Le elezioni tenutesi a Taiwan l’11 gennaio scorso hanno riconfermato la presidente uscente Tsai Ing-wen del Partito Progressista Democratico (PPD) come guida politica del Paese. Una vittoria schiacciante per la leader del PPD, la quale ha ottenuto ben il 57.13% dei voti a fronte del 38.61% del rivale Han Kuo-yu alla guida del Partito Nazionalista (Kuomintang – KMT). Il terzo candidato, l’outsider James Soong del Partito Prima il Popolo, ha invece guadagnato solo il 4.6%.
Il secondo mandato di Tsai si traduce nella continuazione della sua politica estera, la quale ha come fine ultimo quello di guadagnare spazio di manovra sullo scenario internazionale e spezzare l’isolamento taiwanese. In questo modo, Taipei si pone ancora una volta in rotta di collisione con Pechino, decisa invece ad ostacolare a tutti i costi il cammino di Taiwan verso l’indipendenza ufficiale.
Tsai rifiuta il consenso del 1992
Di fatto, la Repubblica Popolare Cinese (RPC) vede la riconferma di Tsai come un affronto al dogma politico dell’Unica Cina. Secondo tale principio, Taiwan non sarebbe altro che una provincia ribelle il cui territorio verrà riunificato, prima o poi, con quello della Cina comunista.
La presidente Tsai, sin dalla sua prima elezione nel 2016, ha rifiutato il cosiddetto Consenso del 1992, un vero caposaldo delle relazioni tra Pechino e Taipei. Sebbene tale intesa non definisca quale dei due governi sia quello legittimo, essa costituirebbe una rassicurazione per la RPC, in quanto viene esclusa la possibilità che Taipei possa un giorno dichiarare definitivamente la propria indipendenza.
In quest’ottica, il mancato riconoscimento da parte di Tsai del Consenso del 1992 viene interpretato da Pechino come un implicito diniego del dogma dell’Unica Cina. La rielezione della presidente ha quindi confermato la volontà del popolo taiwanese di proseguire sulla strada di uno sviluppo politico ed economico di stampo radicalmente diverso rispetto a quello della Cina continentale, ravvivando in questo modo le mai sopite tensioni tra Taipei e Pechino.
Difendere Taiwan
Sebbene la strategia principale di Pechino consista nell’abbattere lentamente il morale della popolazione taiwanese e nel sopraffare economicamente la ROC (Republic of China, Taiwan), la rielezione di Tsai rende più concreta l’ipotesi di una resa dei conti sul piano bellico. Negli ultimi anni, le forze armate cinesi hanno aumentato la propria capacità combattiva, incrementando il loro arsenale missilistico e conducendo esercitazioni periodiche su vasta scala al fine di intimidire Taiwan (2018 e 2019).
Di fronte a tale minaccia, il governo Tsai ha incrementato la spesa militare, prevedendo un aumento del budget del 5.2% rispetto al 2019 e toccando la cifra di $11 miliardi. Nel corso del suo precedente mandato, Tsai aveva promesso di raggiungere la soglia del 3% sul PIL, ipotesi non concretizzatasi a causa dell’opposizione del pubblico taiwanese a tale misura.
Questa mancanza di risorse nel settore della difesa è stata sopperita da un aumento delle esercitazioni militari, le quali, oltre a includere il personale delle forze armate, coinvolgono anche frange della società civile. Aziende edilizie e droni privati vengono mobilitati per effettuare, rispettivamente, operazioni di riparazione e ricognizione. L’ultima di queste esercitazioni è stata effettuata il 15 gennaio, a quattro giorni dalla rielezione di Tsai. La simulazione, durata due giorni, si è focalizzata su operazioni di forze speciali e supporto aereo; una risposta forte alle dichiarazioni cinesi, nonché una dimostrazione di quanto un’invasione da parte della RPC possa rivelarsi essere troppo costosa persino per l’apparato militare cinese.
Negli ultimi anni, Taiwan ha inoltre acquisito diversi armamenti dagli Stati Uniti. Al giorno d’oggi, Taipei ha a disposizione batterie di missili terra-aria PATRIOT PAC-3 ed elicotteri d’assalto Apache, mentre gli F-16 in dotazione all’aeronautica sono stati sottoposti a diversi aggiornamenti.
Un punto debole della postura militare di Taipei è invece rappresentato dalla mancata professionalizzazione del suo esercito, il quale è costituito principalmente da soldati di leva. La sostituzione dell’esercito di leva con un’armata permanente è già stata discussa in precedenza, anche nel corso del primo mandato di Tsai, ma la mancanza di risorse umane ed economiche ha finito per escludere una tale transizione.
Come in precedenza, l’amministrazione Tsai ha quindi il fine ultimo di scoraggiare a tutti i costi un’invasione da parte della Repubblica Popolare Cinese, mantenendo il costo di tale opzione inaccettabile per Pechino. Tuttavia, bisogna evidenziare come la strategia di difesa di Taipei si affidi molto all’intervento degli Stati Uniti in caso di guerra aperta. Di fatto, il coinvolgimento di Washington in un eventuale conflitto costituisce, da solo, il deterrente più efficace agli occhi di Pechino.
La Dottrina Tsai e la New Southbound Policy
Il tassello centrale della politica estera di Tsai è costituito dalla New Southbound Policy, ossia la creazione di stretti legami economici e culturali con i Paesi del sudest asiatico e altri attori nel Pacifico. L’obiettivo di questa dottrina è ovviamente quello di allontanarsi ulteriormente da Pechino spezzando la stretta dipendenza economica.
Sin dal 2016, l’amministrazione Tsai ha stipulato accordi informali di cooperazione bilaterale con diversi Stati in ambiti come l’agricoltura e la sanità pubblica, dando anche vita a collaborazioni per scambi culturali. Inoltre, sotto l’egida della New Southbound Policy, il governo Tsai sta aumentando le esportazioni verso gli altri Paesi della regione. Nel 2017 l’export taiwanese verso gli Stati ASEAN ha raggiunto il valore di 58,57 miliardi di dollari, il 14% in più rispetto al 2016. Nello stesso anno, la sola Malesia ha registrato un incremento del 32,7% delle esportazioni della ROC, mentre ancora più significativi sono i dati dell’export verso il Laos, con una crescita dell’output commerciale verso il Paese che ha toccato i 74 punti percentuali nel 2017.
Stessa cosa si può dire degli investimenti esteri verso gli Stati ASEAN, i quali, soltanto nel primo anno di mandato di Tsai, hanno raggiunto la cifra di 4,2 miliardi, ossia il 73% in più rispetto al 2015. Grazie a questo flusso di capitali, al giorno d’oggi Taiwan è il terzo investitore in Tailandia e il quarto in Vietnam e Malesia.
Una vittoria esemplare in questo contesto è costituita dal Bilateral Investment Agreement (BIA) stipulato con le Filippine nel 2017. L’accordo pone le basi giuridiche necessarie a stimolare gli investimenti taiwanesi nell’arcipelago filippino e viceversa. L’intesa assume ancora più rilievo se si evidenzia il suo carattere quasi ufficiale: un’anormalità, considerato che il governo di Manila non riconosce formalmente Taipei.
In aggiunta, tra i passi avanti fatti in politica estera dalla ROC, possono essere menzionate anche le collaborazioni avviate con Giappone e Stati Uniti nella regione in materia di anticorruzione, governance e cyber-sicurezza nel contesto del Global Cooperation and Training Framework (GCTF). Tale accordo è stato stipulato tra Taipei, Tokyo e Washington nel 2015 col fine di creare un’arena per la condivisione di expertise tra Taiwan e i suoi partner globali in diverse materie.
Infine, da notare è l’aumento, sin dal 2016, del flusso di turisti, lavoratori e studenti provenienti dai Paesi ASEAN. La mobilità è infatti un investimento a lungo termine per il governo Tsai, il quale si sta mostrando particolarmente attivo anche nello stimolare l’arrivo di studenti stranieri nelle università taiwanesi, mettendo a disposizione borse di studio e favorendo la formazione professionale tramite programmi di tirocinio.
Sebbene tali accordi possano sembrare a primo avviso trascurabili, essi in realtà permettono a Taiwan di ritagliarsi una voce nello scenario internazionale, instaurando rapporti con alcuni Stati asiatici e ponendosi come attore indispensabile sullo scacchiere regionale. Ovviamente, Taipei rimane esclusa dalle sfere più incisive della cooperazione interstatale, come la sicurezza e gli accordi economici su vasta scala; aree in cui il margine di manovra della ROC è fortemente limitato dalla Cina.
Le pressioni cinesi
Considerato il rifiuto di Tsai di riconoscere il Consenso del 1992, il governo della RPC ha rilasciato un comunicato a seguito delle elezioni, ribadendo che Taiwan fa parte del proprio territorio. La risposta di Taipei non si è fatta attendere: il ministro degli Esteri della ROC ha prontamente condannato la dichiarazione cinese, definendola falsa e aggiungendo che “solo il governo Taiwanese eletto dal suo popolo ha la facoltà di rappresentare Taiwan nell’arena internazionale”.
Tuttavia, le pressioni cinesi vanno ben al di là di queste taglienti battute diplomatiche. Secondo la retorica di Pechino, il leader del Partito Comunista, Xi Jinping, sta ormai “perdendo la pazienza” e l’invasione di Taiwan potrebbe essere ordinata entro la fine del 2020.
Nonostante queste minacce, la Repubblica Popolare Cinese, come già accennato, ha adottato fino ad ora un approccio strategico più sottile, mirando a legare sempre di più a sé la ROC dal punto di vista economico e scommettendo sul crollo psicologico del popolo taiwanese.
Inoltre, sono sempre di più le ingerenze cinesi negli affari interni del Paese. Negli ultimi anni, Pechino ha infatti aumentato i propri sforzi per influenzare i canali d’informazione di Taiwan, invadendo in maniera capillare il dibattito politico nell’isola. L’influenza della RPC su radio, televisioni, giornali, social media e siti internet cresce costantemente. Diversi giornalisti taiwanesi vengono invitati annualmente a conferenze e corsi di formazione in Cina, con l’obiettivo di favorire l’immagine della Repubblica Popolare nel panorama mediatico taiwanese.
Ovviamente, ai metodi d’informazione più tradizionali si accosta l’impiego di social media per diffondere notizie false finalizzate a manipolare l’opinione pubblica. Un trend che, considerando il lancio delle nuove piattaforme cinesi come WeChat e TikTok, è destinato ad aumentare in futuro e ad attraversare probabilmente i confini della regione.
Conclusioni
La rielezione di Tsai assicura la continuazione della New Southbound Policy, portando Taiwan a essere sempre più attiva nello scacchiere regionale. Tuttavia, la dottrina Tsai presenta diversi punti deboli. Infatti, alla coraggiosa decisione di rifiutare il Consenso del 1992 non è conseguito quell’ingente ampliamento delle forze armate necessarie a scoraggiare un attacco cinese. La spesa militare rimane sotto il 3%, mentre l’esercito resta ancora composto da militari di leva. Dal canto suo, la Cina continua ad ampliare gli effettivi del proprio esercito e a condurre esercitazioni militari su vasta scala per intimidire Taiwan.
Nonostante gli sforzi dell’amministrazione Tsai, la lista dei Paesi che riconoscono ufficialmente la Repubblica di Cina si assottiglia sempre di più. Recentemente, Kiribati e le Isole Salomone hanno deciso di accettare il principio dell’Unica Cina e di avviare relazioni diplomatiche formali con Pechino. Al giorno d’oggi solo 14 Stati sui 193 membri delle Nazione Unite riconoscono il governo di Taipei. L’amministrazione Tsai sembra decisa a spezzare questo isolamento, ma il ruolo di potenza mondiale ricoperto dalla Cina costituisce al momento un ostacolo quasi insormontabile.
Fonti e approfondimenti
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