Ricorda 1969: la strage di Piazza Fontana

@LoSpiegone

Il 12 dicembre 1969 alle 16:37, nel centro di Milano, esplodeva una bomba nella sede della Banca nazionale dell’agricoltura in Piazza Fontana. La banca, come ogni venerdì, era aperta oltre le 16 per gestire l’afflusso di agricoltori impegnati nel concludere le loro contrattazioni.

Il primo bilancio fu di 13 morti che dopo le prime ore salirono a 16. La diciassettesima vittima si aggiunse al conto finale un anno dopo, a causa delle ferite riportate nell’esplosione.

Lo stesso giorno venne trovato un altro ordigno inesploso a Milano presso la Banca commerciale in piazza della Scala. Sempre nel capoluogo lombardo vennero rinvenute altre due bombe: una presso la caserma dei carabinieri, l’altra in un grande magazzino del centro. Anche Roma venne coinvolta nell’attacco, con tre ordigni che esplosero presso la Banca Nazionale del lavoro e presso il pennone e l’ingresso del museo del Risorgimento nel complesso dell’Altare della Patria. Al bilancio della giornata si aggiunsero i 17 feriti romani, i quali andarono ad aggiungersi ai feriti milanesi che furono 120.

Tutti gli ordigni piazzati a Milano e a Roma furono realizzati con gli stessi componenti: la cassetta di ferro Juwel che li conteneva, i timer Junghans-Diehl, la gelatina dinamite con binitrotoluolo per l’esplosivo e la stessa borsa per trasportarli e depositarli.

Bombe e Diplomazia

Oltre a Milano e Roma, altre tre bombe vennero piazzate a Berlino Ovest, dove solo una di queste deflagrava senza provocare conseguenze. A Berlino Ovest vennero prese di mira due guarnigioni militari statunitensi e una compagnia israeliana. Partendo da questo elemento si comprende come la strage vada contestualizzata al di là dei confini nazionali e inserita nel un più ampio contesto del confronto internazionale della guerra fredda.

Gli eventi di quel 12 dicembre, inoltre, riportavano alla mente le affermazioni del capo della giunta militare greca Georgios Papadopulos il quale, rivolgendosi ai Paesi che in seno al Consiglio d’Europa avevano estromesso la Grecia per il mancato rispetto dei diritti umani (tra i quali Italia e Germania) affermò tramite le agenzie di stampa:

“Stiano attenti. Stiano attenti perché la democrazia è in pericolo nei loro Paesi. Si mettano all’altezza delle circostanze e affrontino quello che deve essere affrontato: la nuova forza sovversiva, l’anarchia”.

Il regime di Georgios Papadopulos viveva in aperta violazione dei principi tutelati dal Consiglio. L’atto simbolico dell’espulsione andava a scalfire la legittimità del regime dei colonnelli. Uno smacco per la Grecia, ma una decisione sgradita anche agli Stati Uniti, preoccupati principalmente dalle ripercussioni in sede NATO, con l’eventuale sganciamento ellenico dall’Alleanza Atlantica. Un rischio da non potersi permettere, data l’importanza strategica dei porti e delle basi americane in Grecia alla luce delle turbolenze mediorientali. Dopo il 12 dicembre le posizioni dei principali Paesi avversi alla Grecia, e pronti a far emergere i loro contrasti in sede NATO, andarono rapidamente ammorbidendosi.

Processi infiniti, verità dimezzate e conseguenze tragiche

Tornando in Italia e alla strage, si denota sin da subito nella frettolosa ricerca dei colpevoli una miopia degli inquirenti, che nel corso dei decenni successivi si confermerà come vera e propria ostruzione delle indagini e come limite a una piena verità giudiziaria.

La prima pista sulla quale i magistrati si mossero fu quella anarchica. Pietro Valpreda, anarchico milanese che abitualmente faceva la spola tra Roma e Milano, venne indicato dagli inquirenti quale responsabile materiale della strage. Entro poco tempo, tale pista rivelò la sua fallacia.

L’approccio nelle indagini dimostra quanto si fosse alla ricerca di una soluzione di comodo, da imporre attraverso forzature e manipolazioni negli interrogatori, ma che da subito venne aggravata dalla morte di Pinelli.

Solo nel giugno 2005 la Corte di Cassazione ha finalmente stabilito che la strage fu opera di «un gruppo eversivo costituito a Padova nell’alveo di Ordine Nuovo» e «capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura», non più perseguibili in quanto precedentemente assolti con giudizio definitivo dalla Corte d’assise d’appello di Bari nel 1987. Gli esecutori materiali rimangono tutt’ora ignoti.

A fronte di una verità giudiziaria non completa, emergono dai diversi processi alcuni elementi storici e politici inoppugnabili. La strage è stata compiuta dalla formazione di estrema destra Ordine Nuovo e la sua attuazione è stata favorita da una rete di collegamenti internazionali tra organismi di estrema destra e apparati di sicurezza occidentali. A proposito di apparati di sicurezza, anche talune unità di quelli italiani erano pienamente a conoscenza di ciò che si stava preparando, avendo a disposizione una rete di infiltrati all’interno di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale.

Emerge dalle stesse difficoltà e dalla lunghezza dei processi, prima che da espliciti elementi giudiziari, il fatto che gli apparati di sicurezza italiani abbiano ostacolato le indagini su diversi livelli operativi. Infine, la strage servì per modificare gli equilibri politici del Paese e su questi aspetti si aprì un confronto all’interno di una parte della classe politica al governo.

Parallelamente a quest’ultima affermazione c’è da sottolineare come “la madre di tutte le stragi” che diede il via alla strategia della tensione comportò nella società civile effetti imprevedibili dagli stessi “responsabili”, qualora di un unico e identificabile centro di responsabilità si possa parlare.

Le immediate conseguenze della strage furono una lunga scia di omicidi politici ed atti di violenza. La morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, persona estranea ai fatti, caduto intorno a mezzanotte del 16 dicembre 1969 dal quarto piano della questura di Milano, in circostanze mai definitivamente chiarite fu l’inizio di una serie di spargimenti di sangue.

La morte dello studente Saverio Saltarelli durante la manifestazione milanese del primo anniversario della strage e le misteriose morti nel corso del tempo di otto testimoni, denunciate, nell’ottobre 1971, dal magistrato Antonio Falco, presidente della Corte di Assise di Roma, furono alcune delle morti legate direttamente alla strage.

Ma il punto di svolta nella reazione violenta a Piazza Fontana fu l’uccisione del commissario di polizia Luigi Calabresi il 17 maggio 1972, colpito da sicari di Lotta Continua per ritorsione da parte della sinistra extraparlamentare alla sua presunta responsabilità nella morte di Giuseppe Pinelli. Infine arrivò la nuova strage presso la questura di Milano (quattro morti e numerosi feriti) compiuta il 17 maggio 1973 – nel primo anniversario dalla morte di Calabresi – da Gianfranco Bertoli. La stessa figura di Bertoli quale anarchico venne approfondita nei processi giudiziari degli anni seguenti, dai quali emersero impressionanti collegamenti tra lui, i Servizi Segreti e Ordine Nuovo.

Come già accennato, Piazza Fontana produsse i suoi effetti più dirompenti e imprevedibili nei cambiamenti del clima sociale, aprendo la stagione degli anni di piombo, della radicalizzazione e della spirale di violenza nella mobilitazione politica. La “madre di tutte le stragi” fu dunque l’inizio del periodo più buio della storia dell’Italia repubblicana, con più di un decennio di vittime tra servitori dello stato, uomini politici e -soprattutto- cittadini innocenti.

Gli effetti di un sistema politico debole e di uno sviluppo economico immaturo

Quanto ha influito la debolezza del sistema politico sulla deflagrazione degli anni di piombo? Difficile dire se quel periodo avrebbe avuto dinamiche differenti, o se sarebbe mai avvenuto, in presenza di fattori politici, economici e istituzionali differenti.

La fragilità italiana fu causa di diverse linee di frattura, che determinarono un “governo debole” e scoperto davanti a ingerenze straniere, così come a indebiti interventi di gruppi politici minoritari o dei militari e delle forze di polizia. Sicuramente la conflittualità economico-sociale fu un fattore di stimolo a uno stato di guerra civile latente, che a sua volta apriva spazi ad irruzioni violente nel dibattito politico.

Un Paese uscito sconfitto dalla Seconda guerra mondiale poteva al massimo auspicare a ricoprire una posizione di media potenza regionale. Sul fronte interno il risultato di tale circostanza comportò uno sviluppo economico fortemente squilibrato e poco regolamentato, che i governi centristi portarono avanti attraverso una politica di compressione salariale, onde consentire massicce esportazioni. Ciò comportò la ricostruzione post-bellica di un mercato interno asfittico, il consolidarsi di problemi di coesione territoriale e la scarsa propensione all’innovazione. Tutte queste problematiche economiche si trasformarono in scontro aperto tra parte del sistema politico-istituzionale e dell’imprenditoria e forze politico-sindacali di sinistra.

Se, inizialmente, il campo di battaglia fu parlamentare con il tentativo di aprire ed avviare l’esperimento del centro sinistra, ben presto lo scontro assunse dimensioni ben più radicali, larghe e difficilmente controllabili dai deboli governi in carica.

Fonti e approfondimenti:

Mirco Dondi, L’ eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974, Laterza, 2015

Aldo Giannuli, La strategia della tensione. Servizi segreti, partiti, golpe falliti, terrore fascista, politica internazionale: un bilancio definitivo, Ponte delle Grazie, 2018

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