Gibuti: la caserma internazionale

Gibuti
Commander, U.S. Naval Forces Europe - Flickr - CC BY-ND 2.0

Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a una vertiginosa militarizzazione della sponda occidentale del Mar Rosso. Nel solo Stato di Gibuti – parliamo di una superficie di appena 23 mila chilometri quadrati – sono ospitate le forze militari di otto potenze straniere: Stati Uniti, Cina, Francia, Giappone, India, Italia, Spagna e Germania. A questi a breve si aggiungerà l’Arabia Saudita. 

Anche se le ragioni che hanno determinato una tale concentrazione di forze armate straniere sono molteplici, quattro fattori risultano fondamentali per la comprensione del fenomeno: l’ingresso della Cina; la centralità dell’area per il sistema degli scambi mondiali; la competizione delle potenze globali e regionali per il controllo del Mar Rosso e delle sue rotte commerciali; infine, la lotta al terrorismo e alla pirateria. 

L’ingresso della Cina

Nel febbraio del 2018, il presidente di Gibuti, Ismail Omar Guelleh, ha decretato la nazionalizzazione del terminal portuale di Doraleh, di fatto estinguendo in modo unilaterale – e illegittimo, secondo sei pronunce della London Court of International Arbitration (LCIA) – l’accordo sui diritti di sfruttamento economico dello scalo siglato con la multinazionale emiratina DP World

DP World è il quinto operatore portuale più grande al mondo. Sotto il diretto controllo della casa reale degli Emirati Arabi Uniti, gestisce mediamente il 5% del traffico globale su container. Nel 2006 aveva inaugurato i lavori per la costruzione di un’estensione del porto di Gibuti, ultimati tre anni dopo con l’apertura del Doraleh Container Terminal (DCT). Sottoscrivendo col governo di Guelleh un accordo di durata trentennale, DP World si era assicurata il 33% delle quote di partecipazione del terminal, oltre al diritto esclusivo di movimentare container nel Paese. 

Dal 2012, però, i rapporti tra la multinazionale emiratina e il governo di Guelleh si erano gravemente deteriorati. DP World veniva accusata di aver corrotto l’autorità portuale di Gibuti per ottenere condizioni più vantaggiose, di violare deliberatamente i termini dell’accordo al fine di favorire altri porti della regione e pertanto di danneggiare gli interessi e la sicurezza nazionale dello Stato di Gibuti. La decisione dell’autorità portuale di cedere il 23,5% delle quote dello scalo al colosso cinese delle costruzioni e della logistica, China Merchants Port Holdings, aveva gettato benzina sul fuoco. 

Nel 2015, China Merchants siglava un piano di investimenti dal valore di 590 milioni di dollari per la realizzazione del Doraleh Multipurpose Port, inaugurato nel 2017. DP World, impugnando le sentenze della LCIA, contestava che l’accordo con China Merchants fosse in contraddizione con il suo diritto esclusivo di movimentare container nel Paese. Si era ormai raggiunto il punto di rottura. Un anno dopo Guelleh decideva la nazionalizzazione della quota di DP World, per lasciare piena libertà di manovra a Pechino. 

Da allora, la Cina ha investito 3,5 miliardi di dollari per la creazione della Djibouti International Free Trade Zone, che si prospetta divenire la più grande area di libero scambio sul continente africano. Grazie ai capitali e alle imprese cinesi, si sono realizzati in breve tempo numerosi progetti di grande impatto geo-economico, come l’allacciamento, mediante cavi in fibra-ottica sottomarini, tra Gibuti e il Pakistan; un nuovo terminal nel porto di Ghoubet dedicato all’esportazione del sale; ma, soprattutto, il ripristino della ferrovia Addis Abeba-Gibuti. La Cina ha così manifestato la sua intenzione di insediarsi stabilmente nel Paese, in quanto snodo strategico della sua catena mondiale del valore e ganglio vitale della Belt and Road Initiative

Nel 2017, l’inaugurazione nei pressi di Doraleh della prima base militare cinese nel continente africano, con una capienza totale di 10 mila unità, ha testimoniato, oltre all’ottimo stato delle relazioni sino-gibutiane, la capacità di proiezione globale del Regno di Mezzo, a tutela dei propri interessi economici e strategici. Formalmente, la nuova base è motivata dalla necessità di fornire supporto logistico e umanitario nelle operazioni di contrasto alla pirateria somala nel Golfo di Aden e nell’Oceano Indiano. Rimane implicito che ciò consenta alla Cina di mantenere un forte contingente militare a presidio di uno dei principali “colli di bottiglia” mondiali

Le reazioni internazionali

Con l’apertura della base militare cinese, le potenze straniere già presenti a Gibuti hanno alzato i livelli di guardia. Primi tra tutti, gli Stati Uniti, che dal 2002 mantengono un importante contingente militare a Camp Lemmonier, ad appena 9 chilometri di distanza dall’area presa in affitto da Pechino.

Dopo l’11 settembre, il governo di Guelleh aveva cercato di accreditarsi a Washington come perno regionale nella guerra al terrorismo. Da qui, la proposta di stabilire una base militare americana sul territorio di Gibuti, che venne realizzata dall’amministrazione Bush. 

Camp Lemmonier, un’ex-guarnigione della Legione Straniera Francese, è oggi un’area militare che si estende su 250 ettari e ospita circa quattromila persone, tra soldati americani, contractors e funzionari civili. Per l’affitto della base militare, l’unica permanente degli Stati Uniti sul continente africano, e per il diritto all’utilizzo di porti e aeroporti limitrofi, il governo americano corrisponde a Gibuti ogni anno 63 milioni di dollari. 

Questa base è sede della Combined Joint Task Force – Horn of Africa (CJTF-HOA), un comando militare statunitense di 2000 unità, specializzato in operazioni anti-terrorismo, che ha la funzione di promuovere la stabilità e gli interessi americani nella regione. La sua area di competenza si estende a Sudan, Somalia, Etiopia, Eritrea, Seychelles e Kenya. 

La risposta degli Stati Uniti all’apertura della base militare cinese è stata finora tiepida e attendista, considerata anche la scarsa predisposizione della presidenza Trump a impegnarsi maggiormente in Africa. Ciononostante, fonti interne dell’AFRICOM – il comando generale degli Stati Uniti nel continente africano – sottolineano come questo evento rappresenti una preoccupazione strategica di lungo termine. 

L’ingresso della Cina ha allarmato anche il Giappone, che nel 2011 aveva scelto di stabilire proprio a Gibuti la prima base militare oltreoceano dove dislocare le sue Forze di Auto-Difesa (l’unica forma di esercito consentita dalla costituzione pacifista giapponese). In reazione all’ingombrante presenza cinese, Tokyo ha deciso di espandere e irrobustire il proprio dispositivo militare nel Paese. Inoltre, la base è stata messa a disposizione di un’altra potenza intenzionata a contrastare l’influenza di Pechino in un teatro così strategico: l’India. In base a un accordo stipulato lo scorso settembre tra Tokyo e Nuova Delhi, la marina indiana può disporre liberamente dello scalo giapponese a Gibuti per le sue operazioni di pattugliamento dell’Oceano Indiano e di contrasto alla pirateria. 

Gli interessi delle potenze dell’area MENA

In virtù della prossimità geografica, dei forti legami storico-culturali tra le due regioni e della maggior libertà di manovra garantita dal pivot to Asia statunitense, le potenze dell’area MENA (Middle East-North Africa) hanno progressivamente allargato la competizione per l’egemonia regionale al Corno d’Africa, alla ricerca di sostegno politico, risorse economiche e prestigio internazionale. 

In ragione della crescente importanza del Mar Rosso quale arteria commerciale globale, la loro proiezione strategica si è concentrata soprattutto sugli Stati litorali, tra cui Gibuti. 

Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita si annoverano tra gli Stati che con maggior successo hanno esteso la propria influenza e consolidato i propri presidi commerciali e militari nella regione, con l’obiettivo di sradicare la presenza dell’Iran e allontanare le sue navi dal Mar Rosso. Sotto la pressione politica ed economica delle monarchie del Golfo, tra il 2016 e il 2017, Gibuti, Eritrea, Somalia e Sudan hanno reciso i rapporti diplomatici con Teheran per prender parte alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita che combatte i ribelli houthi in Yemen. 

Riyad ha infine ottenuto il permesso di stabilire una base militare sul territorio di Gibuti. Gli Emirati Arabi Uniti, dopo l’espulsione di DP World dal Paese, si sono spostati a Berbera, nel Somaliland. Fino a poche settimane fa, mantenevano inoltre una base militare ad Assab, nella vicina Eritrea, utilizzata per le operazioni di guerra in Yemen. 

La Turchia è radicata militarmente ed economicamente a Mogadiscio, sede della più grande base militare turca al di fuori dai confini nazionali, e mira a insediarsi in Sudan, nell’isola di Suakin. A disporre di avamposti militari sul Mar Rosso sono anche Egitto, Israele, Giordania e Russia. 

Le implicazioni per Gibuti

L’alta concentrazione di forze militari entro i confini di Gibuti ha costituito fin dall’indipendenza un formidabile deterrente contro le aggressioni esterne. Inoltre, ha garantito la sicurezza delle rotte mercantili, condizione essenziale per l’espansione della  marina commerciale e l’affermazione del porto di Gibuti quale hub logistico-portuale. Si potrebbe ipotizzare che sia questa la chiave del successo economico e della stabilità politica di questo piccolo Stato, anomala se pensiamo alle vicende che hanno coinvolto i paesi confinanti: Etiopia, Eritrea, Somalia, Yemen. 

D’altro canto, si potrebbe controbattere che l’alta militarizzazione non sia stata una garanzia sufficiente per evitare contese territoriali, come quella che nel 2008 ha opposto Eritrea e Gibuti. La questione si è anzi ulteriormente inasprita nel 2017, con la crisi del Consiglio di Cooperazione del Golfo che ha portato all’isolamento del Qatar. 

Le pressioni di Riyad, affinché Eritrea e Gibuti ridimensionassero i propri rapporti con l’Emirato, avevano portato quest’ultimo a ordinare il ritiro delle forze di peacekeeping dispiegate dal 2010 sul confine eritreo-gibutiano. In poco tempo, il governo di Asmara ha rioccupato l’area contesa, portando i due Stati di nuovo sul piede di guerra. Sebbene la tensione si sia allentata, anche grazie all’intermediazione saudita, ciò testimonia come la crescente interdipendenza tra le due aree geopolitiche, MENA e Corno d’Africa, declinata principalmente in termini di sicurezza, possa rappresentare essa stessa un fattore di destabilizzazione.

Quel che è certo è che l’aumento della competizione tra gli aspiranti egemoni regionali e mondiali ha alzato la posta di una sfida potenzialmente esiziale per la classe dirigente gibutiana e per il difficile processo di stabilizzazione dell’area.

 

 

 

Fonti e approfondimenti

Youssef Igrouane, Djibouti: A Busy Hub of Foreign Military Bases on the Horn of Africa, Inside Arabia, 11/07/2019.

Huma Siddiqui, India and Japan cement defence ties! Ink landmark ACSA pact, India to get access to Djibouti in Africa, Financial Express, 10/09/2020.

Swedish Defence Research Agency (FOI), Germany – Linking Military Deployments in Africa to National Security, in Foreign Military Bases and Installations in Africa, agosto 2019.

Commander, Navy Installation Command, Camp Lemonnier: Djibouti, visitato il 24/01/2020. 

Costas Paris, Djibouti Rejects Court Ruling to Hand Back Container Terminal, The Wall Street Journal, 17/01/2020.

Federico Donelli, Ariel Gonzalez-Levaggi, Crossing Roads: The Middle East’s Security Engagement in the Horn of Africa, Global Change, Peace & Security, 2021. 

Nobuhiro Kubo, Japan to expand Djibouti military base to counter Chinese influence, Reuters, 13/10/2016. 

Abdi Latif Dahir, How a tiny African country became the world’s key military base, Quartz Africa, 18/08/2017.

Abdi Latif Dahir, A legal tussle over a strategic African port sets up a challenge for China’s Belt and Road Plan, Quartz Africa, 28/02/2019.

Camera dei deputati – Servizio Studi, La base militare nazionale nella Repubblica di Gibuti (Missione della Commissione di Difesa 10-11 febbraio 2020), Dossier N. 98, 07/02/2020. 

Arwa Damon, Brent Swails, China and the United States face off in Djibouti as the world powers fight for influence in Africa, CNN, 27/05/2019.

 

 

Editing a cura di Giulia Lamponi

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