La maledizione del frontrunner

Nonostante manchi ancora un po’ di tempo prima dell’inizio delle primarie democratiche, di fatti la corsa è già iniziata da tempo con candidati in grande spolvero e candidati in difficoltà. Proprio per questo motivo si ripropone il grande dilemma sul ruolo del frontrunner e della facilità o difficoltà che questo ruolo comporta. Molti potrebbero affermare che il ruolo del candidato di testa sia di gran lunga più comodo rispetto a quello degli inseguitori, ma questa affermazione non sembra essere così vera.

Va innanzitutto detto che il rischio più grande per questi candidati è la facilità con cui vengono presi di mira dagli altri partecipanti alla corsa. Le prime critiche sono per loro, mentre le aspettative sono così alte da poter mettere in difficoltà anche i migliori team.

 

Gli americani sono arrivati a parlare di “maledizione del frontrunner” proprio per le peripezie che di solito questo genere di candidati attraversano. Va detto che i campi politici impattano queste statistiche. Se infatti i Democratici sembrano essere particolarmente duri con i propri candidati di testa, i Repubblicani tendono invece a consegnare la nomination al prossimo in linea di successione.

Analizziamo però le motivazioni profonde per cui è così difficile essere un frontrunner, cerchiamo di vedere qualche evento del passato e usiamo questi dati per leggere la corsa attuale.

Le vicende storiche

Il primo e più famoso simbolo della maledizione del frontrunner è rappresentata da Ed Muskie che nel 1972 correva per la nomination convinto di averla già in tasca. Muskie infatti era stato il candidato vicepresidente nel 68 di Huber Humphrey il quale aveva perso contro Nixon, ma di pochissimo. La campagna era stata un successo, i Democratici avevano recuperato tantissimi punti e perso onorevolmente contro un candidato che sembrava di fatto imbattibile.

Muskie era quindi l’uomo ideale e tutti lo indicavano come il sicuro vincitore almeno delle primarie, se non già direttamente contro Nixon indebolito dal Vietnam. I sondaggi erano più che rosei, ma il senatore del South Dakota Mc Govern aveva in mente qualcosa di diverso.

Dopo i successi di Muskie in Iowa a partire dal New Hampshire qualcosa cambia. Mentre Muskie passa da un comitato elettorale a un altro incontrando membri di partito e supporter, Mc Govern può studiare una nuova strategia. Si avvicina ai giovani, batte gli Stati a rete di ragnatela e grazie alla bassa copertura mediatica che gli è concesso non è obbligato a tornare nelle grandi città ogni due giorni per concedere interviste. Mc Govern in questo modo comincia a erodere il supporto di Muskie e arriva alla fine a vincere la candidatura democratica, nonostante poi perderà contro Nixon nelle elezioni presidenziali di novembre.

Niente di nuovo? Meglio scavare

La prima grande debolezza dei candidati di testa risiede in quella che spesso risulta essere un punto di forza: sono già molto conosciuti. È infatti la stampa a rendere un candidato il frontrunner e sono sempre i media coloro che possono annichilirlo con uno schiocco di dita. Il candidato di testa è, spesso e volentieri, l’uomo più conosciuto del panorama delle primarie, ma i giornali non possono limitare la propria copertura e di conseguenza tendono a porre grandi sforzi nella ricerca di informazioni, scoprendo spesso informazioni molto pericolose.

Vi sono tantissimi esempi di questo tipo di situazione, ma due sono sicuramente quelle più emblematiche. La prima riguarda proprio il sopracitato Ed Muskie. Il candidato, infatti, dopo le primarie del New Hampshire, già ferito dalla grande crescita di Mc Govern, viene colpito da uno scandalo quando si scopre una sua precedente uscita di stampo razzista, riportata in una lettera. Così, mentre la stampa racconta la storia di Mc Govern nel pieno della sua ascesa verso la fama, Muskie diventa interessante solo ed esclusivamente per lo scandalo.

Gary Hart è l’altro esempio lampante di questo rischio. Il senatore del Colorado, che aveva già corso nel 1984, nel 1988 era da tutti considerato il candidato forte, l’uomo che avrebbe sconfitto i Repubblicani e riportato agli antichi fasti il partito Democratico. Proprio perché era particolarmente noto, i media decisero di aumentare la sua copertura e seguirlo anche quando lui ne era ignaro. In questo modo fu scoperta una relazione extraconiugale che portò alla caduta della sua candidatura.

Il candidato di testa vive infatti di un racconto costruito molto prima delle elezioni,  che difficilmente riesce ad essere sempre interessante e avvincente. La maggior parte delle volte questo porta i media a scavare nel suo passato e gli elettori ad essere attirati da eventuali scandali, ritenuti molto più interessanti di una storia personale già conosciuta.

Il tempo e la libertà sono le armi migliori

Un candidato ha nel tempo e nella libertà le sue armi migliori, ma il frontrunner vede diminuire la munizioni a vista d’occhio. È vero, infatti, che i candidati in testa sono quelli chiamati più spesso dai comitati elettorali locali o invitati dai senatori o dai deputati dei vari luoghi, ma è anche vero che questo priva di un enorme quantità di tempo.

Nel 2008 Hillary Clinton nello scontro con Obama soffriva in particolare di questa situazione. Mentre Obama batteva i territori diner dopo diner e pub dopo pub, l’ex first lady passava il suo tempo a muoversi da un evento di partito all’altro dietro ai finestrini oscurati di un suv blindato.

Proprio quei finestrini sono l’emblema del rischio di non essere liberi. Hillary Clinton per il suo essere frontrunner era infatti limitata nei suoi incontri. Non poteva muoversi nei quartieri disagiati, non poteva liberarsi della sua scorta né della sua storia personale da ex first lady.

E se dovesse essere tutto banale…

La paura più grande però che attraversa la mente di un frontrunner o del suo stratega è quella di sentirsi sempre costretti nel banale e nell’ovvio. Il candidato di testa è di solito infatti accompagnato da un’etichetta riguardante le sue idee politiche, le sue storie pregresse e le sue strategie. Tutto sembra essere così banale e così statico, portando i team e i candidati a strafare a volte distruggendosi con le proprie mani.

La banalità però spesso non è una cosa negativa. Il candidato di testa riesce a sfruttare la maggior parte dei suoi vantaggi spesso rimanendo fermo, obbligando gli altri ad agitarsi per cercare di riprenderlo.

E per il 2020

Nella corsa attuale è ovvio pensare che Joe Biden sia il frontrunner, e per qualche mese lo è forse pure stato, ma attualmente è difficile definire chi lo sia veramente. Il titolo viene infatti dato dai media principalmente, ma sono gli altri candidati a riconoscere la forza e lo status del candidato di testa.

Il titolo di frontrunner attualmente non è ancora stato definito e forse non lo sarà ancora per molto tempo. Bisognerà aspettare le prime tornate elettorali e capire qual è veramente il polso del Paese. Resterà allora da capire se il candidato scelto avrà la forza di superare la maledizione del frontrunner.

Fonti e approfondimenti

This debate confirmed there is no Democratic presidential frontrunner, 20 Novembre 2019, https://www.vox.com/2019/11/20/20972453/democratic-debate-presidential-frontrunner-2020.

United States Studies Centre, John Barron, The curse of the frontrunner, 13 April 2015, https://www.ussc.edu.au/analysis/the-curse-of-the-frontrunner.

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