Quel che successe 50 anni fa in Honduras indica che i problemi legati alle immigrazioni non sono un fenomeno nuovo nella regione.
Nell’estate del 1969, centinaia di migliaia di giovani si preparavano per assistere al festival di Woodstock, mentre dall’altra parte del mondo altrettanti ne morivano in Vietnam. Il 21 luglio, i televisori di tutto il mondo mostravano i primi passi dell’uomo sulla luna. Qualche giorno prima, mentre l’Apollo 11 veniva lanciato nello spazio, in Centro America si svolse una delle guerre più corte della storia, divenuta famosa sotto l’etichetta deviante di Guerra del calcio.
Le premesse della guerra
Il ruolo del calcio fu quello di dare visibilità e inasprire un conflitto le cui cause risalgono invece all’inizio del secolo scorso, e all’assetto economico neocoloniale stabilito in Centro America all’indomani della Dottrina Monroe, soprattutto tramite la United Fruit Company (UFC). Questa fece dell’Honduras la Repubblica delle banane per antonomasia, decidendone le sorti politiche. Fu precisamente per necessità di manodopera nelle piantagioni di banane che già negli anni Dieci vennero importati i primi contadini salvadoregni in suolo honduregno.
El Mercado Común Centroamericano (MCCA) e le sue conseguenze
Nel 1960 il Guatemala, il Salvador, l’Honduras e il Nicaragua – raggiunti due anni dopo anche dal Costa Rica – stabilirono il MCCA, che decretò l’inizio di un processo di integrazione che, a piccoli passi, favorì l’uscita dei membri da un’arretratezza agricola cronica. Gli effetti positivi non furono uguali per tutti.
In effetti, gli investitori optarono per i Paesi che avevano già conosciuto un certo grado di sviluppo tecnologico, quali il Salvador o il Guatemala, mentre l’Honduras si ritrovò infondo alla lista, ottenendo minori benefici dal libero scambio regionale. Invece, i salvadoregni vissero una crescita economica che, pur sempre in un contesto di povertà, permise un calo della mortalità. Di conseguenza, la popolazione aumentò rapidamente: 3,7 milioni di salvadoregni vivevano in un territorio di quasi 6 volte più piccolo rispetto a quello dei 2,6 milioni di honduregni.
Le pressioni demografiche e l’immigrazione
Inoltre, il controllo dell’economia salvadoregna, ancora prevalentemente agricola, era concentrato nelle mani di compagnie nordamericane e di 14 famiglie latifondiste. In questo contesto, era difficile non dipendere da uno dei due gruppi. Quindi, la sovrappopolazione non pose tanto un problema in sé e in rapporto alla disponibilità di terre, quanto rispetto alle condizioni di lavoro esistenti. Per non implodere sotto questa pressione ed evitare una rivolta contadina, San Salvador si rivolse al vicino al quale le terre incolte non mancavano: i due Stati firmarono una trattato bilaterale sull’immigrazione nel 1967.
Due anni dopo, erano oltre 300 mila i salvadoregni immigrati e la maggior parte occupava e coltivava abusivamente appezzamenti di terra. Per di più, la crescita delle imprese salvadoregne in Honduras palesarono la disparità economica tra i due Paesi; è in questo contesto che il problema dei contadini abusivi, lontano dall’avere un’effettiva importanza economica, divenne il cavallo di battaglia dei nazionalisti honduregni.
L’ascesa del nazionalismo
All’epoca, il governo honduregno era presieduto da Oswaldo López Arellano, arrivato al potere tramite un colpo di stato e alle prese con un’opposizione divenuta man mano sempre più forte. La stabilità politica ed economica del Paese era in bilico. Il malcontento maggiore proveniva dai contadini che desideravano una riforma agraria. Per evitare sollevamenti, il governo, sponsorizzato dai grandi latifondisti e dalla UFC, non poteva ridistribuire le loro terre e puntò dunque sul resto: i terreni in cui si erano installati gli immigrati salvadoregni. In quest’ottica, nella primavera del 1969, cambiando violentemente di politica, lo Stato decretò la confisca delle terre a chi non era nato nel Paese e la conseguente deportazione di migliaia di salvadoregni. Questi, abbandonando le loro case, le loro famiglie e i loro terreni, tornavano in un Paese traboccante in cui non avevano più niente.
Gli immigrati guanacos – sinonimo comune di salvadoregni – furono designati come i colpevoli del malcontento degli honduregni, diventando dei veri e propri capri espiatori. Il regime riuscì a deviare le critiche contro di lui verso l’elemento straniero. Diede inizio a un’accanita campagna propagandistica di fermo stampo anti-salvadoregno, che causò aggressioni contro i nuovi “nemici” anche da parte civile.
Dall’altro lato della frontiera, contrattaccarono pubblicando notizie sulle presunte atrocità commesse in suolo catracho – sinonimo comune di honduregno – contro i propri concittadini, e reclamando la loro difesa. La recezione di tali fatti precipitò gli eventi e intorno al confine si creò un clima bollente. Tutto ciò fu proficuo al governo di Sánchez che poté riottenere sostengo tramite l’individuazione di un nemico nazionale.
@Cantinflash – Wikimedia Commons – CC BY-SA 4.0 – Un esempio di fogliettino anti-guanaco
Tra i due Paesi i rapporti erano tesi già da prima, a causa di una disputa territoriale riguardo al Golfo di Fonseca sull’Oceano Pacifico. Ora però le relazioni diplomatiche diventavano critiche. È in questo contesto che arrivò la goccia che fece traboccare il vaso – o almeno è con questo pretesto che divenne famoso lo scontro tra i due Paesi -: tre partite di calcio nel giro di tre settimane.
Il ruolo del calcio
La congiuntura storica volle che in quei mesi si disputassero le qualificazioni al Mondiale del 1970 che si sarebbe svolto in Messico. Come Stato ospitante, questo era già iscritto d’ufficio. Essendo una delle squadre più forti dell’area, lasciò alle altre nazionali, e soprattutto a quelle honduregna e salvadoregna che non avevano mai partecipato a un mondiale, l’opportunità storica di tentare una qualificazione. Le semifinali videro affrontarsi da un lato Stati Uniti e Haiti e dall’altro i due Stati centroamericani. Per le ultime due squadre, visto il contesto, le partite non avevano una valenza solo agonistica, bensì principalmente politica. Il tifo e la scia mediatica sciovinista si alimentarono a vicenda. Ogni gol equivaleva a una bomba.
L’andata si disputò l’8 giugno a Tegucigalpa, e la sconfitta della squadra ospite per 1 a 0 fece sì che il ritorno, giocato a San Salvador il 15 giugno, rappresentasse il momento per vendicarsi, anche dei connazionali deportati “ingiustamente”. All’arrivo a San Salvador, i calciatori honduregni furono accolti letteralmente a sassate e uno dei loro accompagnatori morì nell’assalto. Scortati allo stadio dentro carri armati, scesero sul campo con un’unica idea in testa: ritornare vivi a casa. Persero 3 a 0.
Ma né le tensioni né le partite finirono qui: visti i risultati, fu programmato uno spareggio il 26 giugno a Città del Messico. Il gioco fu deciso ai supplementari con un gol salvadoregno. I primi segni di una guerra imminente avvennero proprio quella sera, tra gli scontri tra le due tifoserie e la rottura delle relazioni diplomatiche.
La guerra
Il 14 luglio, senza preavviso, il Salvador attaccò lo Stato limitrofo, giustificandosi tramite il dovere di salvaguardare i propri cittadini e i propri confini. In effetti, i guanacos chiameranno quel conflitto la Guerra de Legítima Defensa. Due giorni dopo, l’Honduras riuscì ad attuare una controffensiva di successo. Ciononostante, a decidere le sorti fu l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), che il 18 luglio intimò agli Stati il cessate il fuoco e al Salvador di ritirare le truppe. Quest’ultima indicazione fu compiuta solo il 2 agosto, dopo la minaccia di sanzioni economiche.
Le conseguenze della guerra
Nonostante le solo 100 ore di conflitto, il saldo finale fu di quasi 6000 morti – soprattutto civili catrachos -, 50 000 sfollati e grandi danni lungo il confine. Inoltre, le conseguenze si dilagarono nel tempo. Le relazioni diplomatiche e commerciali rimasero sospese per anni e chiusero la frontiera. Per di più, il costo economico non ricadde solo sui Paesi belligeranti. Infatti, con la guerra si sospese il MCCA, pregiudicando l’integrazione regionale e l’occasione del subcontinente di prosperare. Il Centro America si ritrovò di nuovo in mano all’oligarchia agraria e, oggi, soprattutto a causa delle condizioni economiche, è una delle regioni più violente al mondo.
El Salvador dovette affrontare anche il peso sociale dei rimpatriati, che finì con lo sgretolare la coesione nazionale nata dalla guerra. Incapace di gestire la situazione, il Paese si ritrovò 10 anni più tardi in una violenta guerra civile che lasciò sul terreno 70 mila morti e una nazione dilaniata. L’unica magra consolazione – per i tifosi di calcio – fu la prima partecipazione a un mondiale, proprio quello del 1970, dove però non passarono i gironi.
L’accordo di pace fu firmato solo nell’ottobre del 1980, e un mese dopo le due nazionali si affrontarono per la prima volta dopo il conflitto, qualificandosi entrambe al Mondiale del 1982.
Il calcio e la politica in America latina
Chi ha guardato una partita commentata da cronisti latinoamericani, si ricorda senz’altro l’entusiasmo con cui questi annunciano ogni “goooooooooooooool-azo”. La passione e l’importanza attribuita al calcio, e il suo labile confine con la politica, è una caratteristica che contraddistingue il subcontinente. Ciò è dovuto anche a uno degli effetti prodotti dallo sport in cui spesso la politica fallisce: unire la società.
Si pensi a Videla e alla rilevanza politica del Mondiale del 1978 che organizzò in Argentina per pulire – o meglio nascondere – l’immagine di un regime repressivo che stava facendo il giro dei notiziari internazionali; o ancora all’uccisione del difensore colombiano Andrés Escobar, ritenuto, a causa del suo autogol, responsabile dell’esclusione della nazionale dal Mondiale del 1994.
La Guerra del calcio non ebbe vincitori. Il balompié permise di far sentire il conflitto tra le masse senza bisogno di una dichiarazione politica astratta e anche di suscitare l’interesse internazionale per realtà spesso dimenticate o ignorate, al centro dell’attenzione pubblica solo quando decidono di versare sangue, o di trasmettere immagini impattanti come quelle delle carovane di migranti.
Fonti e approfondimenti:
Eduardo Galeano, “El fútbol a sol y sombra”
Toby Luckhurst, “La Guerra del Fútbol: Honduras vs El Salvador”, BBC Mundo, 27/06/2019
Redazione “La guerra que no fue por el fútbol”, El Pulso, 15/07/2019
José Zometa, “¿Fue el fútbol el origen de la Guerra de las 100 Horas?, Elsalvador.com, 11/07/2019
Piero Trellini, “La guerra del calcio”, Il Post, 13/07/2019
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