Di Chiara Scissa
Il Centro Regionale di Informazione delle Nazioni Unite fornisce dati e informazioni utili su tutti i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs). In relazione al 14° Obiettivo (Conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile), il Centro afferma che il 71% della superficie terrestre è ricoperta dagli oceani che contengono il 97% dell’acqua presente sulla Terra.
Per secoli gli oceani sono stati al centro di miti e leggende, nonché di scoperte geografiche. Tuttora mantengono il loro fascino misterioso, con zone remote ancora inesplorate o poco controllate. La regolamentazione del diritto del mare è in effetti poco conosciuta e decisamente meno estesa rispetto alle innumerevoli norme che disciplinano la vita sulla terraferma. È proprio questo debole controllo, sia normativo sia pratico, ad aver portato il giornalista e reporter investigativo Ian Urbina a definire questo enorme spazio blu come ‘the outlaw ocean’ (l’oceano fuorilegge), un luogo in cui crimini ambientali e gravi reati transnazionali proliferano indisturbati e dove il tempo per le vittime sembra essersi fermato. L’Agenda 2030 sullo Sviluppo Sostenibile mira, al contrario, a mantenere intatte le peculiarità dei nostri oceani e la preservazione della biodiversità marina. Il Goal 14, infatti, incoraggia gli Stati a porre fine alla pesca intensiva, alla pesca illegale, a quella non dichiarata e non regolamentata e alle pratiche di pesca distruttive (Target 14.4).
L’oceano come risorsa
Il Centro Regionale di Informazione sostiene che più di 3 miliardi di persone nel mondo dipendono dalla biodiversità marina degli oceani quale fonte di sostentamento e di proteine. Il clima, la disponibilità d’acqua dolce, la qualità dell’aria e parte della sicurezza alimentare sono regolati dai mari e dagli oceani che, in aggiunta, preservano gli ecosistemi marini e costieri. Gli oceani assorbono inoltre circa il 30% dell’anidride carbonica prodotta annualmente, svolgendo quindi un’azione fondamentale di mitigazione dell’impatto del cambiamento climatico sul nostro pianeta, sebbene questo aumenti sproporzionatamente il livello di acidificazione delle loro stesse acque. Infatti, mentre l’azione di assorbimento di CO2 è un fenomeno naturale, l’acidificazione degli oceani non lo è. Essa è causata da quantità eccessive di anidride carbonica di matrice antropica presenti nell’atmosfera.
Secondo il Rapporto sul progresso degli SDGs delle Nazioni Unite (2019), a dicembre 2018 oltre 24 milioni di km2 (o il 17,2%) di acque territoriali sono state trasformate in aree protette, un aumento significativo se comparato al 12% del 2015. A livello globale, le aree naturali protette sottoposte a uno speciale regime di tutela e di gestione sono passate dal rappresentare lo 0,9% della superficie oceanica nel 2000 all’odierno 7,4%, riducendo il rischio di estinzione di molte specie marine. Sul territorio italiano, l’ISTAT rileva che, nel 2013, la superficie delle aree marine protette era pari a 3.020,5 km2; i tre quarti delle aree protette si trovano in tre regioni (Sardegna, Sicilia e Toscana).
Il Rapporto ASviS 2019 (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) sottolinea che nel corso degli ultimi anni la cura verso la preservazione degli oceani e degli ecosistemi marini è notevolmente aumentata. Un’attenzione che ha trovato riscontro anche presso la comunità internazionale, la quale ha promosso l’adozione, inter alia, della Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (Cites), la Convenzione di Stoccolma per la regolamentazione ed eliminazione di inquinanti pericolosi e la Convenzione Marpol per prevenire l’inquinamento causato dalle navi, a cui si aggiungono le recenti iniziative europee di riduzione dell’inquinamento da plastica.
L’oceano come profitto
A livello globale, il valore di mercato stimato per l’industria ittica è di 3.000 miliardi di dollari annui, circa il 5% del PIL globale. Tuttavia, si stima che il 40% degli oceani sia gravemente danneggiato dalle attività umane e dai crimini ambientali.
Ad esempio, la pesca illegale, riconosciuta da UNEP e INTERPOL come emblematico crimine ambientale transnazionale, viene perpetrata in tutto il mondo, sia nelle zone economiche esclusive che in mare aperto, per un profitto annuo tra gli 11 e i 23.5 bilioni di dollari. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO), il 29% delle specie di pesce pescato nel 2011 era a rischio estinzione. A livello globale, tra le 11 e le 26 tonnellate di pesce sono pescate illegalmente ogni anno. Nelle ricerche FAO, l’Unione europea, gli Stati Uniti e il Giappone sono indicati come le destinazioni maggiori della pesca illegale per alimentare i grandi mercati del pesce, impoverendo la biodiversità marina dell’oceano Atlantico e dell’oceano Pacifico, identificati come le zone d’origine della maggior parte del mercato ittico illegale. Questo è in parte dovuto al fatto che gli Stati che si affacciano su questi oceani non hanno i mezzi necessari o la volontà politica di rintracciare e perseguire i responsabili di tali crimini ambientali, lasciandoli spesso impuniti e permettendo a questo business illegale di proliferare indisturbato.
La pesca illegale minaccia la sussistenza delle comunità costiere, soprattutto dei Paesi in via di sviluppo, in cui la sussistenza di circa 500 milioni di persone dipende direttamente o indirettamente dall’industria della pesca. UNEP stima che la perdita economica causata dalla pesca illegale per queste popolazioni si aggiri tra i 9 e i 25 miliardi di dollari l’anno. Particolarmente critico è il caso dell’Africa occidentale, in cui secondo la World Ocean Review la pesca illegale raggiunge il 40% del pescato, il livello più alto al mondo, seguito dal 34% dell’oceano Pacifico occidentale e nord-occidentale. UNEP afferma che in queste zone la pesca illegale sia condotta prevalentemente da Cina e Russia, mentre i maggiori destinatari di tutto il settore della pesca illegale siano, confermando i dati FAO, l’Unione europea, gli Stati Uniti, Cina e Giappone.
L’inquinamento marino
Inoltre, UNEP sostiene che le acque dei mari e degli oceani vengano spesso inquinate da sostanze tossiche rilasciate dai rifiuti trafficati e abbandonati illegalmente in zone remote così come dal mercurio a causa dell’estrazione illegale di oro e altre risorse minerarie che, di conseguenza, provocano danni enormi agli ecosistemi marini. Recenti stime affermano che entro il 2050 il peso delle plastiche presenti nei mari sarà superiore a quello dei pesci. Attualmente, i prodotti di plastica monouso e gli attrezzi di pesca perduti in mare e negli oceani compongono il 70% di tutti i rifiuti marini, corrispondenti a circa 150 milioni di tonnellate di plastica. L’inquinamento marino da plastica non solo degrada l’habitat naturale di milioni di specie animali e vegetali che popolano i mari e gli oceani, ma questo può anche produrre rischi per la salute umana, data l’esposizione a sostanze chimiche inquinanti tramite la catena alimentare.
Gravi crimini transnazionali
Un report pubblicato nel 2016 da UNEP e INTERPOL così come un report di UNODC (2011) rivela che spesso la pesca illegale si accompagna ad altri gravi crimini transnazionali, quali la tratta degli esseri umani, il traffico di migranti, il lavoro forzato e la schiavitù, il traffico di armi e di droga (in primis cocaina, oppiacei, cannabis e metanfetamina).
Nel report di UNODC si evince inoltre che le reti criminali stanno contribuendo ad aumentare la domanda di vittime di tratta da integrare nel mercato della pesca illegale. In molti casi, gli uomini vengono rapiti e costretti al lavoro forzato sui pescherecci o sulle piattaforme in mezzo all’oceano, mentre a donne e bambini viene imposta la prostituzione nei porti. In altri casi, i migranti pagano dei trafficanti per uscire dal proprio Paese ed entrare irregolarmente via mare nello Stato di destinazione, ma spesso rimangono su queste imbarcazioni per mesi in condizioni disumane, in attesa di essere finalmente liberati.
UNODC sostiene che in America Latina le reti criminali stanno commercializzando sempre più armi e droga tramite vasselli e altre imbarcazioni, portandole nel punto di scarico oppure oltre confine, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa. Quest’ultima è al secondo posto nel mondo per mercato di droga, con l’Italia al terzo posto tra gli Stati membri per domanda di cocaina.
Per un futuro sostenibile delle nostre risorse oceaniche, due azioni paiono pertanto urgenti: da un lato risulta essenziale porre tempestivo rimedio sia all’esacerbazione del cambiamento climatico sia alla devastazione ambientale causata dall’uomo tramite risoluta prosecuzione dei crimini ambientali; dall’altro è fondamentale promuovere sistemi di gestione e politiche di controllo dei traffici oceanici, con l’intento di preservare il grande patrimonio naturale e animale del nostro pianeta.
Fonti e approfondimenti
Chiara Scissa, Crimini ambientali: un business da 259 miliardi di dollari l’anno, 29 marzo 2020,
David J. Agnew, John Pearce, Ganapathiraju Pramod, Tom Peatman, Watson, John R. Beddington, Tony J. Pitcher. “Estimating the Worldwide Extent of Illegal Fishing.” Plos One 4, no. 2 (2009)
Ian Urbina, 2019, The Outlaw Ocean
Interpol, UNEP, The Environmental Crime Crisis. In A Rapid Response Assessment, edited by Christian Nellemann. Nairobi and Arendal: GRID Arendal, 2014.
Istat, 2019, Rapporto SDGs 2019, Informazioni statistiche per l’Agenda 2030 in Italia
UNEP, The State of Knowledge of Crimes that have Serious Impacts on the Environment, 2018
UNODC, 2011, Transnational organized crime in the fishing industry. Focus on: Trafficking in Persons Smuggling of Migrants Illicit Drugs Trafficking, Vienna
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