Niente è come sembra, ma alcune cose lo sono ancora meno di altre.
Tanto per cominciare, avere a disposizione di che nutrirsi non è per nulla una condizione scontata. E anche quando questa si verifica, è ingenuo credere che mangiare tutti i giorni, in quantità piuttosto normali, a orari abbastanza regolari sia qualcosa di ovvio e di automatico.
Quando non si sta bene con sé stessi, il gesto più naturale che scandisce le giornate perde tutto quello che ha di ovvio e di automatico. È in quel momento che si rompe qualcosa nel nostro meccanismo interno: molto prima di cominciare a saltare i pasti o a mangiare di notte, molto prima di iniziare a perdere o a prendere peso, molto prima che si veda.
Una questione di salute mentale
I disturbi del comportamento alimentare sono qualcosa di dannatamente serio.
Le complicazioni cliniche sono gravissime: osteoporosi, infertilità, danni cerebrali e cardiaci, per nominarne solo alcune. Tra le patologie mentali, sono quelle con l’indice più alto di mortalità.
Non fa mai male ricordarlo: i disturbi alimentari sono una questione di salute mentale. E il loro impatto sulla psiche, collegato ad ansia e depressione, è tremendo e persiste ben oltre i danni al fisico.
Negli ultimi anni, sempre più studi hanno proposto di ampliare la classificazione dei DCA (disturbi del comportamento alimentare) e includere, accanto ad anoressia nervosa e bulimia nervosa, il disturbo dell’alimentazione incontrollata (binge-eating disorder). In realtà, esiste tutto uno spettro di comportamenti per i quali non è ancora stata trovata una definizione universalmente condivisa, che combinano elementi di queste tre categorie o ne aggiungono altri (per esempio l’ortoressia: l’ossessione per l’alimentazione salutare).
Elencare le caratteristiche di ogni tipologia non è l’obiettivo di questo articolo, anzi, le manifestazioni verso l’esterno dei disturbi alimentari attirano già così una sorta di attenzione morbosa, pericolosa a tal punto da far perdere di vista quello che conta.
Se siamo tutti d’accordo che i disturbi alimentari sono una patologia mentale, perché non ce ne preoccupiamo fino a quando non sono i corpi a gridare aiuto?
La presunzione delle frasi fatte
Per chi soffre di disturbi alimentari, “perché non mangi?” e “perché non mangi meglio?” non sono domande semplici o forse, in realtà, non lo sono per nessuno, visto che mangiare normalmente è un concetto fittizio. Dare per scontato che la risposta a questi interrogativi sia la mera preoccupazione per il proprio aspetto esteriore è di una superficialità estrema. La società dell’immagine e i modelli irraggiungibili di forma fisica hanno la loro buona dose di colpe, ma la limitatezza di questa equazione suona come un insulto. C’è molto di più, altrimenti non sarebbe concepibile spingere sé stessi e il proprio corpo fino a certi estremi. Il punto non sono i chili o i centimetri: per provare a capire, bisogna essere disposti a guardare più in là, a scavare molto più a fondo.
Molti tentativi sono stati portati avanti: la questione dei disturbi alimentari è ampiamente presente nella ricerca e nel discorso pubblico. La scienza se ne interessa sempre di più e propone spiegazioni e cure per questi comportamenti così innaturali.
Il problema sul piano sociale sta nel non accorgersi di quanto siano cruciali le fasi iniziali: molto prima di riuscire ad ammettere di stare male, molto prima che intervengano la medicina e la psicoterapia, ci si scontra con una barriera di frasi fatte e noncuranza. In troppi contesti i commenti sulla forma fisica e i suggerimenti gratuiti su “quello che si dovrebbe fare” sono all’ordine del giorno, senza che ci si renda conto che altre sensibilità li possono percepire come un attacco. Infine, quando il disagio diventa evidente, la barriera interpersonale continua a esistere, sotto forma di stereotipi duri a morire: si vede prima il problema e poi (forse) la persona, rendendo impossibile la comprensione della sua angoscia.
Il fardello dei DCA su scala globale
I disturbi del comportamento alimentare non sono solo gravi, ma anche molto comuni.
Il Global Burden of Disease – condotto dall’Institute for Health Metrics and Evaluation di Seattle – è lo studio più vasto e approfondito sulle minacce per la salute a livello mondiale. Gli ultimi risultati pubblicati hanno rilevato che durante il 2019 a circa 13 milioni di persone nel mondo sono state diagnosticate condizioni cliniche di anoressia nervosa e bulimia nervosa. L’incidenza varia da nazione a nazione tra lo 0,1 e l’1% della popolazione. L’Europa occidentale registra uno 0,8% nella fascia tra i 15 e i 49 anni d’età. Sempre in questa fascia, è stato stimato che in Italia soffrisse di disturbi alimentari l’1,6% delle donne e lo 0,4% degli uomini.
Associare i disturbi alimentari a un numero preciso di decessi rimane particolarmente difficile, a causa del subentrare di altre patologie e dell’alto tasso di mortalità per suicidio. Tra gli studi più recenti che hanno provato a stimare questo impatto, c’è n’è uno condotto continuativamente su un campione di quasi 6000 pazienti in Germania (2016). È stato rilevato che per chi soffre di anoressia nervosa morire prematuramente è 5,35 volte tanto più probabile.
Ma più che focalizzarsi sui casi limite (che già spesso fanno scalpore, soprattutto se legati al mondo dello spettacolo e della moda) bisognerebbe tenere conto di un altro indicatore del GBD, ovvero il numero di “anni di salute persi” (DALY, Disability-Adjusted Life Years). Nel 2019, i disturbi alimentari hanno compromesso nel mondo circa 3 milioni di anni di salute.
Tutto ciò è reso ancora più allarmante dalla constatazione che questi dati possono solo essere fortemente sottostimati, perché spesso i disturbi alimentari rimangono invisibili, o vengono diagnosticati troppo tardi.
Salute mentale e altri tabù
Qualcosa sta lentamente cambiando, ma ammettere di soffrire per un disagio psicologico, di qualunque tipo, rimane molto complesso. Questo tipo di reticenza include anche i disturbi alimentari. Le motivazioni per cui chi ne soffre non vuole uscire allo scoperto sono diverse e molto personali: per esempio la paura del giudizio degli altri, la vergogna perché non si riesce a venirne a capo da soli o la stessa sottovalutazione del problema.
Non prendere sul serio le questioni di salute mentale significa lasciare le singole persone a combattere una guerra contro sé stesse, incapaci di chiedere aiuto per il timore di non essere capite. Occorre porsi collettivamente l’obiettivo di abbattere questo muro di silenzio.
La pandemia da Covid-19 ha fatto emergere ancora di più quanto l’essere umano sia vulnerabile psicologicamente: quasi un anno di isolamento forzato ha avuto e avrà conseguenze devastanti da questo punto di vista. Affrontare la questione è più urgente che mai.
Il legame con i disturbi alimentari è molto evidente: il 2020 ha sconvolto le abitudini quotidiane praticamente di tutta la popolazione mondiale. Per chi soffre di un disturbo alimentare affidarsi a una routine e razionalizzare le giornate è uno dei pochi meccanismi di difesa, ma questo diventa ancora più difficoltoso quando i tempi per rimuginare i pensieri negativi sono dilatati.
Raccontare la propria storia per contribuire alla presa di coscienza
In tutto questo, la solitudine è uno degli aspetti più drammatici, già da prima della pandemia. Ed è paradossale se si pensa che così tante persone, in un momento o un altro della loro vita si troveranno ad affrontare la stessa dura prova. Tante altre, magari, non sanno che cosa si provi in prima battuta, ma vogliono con tutte sé stesse capire e aiutare.
La chiave di volta è non tenersi tutto dentro. Dare voce alla propria esperienza in tema di disturbi alimentari è doloroso, ma necessario: il percorso di ognuna e ognuno può diventare un’ancora di salvataggio per altri, oppure può risvegliare la consapevolezza di chi non aveva mai avuto occasione per rifletterci.
Oltre a ciò, bisogna agire per restituire dimensioni e complessità a un discorso che altrimenti andrebbe avanti basandosi esclusivamente su immagini trite e abusate. Per questo motivo il vissuto di chi soffre o ha sofferto di disturbi alimentari è così prezioso: per evitare che la discussione si fossilizzi in definizioni e indici di massa corporea così lontani dal lato umano di questa esperienza.
No, non sono solo le adolescenti a soffrire di disturbi alimentari. No, non è un problema futile che riguarda esclusivamente i Paesi ad alto reddito: negli ultimi dieci anni sono soprattutto i Paesi del Medio Oriente e dell’Africa ad avere registrato le percentuali di aumento più alte per i DCA, mentre Asia e America latina erano già da prima ampiamente interessate.
Sì, si tratta di una questione di genere, perché non si può negare che colpisca soprattutto le donne. Oltre a interrogarsi sul ruolo dei canoni di bellezza che pesano sul genere femminile, però, ci si dovrebbe anche chiedere seriamente quanti uomini vivano in segreto una sofferenza analoga e cosa fare per rompere lo stigma culturale di quella che, purtroppo, è tuttora considerata una debolezza. Di più, bisognerebbe rimediare alla mancanza di rappresentazione delle identità di genere non conformi, per le quali l’accettazione del proprio corpo è già di per sé una strada in salita. È una questione politica.
Sì, trovare la via d’uscita da un disturbo alimentare è una battaglia individuale, ma allo stesso tempo coinvolge tutte e tutti a livello di comunità. Imparare a cogliere i segnali e a reagire con sensibilità può davvero salvare delle vite e, per qualcuno, fare tutta la differenza del mondo.
Editing a cura di Carolina Venco
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