La questione dei semiconduttori vista da Taiwan: intervista a Lorenzo Lamperti

Remix di Lo Spiegone e Dall-e

Lo sviluppo di tecnologie sempre più avanzate è spesso causa di contese tra diversi Paesi, poiché strumento fondamentale in termini di potere politico ed economico. Data la sua rilevanza strategica, il settore dei semiconduttori è oggetto di contesa nelle relazioni triangolari tra Cina, Stati Uniti e Taiwan. Per approfondire gli aspetti economici e politici della questione abbiamo intervistato Lorenzo Lamperti.

Lorenzo Lamperti è l’unico giornalista italiano con base a Taipei (Taiwan). Direttore editoriale di China Files, Lorenzo collabora con numerose testate giornalistiche – tra cui La Stampa e Il Manifesto – e ISPI su tematiche riguardanti la Cina e l’Asia. 

Cominciamo con una domanda tanto diretta quanto complessa: perché si parla tanto di semiconduttori e di Taiwan?

Soprattutto con l’inizio della pandemia, molti Paesi si sono accorti di quanto sia strategico il settore dei semiconduttori, anche grazie alle applicazioni tecnologiche che questi consentono e dai problemi che derivano da una loro carenza. Questa combinazione di fattori ha portato a un’attenzione molto più alta che in passato: i semiconduttori sono diventati un prodotto sempre più strategico, che ricopre un ruolo di primo piano nella contesa tecnologica internazionale

Uno degli attori principali di questa contesa è la Repubblica Popolare Cinese: un tempo definita “fabbrica del mondo”, oggi è un Paese tecnologicamente molto avanzato e leader in molti settori, tra cui quello delle infrastrutture della rete 5G e dell’intelligenza artificiale, anche applicata all’ambito militare. Tuttavia, i semiconduttori rappresentano il “tallone d’Achille” della Cina sotto il profilo tecnologico [in termini di produzione, ndr] e gli Stati Uniti stanno cercando di restringere l’accesso cinese ai semiconduttori e ai microchip di tecnologia più avanzata.

Per quanto riguarda Taiwan, c’è una distinzione importante da fare perché spesso viene fatta confusione fra produzione e fabbricazione: Taiwan non produce il 65% dei semiconduttori globali, ma ne fabbrica e assembla il 65%.

Questo aspetto è importante da sottolineare perché la produzione coinvolge in realtà diversi Paesi e ha origine negli Stati Uniti, dove viene effettuata la fase di design. Gli Stati Uniti hanno una leva importante nei confronti delle aziende taiwanesi e asiatiche, che va oltre la questione politica e militare: senza di loro non ci sarebbe il design dei semiconduttori. Poi, nella catena di produzione dei semiconduttori, altre nazioni, tra cui i Paesi Bassi, hanno un’importanza fondamentale: l’azienda olandese ASML [Advanced Semiconductor Materials Lithography, ndr] possiede il monopolio di una serie di macchinari per la litografia ultravioletta [passaggio fondamentale per la riduzione della dimensione dei semiconduttori, ndr]. Per questo, gli Stati Uniti stanno premendo anche sui Paesi Bassi per provare a impedire le esportazioni di tecnologia più avanzata verso la Cina

In questo contesto, l’anello taiwanese, è sicuramente importante, ma appunto è l’ultimo. Tuttavia, la leadership di Taiwan non è solo a livello quantitativo, ma anche qualitativo: il 92% dei semiconduttori inferiori ai 10 nanometri – i più avanzati a livello tecnologico – viene prodotto a Taiwan, mentre il restante 8% viene fabbricato in Corea del Sud. Oltre all’aspetto della contesa geopolitica, quindi, c’è anche un aspetto più economico e commerciale.

Molti Paesi sanno di essere dipendenti dalla fase di fabbricazione e assemblaggio effettuata a Taiwan, e cercano di accaparrarsi le tecnologie e il know-how taiwanesi. Questo avviene, ad esempio, attraverso investimenti diretti delle aziende taiwanesi in nuovi Paesi – come nel caso dei nuovi stabilimenti di TSMC [Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, Limited, ndr] il più grande produttore indipendente di semiconduttori al mondo, ndr] in Arizona, l’allargamento dello stabilimento in Giappone e il primo stabilimento in Germania, non ancora ufficializzato. Da una parte, si assiste al tentativo di attrarre investimenti dei colossi taiwanesi e dall’altra a quello di strutturare una produzione in-house, che possa ridurre la dipendenza verso Taiwan. Tuttavia, questo processo richiede tempo, investimenti e competenze che tanti Paesi – in particolare quelli europei – ancora non hanno.

Dall’estate del 2022, Taiwan e gli Stati Uniti stanno negoziando un accordo commerciale. Come si inserisce il negoziato nei rapporti con Pechino e nella questione dei semiconduttori?

Dell’accordo commerciale si sa ancora poco, ma non sembra coinvolgere direttamente i semiconduttori, poiché questo ambito sviene regolato da una serie di azioni statunitensi come il Chips Act [atto federale approvato nell’agosto 2022 che punta a investire 280 milioni di dollari nella produzione dei semiconduttori, ndr] e la fantomatica Chip Four Alliance [anello della strategia statunitense per indebolire l’accesso cinese ai semiconduttori, ndr] della quale dovrebbero far parte Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud e Taiwan. Tanto annunciata, ma di cui ancora non si vede l’ombra.

Anche se il negoziato riguarda altri settori, potrebbe collegarsi ai semiconduttori se fosse un accordo di libero scambio, come vorrebbe la controparte taiwanese. Questo perché le esportazioni dei semiconduttori taiwanesi verso la Cina pesano tanto: ben il 60% è destinato alla RPC. Negli ultimi tre anni, c’è stata una forte pressione statunitense per recidere questo cordone tecnologico tra Taipei e Pechino: ad esempio, nel 2020 c’è stato il ban  per l’esportazione di semiconduttori di TSMC a Huawei. 

In quel contesto, Huawei era un cliente molto importante, pesando per il 15% delle esportazioni [di TSMC, ndr]. Vista la perdita di un cliente così importante, Taiwan aspirerebbe a un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti in cambio della propria rinuncia. Ciò tuttavia sarà molto difficile, in quanto gli Stati Uniti prima con l’ex presidente Donald Trump, poi sotto la guida di Joe Biden, hanno continuato ad adottare una linea protezionista

I negoziati, che comunque stanno andando avanti, hanno ripercussioni anche nei rapporti con Pechino, che a ogni nuovo round blocca le importazioni di qualche prodotto taiwanese per dare un segnale. Per esempio, a giugno del 2022 avevano bloccato l’importazione delle cernie, mentre più recentemente è stata la volta di una serie di liquori taiwanesi, come il Gaoliang di Jinmen. 

Il negoziato si inserisce in una contesa diplomatica, commerciale e tecnologica e Taiwan si ritrova suo malgrado in mezzo a delle pressioni contrapposte. Per Xi Jinping la questione taiwanese è diventata una priorità rispetto agli anni precedenti e l’aumento della tensione sulle due sponde dello Stretto è ascrivibile anche a un cambiamento della percezione del ruolo statunitense nell’area. In precedenza, Washington fungeva quasi da ‘arbitro’ tra Taiwan e Cina, proteggendo il primo da un’azione militare di Pechino e tutelando la seconda dal dichiarare formalmente l’indipendenza di Taipei. Oggi, invece, è Taiwan a trovarsi in mezzo alla contesa tra Cina e Stati Uniti. Dal punto di vista di Pechino, gli Stati Uniti vogliono cambiare lo status quo sullo Stretto, incentivando il percorso verso l’indipendenza formale di Taiwan [ad esempio con la visita dell’ex speaker della Camera statunitense Nancy Pelosi, ndr]. Dal punto di vista di Washington, è la Repubblica Popolare Cinese che vuole cambiare lo status quo a livello militare, perché è diventata più forte e più impaziente.

Il governo e la popolazione taiwanese come vedono l’investimento di TSMC in Arizona?

Questa è una domanda critica, poiché dal punto di vista di Taiwan ci sono non pochi timori riguardo l’esternalizzazione delle competenze e del know-how tecnologico da parte di TSMC.

Da un lato, c’è la questione politica: per esempio, il partito di opposizione del GMD [Guomindang, ndr] sta usando questo argomento contro il DPP [Partito progressista democratico, il partito di maggioranza a Taiwan, ndr], anche in vista delle presidenziali del 2024, accusandolo di svendere l’industria dei semiconduttori – nota come lo “scudo di silicio” – fiore all’occhiello di Taiwan.

Dall’altro lato, il timore è che l’azienda stia mettendo radici altrove in previsione di un peggioramento delle condizioni geopolitiche nell’area. In questo senso, sia TSMC stessa sia il governo taiwanese stanno cercando di rasserenare gli animi. Il 6 dicembre 2022 c’è stato l’incontro tra Morris Chang – fondatore di TSMC – e Joe Biden a Phoenix (Arizona), dove hanno annunciato l’apertura dei lavori in un secondo stabilimento. Contestualmente, la TSMC ha aperto una fabbrica per la produzione di massa dei microchip a tre nanometri a Taiwan, e ha annunciato che entro l’inizio del 2025 comincerà la produzione di massa a due nanometri, nonché di aver individuato il sito per la produzione di massa a un nanometro per i prossimi anni.

Il messaggio che vuole far passare TSMC è che nonostante stia facendo affari altrove, l’impegno principale rimane a Taiwan e le tecnologie più avanzate non verranno esternalizzate. Lo stabilimento in Arizona – che aprirà entro il 2024 – produrrà a cinque nanometri, mentre già adesso a Taiwan si produce a tre nanometri. Il secondo stabilimento, che probabilmente entrerà in funzione nel 2025, produrrà a tre nanometri. Tuttavia, a quel punto Taiwan già produrrà già a due nanometri, se non anche a un nanometro.

L’investimento di TSMC in Europa come viene visto dagli Stati Uniti? 

Considerata l’operazione di lobbying che gli Stati Uniti stanno facendo per alzare l’attenzione sulla questione taiwanese, ogni sviluppo di questo tipo viene visto in maniera positiva da Washington. I Paesi europei, dal canto loro, utilizzano la questione taiwanese per mostrarsi “disponibili” e aperti nei confronti degli Stati Uniti. In questo contesto, la Germania riesce a muoversi in maniera molto pragmatica: il cancelliere Scholz è stato il primo leader occidentale a visitare Pechino dall’inizio della pandemia (nel novembre del 2022), ed è anche riuscito a chiudere un simile accordo con TSMC.

Oltre all’aspetto più economico e commerciale, qual è il valore politico dei semiconduttori?

Il governo taiwanese utilizza i semiconduttori come carta per aprirsi delle porte a livello diplomatico e politico. L’argomento implicito è che, se ci fosse un’invasione [da parte della Cina continentale in vista della riunificazione, ndr] la produzione dei microchip cesserebbe. Questo argomento rischia però di essere un’arma a doppio taglio: se nel breve termine può aprire delle porte – soprattutto in Europa – nel medio-lungo periodo potrebbe essere un boomerang. Il rischio dell’invasione – e della fine della produzione a Taiwan – potrebbe spingere altri Paesi a ridurre la loro dipendenza da Taipei, riducendo la rilevanza tecnologica dell’isola. Inoltre, nonostante alcuni vedano i semiconduttori come una sorta di deterrenza a un ipotetico attacco militare di Pechino, io credo che sia una visione limitata: sicuramente possono rallentare o accelerare calcoli strategici su entrambe le sponde dello Stretto, ma non li ritengo un game-changer.

Anche il discorso relativo all’iniziativa Chip Four è politico, oltre che commerciale. Se, da un lato, il Giappone mostra maggior allineamento con l’agenda statunitense – come dimostra il recente accordo stipulato dai due con i Paesi Bassi per la restrizione delle importazioni alla Cina – Taiwan e Corea del Sud non si sono ancora mostrate entusiaste. Anche se è molto probabile che, se messe di fronte a una scelta, acconsentiranno alla creazione dell’iniziativa, senz’altro si nota come stiano cercando di ritardare questo momento il più possibile. Poiché i semiconduttori rappresentano uno degli anelli di congiunzione tra Cina e Taiwan in assenza di dialogo politico, rescindere questo legame priverebbe Taipei di uno dei pochi canali di comunicazione con Pechino. 

Possiamo pensare che Cina e Stati Uniti raggiungano l’indipendenza nella creazione di microchip?

Come affermato qualche mese fa dal vice-ministro dell’Economia taiwanese, per Taiwan il decoupling [letteralmente, il disaccoppiamento, ndr] è impossibile. Un’affermazione di questo genere da parte di un politico taiwanese è rilevante, considerata l’importanza dei rapporti con gli Stati Uniti, la cui tutela garantisce la sopravvivenza di Taiwan e del suo attuale sistema politico. 

In merito a Cina e Stati Uniti, è molto difficile che riescano a raggiungere l’autosufficienza, perché si tratta di una produzione molto complessa che coinvolge diversi Paesi. Ottenere l’autosufficienza significa avere un sistema integrato e autarchico, che richiederebbe investimenti colossali almeno per decenni. Quello che gli Stati Uniti potrebbero fare è rallentare la rincorsa cinese, bloccando le esportazioni delle tecnologie più avanzate. Tuttavia, difficilmente riusciranno a portarsi a casa tutta la filiera di produzione, e continueranno a dipendere dai Paesi Bassi, Taiwan, Corea del Sud e Giappone (e viceversa). 

Nonostante abbia ridotto il gap tecnologico negli ultimi anni, anche la Cina rimane dipendente da Taiwan e dai Paesi Bassi. Una probabile risposta di Pechino potrebbe essere l’introduzione di divieti e controlli sulle esportazioni nel settore dei pannelli solari; in un momento in cui la transizione energetica è così importante, ciò potrebbe creare diversi problemi. Pechino ha anche un enorme vantaggio sulla questione delle terre rare, e potrebbe decidere di bloccarne l’accesso, provocando ripercussioni su numerosi settori come l’automotive. Lo scontro commerciale aperto, tuttavia, non conviene a nessuno degli attori coinvolti. In questo senso, ritengo che al massimo ci possa essere un “mini-decoupling” su alcuni settori. 

In chiusura,  in vista delle elezioni presidenziali a Taiwan nel  2024, quali sono le posizioni di Cina e Stati Uniti?

Per quanto riguarda Pechino, è necessario capire se si comporterà come nel 2019 o se adotterà un atteggiamento diverso. Nel 2019, infatti, la Cina ha fatto un errore strategico, interpretando la batosta inflitta dal GMD al DPP – nelle elezioni locali del 2018 – come una bocciatura da parte dei taiwanesi di politiche meno dialoganti nei confronti della Cina [tradizionalmente, il GMD ha politiche più favorevoli alla Cina, al contrario del DPP, ndr]. 

Con l’idea di far sentire Taiwan ancor più minacciata, nel discorso di inizio anno del 2019, Xi Jinping ha usato toni molto duri parlando del futuro dell’isola. Insieme a ciò che è accaduto a Hong Kong con la Legge sulla sicurezza nazionale nel 2020, l’atteggiamento cinese ha contribuito a regalare la vittoria al DPP. Un nuovo assist al DPP, con l’espressione di una posizione molto dura, significherebbe che a Taiwan la Cina non vede più interlocutori politici. Come sempre, però, bisogna anche considerare gli Stati Uniti, soprattutto in relazione alla probabile candidatura di William Lai – attuale vice-presidente di Taiwan – per il DPP. Si tratta di una figura politica molto diversa dall’attuale presidente Tsai Ing-Wen, poiché da Pechino viene percepito come indipendentista, ovvero che persegue l’indipendenza formale come Repubblica di Taiwan, a differenza dell’attuale presidente, che invece riconosce l’indipendenza de facto come Repubblica di Cina. Per questo, rappresenta un candidato insidioso per gli Stati Uniti e sarà interessante vedere se offriranno o meno una sponda.

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