L’Italia che abbiamo messo sotto il tappeto

Invisibili
@MarcoMonetti - Flickr - CC BY-ND 2.0

Oggi, 2 giugno, è la festa della Repubblica. Una Repubblica fondata sul lavoro e sulla dignità. Come spiega il noto costituzionalista Stefano Rodotà, dignità e lavoro sono rappresentazione della concretezza della persona, “per ciò che la caratterizza nel profondo (la dignità) e per quel che la colloca nella dimensione delle relazioni sociali (lavoro)”. Questi vengono affiancati ai concetti astratti di libertà, uguaglianza e fratellanza tipici della tradizione liberale, entrando a far parte della tradizione giuridica europea e internazionale a partire dal 1947, da quando noi per primi li abbiamo inseriti in modo così esplicito nel testo costituzionale.

Se la dignità e il lavoro sono i pilastri della nostra costituzione ci aspettiamo che a tutti vengano garantite le condizioni per poter lavorare e per poter vivere una vita dignitosa e che vengano eliminati “gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana.”. Questo però non accade sempre.

In questi ultimi mesi ci siamo sentiti più italiani che mai: abbiamo cantato l’inno dai balconi, ci siamo aiutati con i “chi può metta, chi non può prenda”, abbiamo fatto la spesa agli anziani, abbiamo fotografato le frecce tricolori e le pizze fatte in casa del sabato sera. Ma l’emergenza dovuta alla pandemia ha anche messo in luce molte situazioni che tenevamo sotto il tappeto, contro le quali ci siamo dovuti scontrare e sulle quali abbiamo provato almeno a mettere delle toppe.

“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.” (Art. 2)

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.” (Art. 3)

Il diritto a un’esistenza dignitosa, uno dei diritti inviolabili dell’uomo, non è garantito a tutti

Senza dimora e carcerati. I primi in Italia si stima siano circa 51.000, una decina di migliaia in più i secondi. L’azione di assistenza e tutela dei senza dimora è portata avanti prevalentemente da enti non governativi – o enti del terzo settore. Anche in questo periodo di emergenza, da quando l’utilizzo delle mascherine, il distanziamento sociale e l’igienizzazione frequente delle mani sono passati da essere consigliati a essere obbligatori, sono stati gli enti del terzo settore ad attivarsi per fornire informazioni e strumenti di prevenzione a questa categoria di persone.

Nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani per le condizioni di sovraffollamento delle carceri. A seguito della condanna si è lavorato per una diminuzione del numero di detenuti negli istituti penitenziari, numero che è però progressivamente risalito. Allo scoppio della pandemia, il sovraffollamento, oltre a impedire spesso l’applicazione del diritto a un’esistenza dignitosa di cui sopra, ha reso impossibile l’applicazione delle misure di sicurezza prima suggerite e poi imposte dal governo. Lo Stato ha provato in prima persona a “mettere una toppa”: il provvedimento datato 18 marzo ha stabilito, con una procedura semplificata, la possibilità di passare alla reclusione domiciliare per coloro che avevano da scontare un massimo di 18 mesi di pena. Decisione apprezzabile, ma aprire gli occhi su una situazione che perdura da anni solo “grazie” all’emergenza non ci fa di certo onore.

Non abbiamo tutti pari dignità sociale

E la pandemia ce lo ha ricordato. Io ho lavorato da casa per tutta la durata del lockdown, mentre gli operai di fabbriche che producono beni più o meno utili no. E ad alcuni di loro i datori di lavoro hanno riso in faccia quando hanno chiesto presidi di protezione. La mia salute e la mia vita in quel momento valevano più delle loro. E se, come afferma Rodotà,  “la dignità appartiene a tutte le persone, sì che debbono essere considerate illegittime tutte le distinzioni che approdino a considerare alcune vite come non degne, o meno degne, di essere vissute”, io non voglio che il valore della mia vita sia considerato superiore a quello della vita di qualcun altro. Non voglio che sia superiore a quello della vita di un senza dimora, di un carcerato, di uno straniero che lavora nei campi – perché anche se l’articolo parla di cittadini, essendo la dignità riconosciuta in quanto persone, il concetto deve essere esteso anche ai non cittadini – di qualcuno con la pelle di un colore diverso dal mio o con gli occhi con un taglio diverso.

“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” (Art. 1)

“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.” (Art. 4)

“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.” (Art. 36)

Ma cosa intendevano i costituenti con quel “fondata sul lavoro”? L’espressione ricade in quella che Mortati definisce costituzione materiale, cioè la parte non solamente giuridica, ma finalistica, del testo costituzionale. Quindi lo Stato, definendo il lavoro come un diritto, si prende la responsabilità di garantirlo.

Nei tristemente celebri numeri della disoccupazione c’è chi non ha un lavoro perché è troppo anziano; chi non ha un lavoro perché non ha ancora maturato l’esperienza necessaria; chi non ha un lavoro perché è donna e allora “se vuoi una famiglia stai a casa mentre tuo marito lavora”… e questi sono solo alcuni esempi. Poi c’è chi ha mezzo lavoro, perché più di quello non riesce a fare o perché non riesce a trovare altro; chi il lavoro ce l’ha intero, ma viene pagato come se ne avesse mezzo; chi è andato in pensione, ma la pensione non gli basta per vivere dignitosamente.

C’è anche chi un lavoro ce l’ha, ma non un lavoro regolare: i braccianti citati prima, spesso anche colf e badanti, cuochi, camerieri e lavapiatti, commercianti che non riescono a sostenere i costi di un’attività regolare. Puntare il dito contro tutti coloro che lavorano senza pagare le tasse è semplice, ma provate a farlo dopo esservi chiesti quante tutele vi garantisce il vostro lavoro. Tu hai le ferie, loro no. Tu puoi stare male, loro no. A te è stata pagata – o sarà pagata visti i ritardi – la cassa integrazione, a loro no. Molti di loro hanno perso la loro unica fonte di sostentamento e, come per i senza fissa dimora, gli enti del terzo settore sono stati l’unico appiglio. Non sempre lavorare in nero è una scelta.

Tra percezione e realtà

Il filosofo tedesco Günter Anders spiega che di fronte a qualcosa di “troppo grande” l’essere umano diventa indifferente. Che sia perché tendiamo a rimuovere un’informazione fastidiosa o perché sentiamo di non poter agire su qualcosa di così imponente poco importa: per noi quel qualcosa non esiste. Se, per esempio, in Italia i poveri e le persone a rischio povertà sono troppe – o meglio, la comunicazione dei dati avviene in modo da farci percepire il fenomeno come “troppo grande” -, noi continuiamo a vivere come se di quelle persone non avessimo mai sentito parlare. Non le guardiamo nemmeno se le incontriamo per strada. Al contrario, se si parla della società italiana come di una società benestante, in cui quasi tutti possono permettersi la macchina e la vacanza all’estero, allora quel “quasi tutti” oscura chi da questo gruppo resta fuori. In mezzo a questi due estremi dovrebbe esistere un sistema di comunicazione che, privo di retorica estremista – nel bene e nel male – ci aiuti a non avere una percezione distorta della situazione nel nostro Paese.

Proprio per questo ho cercato di raccontare un po’ di reale. Se i concetti alla base della nostra Costituzione sono espressione della concretezza della persona, allora dovremmo fare lo sforzo di abbattere i muri che ci difendono da una realtà che ci fa male vedere. Quei muri che ci impediscono di rendere concreti i numeri con cui ci inondano e ai quali, forse,  abbiamo paura di dare una faccia.

 

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