Pechino. Tutto ciò avviene in concomitanza dell’annuncio del governo cittadino di un giro di vite contro i cosiddetti “indipendentisti”, nel quale ha rimarcato l’appartenenza indiscutibile della città al territorio cinese.

L’episodio più significativo sono comunque stati gli scontri di piazza dello scorso 8 Febbraio, terminati con il ferimento di 44 agenti antisommossa, l’arresto di 24 maifestanti e due colpi d’avvertimento sparati dalla polizia. Questa esplosione di violenza era iniziata con un’operazione di controllo delle licenze dei venditori ambulanti del quartiere popolare di Mong Kok, ma segnala un malessere che va ben oltre gli odiosi, seppur sistematici, soprusi subiti dai venditori e gli operai in molte aree della città.

Il conflitto che oggi serpeggia per Hong Kong deriva dalla dissonanza tra gli interessi degli abitanti della città e quelli delle autorità pubbliche, troppo influenzate dal governo centrale per amministrare la città secondo i desideri dei cittadini e le loro stesse promesse elettorali. La popolazione di Hong Kong si sente profondamente diversa dagli altri abitanti della Cina a livello sociale e culturale per via della diversa storia che ha avuto rispetto al resto della nazione. Questo rende intollerabile la crescente intromissione di Pechino nell’amministrazione della zona.

La città è infatti un territorio cinese ma presenta un regime amministrativo speciale, che in teoria garantirebbe una certa libertà dal potere centrale, una situazione dovuta al passato della città. Tra il 1842 ed il 1997 la città fu infatti una colonia inglese, se non per una breve occupazione giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale, e la contrazione dell’autonomia garantita ad Hong Kong durante il periodo coloniale fu da subito portatrice di malcontento verso i nuovi amministratori cinesi.

Il governo centrale non perse tempo e fece valere con forza la sua nuova autorità sulla città. Basti pensare che la stessa Costituzione di Hong Kong, basata per ovvie ragioni sul common law britannico, è oggi strettamente soggetta all’interpretazione dell’organo legislativo cinese. Oltre che attraverso i canali ufficiali il Partito unico esercita la sua forza influenzando i due organi principali del governo della città: la presidenza (Chief Executive) e il parlamento (Legislative Council) di 60 membri, ma negli ultimi anni ha deciso di formalizzare questa interferenza negli affari cittadini.

La tensione ha raggiunto il culmine nel 2014, quando il governo di Pechino ha deliberato che un comitato fedele al Partito Comunista Cinese avrebbe deciso sull’eleggibilità o meno dei candidati alla presidenza della città, con la scusa di selezionare solo i candidati “amanti di Hong Kong e della sua popolazione”. Il cambiamento sarebbe stato effettivo dalle elezioni del 2017 in poi, ma la popolazione non tardò a mostrare il suo disappunto.

 

Poche settimane dopo l’annuncio, nel Settembre del 2014, migliaia di attivisti pro-democrazia occuparono le strade del centro della città, seguendo della Federazione degli Studenti che per prima era scesa in piazza. La protesta si fondava sulla disobbedienza civile pacifica, ma non mancò un braccio di ferro tra i manifestanti e la polizia fatto di lanci di gas lacrimogeno, barricate, arresti e negoziati per non essere sgomberati dalle piazze. La protesta venne osteggiata anche dai cittadini sostenitori del potere autoritario di Pechino (capeggiati dalle triadi mafiose), ma ben presto il numero dei manifestanti divenne così alto da scoraggiare qualnque oppositore.

La protesta durò 75 giorni, attirando l’attenzione di tutto il mondo grazie anche al saggio uso dei social network da parte degli attivisti. Anche i simboli della protesta, gli ombrelli, entrarono nell’immaginario relativo al movimento grazie alla loro onnipresenza nelle foto dei sit-in, visto che i ragazzi li portavano per ripararsi dal caldo torrido e dalla pioggia dell’Autunno della zona.

Le proteste furono in parte coordinate dal movimento Occupy Central with Love and Peace, nato nell’Università di Hong Kong con l’intento di assicurare maggiore autonomia e democrazia alla città premendo sulle autorità centrali. Il movimento non è però ufficialmente alla guida della rivolta degli ombrelli, che seppur coesa non si è mai riconosciuta completamente in un’organizzazione.

Questa mancanza di leadership non ha impedito agli attivisti di diventare portatori delle istanze democratiche presso gli amministratori della città ed il governo cinese, entrando anche nei consigli distrettuali di Hong Kong attraverso il partito Youngspiration, fondato e animato proprio dagli attivisti dell’Autunno del 2014. Visto il successo raccolto in queste elezioni e il vasto consenso che ha soprattutto tra i giovani della città, il movimento è determinato nelle sue rivendicazioni, ma ha ardue sfide di fronte a sè.

Un primo importante risultato positivo il movimento lo ha già ottenuto, seppure in via indiretta. Nel Giugno del 2015 il parlamento di Hong Kong ha bloccato il programma attraverso il quale il governo cinese avrebbe tenuto le preselezioni dei candidati alla carica di governatore, assicurando che le elezioni del 2017 si svolgeranno secondo le solite regole, per quanto già discusse. L’elezione del governatore infatti non è diretta, come auspicano invece i movimenti democratici, visto che la popolazione elegge solo la commissione incaricata di nominarlo.

Per presentarsi come un negoziatore in grado di tenere testa ai leader di Pechino, il movimento degli ombrelli non dovrà solo consolidare la sua rappresentanza nel più vasto movimento pro-democrazia di Hong Kong, ma anche riuscire a garantirsi l’appoggio dei gruppi di cittadini ancora restii a sfidare il partito unico, seppur questo sia nel loro interesse. Fondamentale sarà infine impedire alle rivendicazioni autonomiste di sfociare in violenze, evenienza che gli ultimi eventi provano più vicina del previsto, per salvare la legittimità del movimento e non aprire il fianco ad una nuova ondata di repressione.

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