In una recente intervista Michelle Alexander, autrice del best seller The New Jim Crow (2010), testo che ha mostrato al mondo il dramma della mass incarceration e la crudeltà del sistema carcerario statunitense e come entrambi questi sistemi affliggano maggiormente le minoranze del Paese, ha dichiarato di avere trovato ispirazione in un manifesto affisso da un gruppo di attivisti. Il foglio annunciava una protesta contro la War on drugs, le Three strikes law, le sentenze per mandatory minimum e la violenza della polizia, accusate di avere amplificato le discriminazioni razziali nel sistema giudiziario statunitense. Di seguito cercheremo di analizzarne due: i mandatory minimum e le Three strikes law.
I mandatory minimum
Nel 1994 Kevin Haynes comparve in tribunale per aver preso parte ad alcuni furti. Era al primo reato documentato, nessuno era stato ferito o ucciso durante i colpi messi a segno e il totale sottratto ammontava a poco meno di 45.000 dollari. Nelle fasi preliminari, il pubblico ministero (prosecutor) propose un patteggiamento che, se accettato, avrebbe portato a una condanna di sette-otto anni. Haynes rifiutò l’accordo ma, al processo, il pubblico ministero riuscì a collegare i reati commessi dall’uomo, all’epoca ventitreenne, ad alcune sezioni del codice penale che permettono di impugnare i mandatory minimum. Il giudice non poté opporsi e Haynes venne condannato a trentotto anni di galera.
In poche parole, un imputato contro cui venga ottenuta una sentenza per mandatory minimum verrà sempre condannato a una pena o un risarcimento predeterminati e non modificabili. I mandatory minimum possono essere richiesti per vari crimini e sono presenti nei sistemi legislativi anglosassoni da molto prima della Rivoluzione americana. Negli Stati Uniti, in cui nel tempo hanno assunto una forma particolare, essi sono però principalmente associati ai crimini legati allo spaccio e al consumo di stupefacenti.
Anti-Drug Abuse Act
Risale al 1984 la prima norma che inserisce all’interno del corpo legislativo statunitense il possesso di stupefacenti tra i reati punibili tramite mandatory minimum, ma è solo due anni più tardi, con l’Anti-Drug Abuse Act (1986), che “mandatory minimum” diventa sinonimo di “War on drugs”. Negli Stati Uniti degli anni Ottanta e Novanta, ci fu la comparsa del crack – una forma di cocaina meno pura – sul mercato. L’abuso di questa sostanza venne associato, grazie anche all’aiuto dei media, alle minoranze, afroamericani in primis. Questo portò a una grande operazione di criminalizzazione dello spaccio e del consumo di crack, contribuendo ad arresti e condanne di massa. Tutto ciò si riflette nei diversi trattamenti che la legge del 1986 stabilì per reati legati, rispettivamente, al crack e alla cocaina.
La legge stabiliva che chiunque fosse trovato in possesso di 5 grammi di crack o 500 grammi di cocaina sarebbe stato soggetto a una pena minima di cinque anni di carcere, che diventavano dieci per dosi superiori. Tale principio, conosciuto come 1-100 sentencing disparity, fu considerato da molti arbitrario in quanto non ci sarebbero state prove che la cocaina fosse meno pericolosa del suo derivato, oltre a non tenere conto del contesto. Non faceva alcuna differenza se a trasportare la droga fosse un ragazzo con la fedina penale pulita, un utilizzatore saltuario, un tossicodipendente o un fornitore: potenzialmente, la sentenza sarebbe stata per ciascuno la medesima. L’unica differenza tra le due sostanze stava, in effetti, tra le comunità dove erano più diffuse: l’abuso di cocaina era associato ai bianchi, quello di crack ai neri. In sostanza, la legge del 1986 criminalizzava molto più duramente l’abuso di crack per colpire le minoranze.
Un salto nel buio
Ma i mandatory minimum presentano almeno un altro problema su cui vale la pena soffermarsi. Tra le intenzioni di questo strumento, secondo i suoi sostenitori, ci sarebbe la volontà di impedire una disparità tra sentenze per crimini simili in base alla maggiore o minore severità del giudice. Tuttavia, nel tempo i mandatory minimum non hanno fatto altro che sottrarre potere ai giudici, ai quali è impedito opporsi a tale meccanismo, per depositarlo nelle mani dei pubblici ministeri, che non sempre lo esercitano in buona fede.
Stando alle stime, negli USA il 95% delle condanne viene ottenuto con un patteggiamento e un’ammissione di colpevolezza. Questo avviene probabilmente perché per i pubblici ministeri è facile convincere un imputato a rinunciare al proprio diritto a difendersi in cambio di una pena più lieve, proprio facendo leva sulla possibilità di sentenze assai dure per mezzo dei mandatory minimum. Molti sottolineano come, in questo modo, ogni processo si trasformi in un salto nel buio cui gli imputati tenderebbero a sottrarsi attraverso una confessione. Anche falsa, pur di non rischiare pene più severe.
D’altra parte nel Paese si registra da tempo una lenta decrescita nel numero di persone imprigionate. Nel 2010 una legge firmata da Barack Obama ha abolito la 1-100 sentencing disparity in favore di una differenza più ridotta tra le quantità di stupefacenti e ha conferito maggiori poteri ai giudici, che possono usufruire più liberamente del potere di bloccare una sentenza per mandatory minimum per imputati al loro primo reato. In modo analogo si è mosso Donald Trump il quale, distaccandosi dalla linea del pugno duro contro il crimine che ha caratterizzato la sua amministrazione, con il First Step Act (2019) ha reso retroattive le decisioni del suo predecessore, permettendo a centinaia di prigionieri di uscire di galera prima del previsto. Anche il neo-eletto Biden, in aperta contraddizione con il politico intransigente che è stato in passato, promette importanti modifiche al sistema carcerario statunitense, ma su questo fronte è ancora presto per fare previsioni.
Three strikes law
Questa legge statunitense, nota anche per l’espressione che l’avvicina al baseball “Three strikes and you’re out”, può essere tradotta in italiano come “legge dei tre colpi”.
Il paragone con il popolare sport statunitense nasce proprio dal nome stesso della legge: dopo il terzo reato commesso, colui che viene ritenuto colpevole dalla giustizia, viene condannato alla massima pena che, a seconda dello Stato in cui avvengono i fatti, può corrispondere all’ergastolo.
Secondo il Violent Crime Control and Law Enforcement Act del 1994, atto costitutivo della Three strikes law, lo statuto “Three strikes” prevede l’ergastolo obbligatorio se un criminale è stato condannato da una corte federale per un “grave reato violento”; se egli ha due o più condanne precedenti in corti federali o statali e almeno una delle quali si costituisce come grave reato violento (l’altro reato può essere, ad esempio, un reato di droga).
Per reato “grave” o “violento” la giurisprudenza statunitense intende: omicidio, omicidio colposo, reati sessuali, sequestro di persona, rapina e qualsiasi reato punibile con dieci anni o più che includa un elemento comprovato di uso della forza o ne comporti un rischio di utilizzo significativo. L’obiettivo principale di questa legge era il contenimento della recidiva.
Tra il 1993 e il 1996, il governo federale e venticinque Stati approvarono differenti versioni della Three strikes law. Nel 1993, Washington fu il primo Stato quando approvò un’iniziativa che imponeva l’ergastolo senza possibilità di libertà vigilata per gli individui condannati una terza volta per determinati reati violenti. La California divenne rapidamente il secondo, approvando la sua legge nel 1994. Entro il 1996, altri ventitré Stati e il governo federale emanarono statuti simili.
Le criticità di questa legge
Lo statuto dei “Three strikes” è stato definito da numerosi giuristi come un altro modo attraverso il quale le legislature hanno rimosso la discrezionalità di condanna che i giudici statunitensi avevano in passato. Secondo queste leggi, a volte una condanna a vita può risultare da una combinazione di reati relativamente minori, solo perché il terzo colpo richiede al giudice di imporre una pena detentiva molto lunga. Differenti studi dimostrano come ci siano persone che passano la vita in prigione per aver commesso tre reati minori.
Non è chiaro inoltre quanto lo statuto dei “Three strikes” abbia avuto e abbia l’effetto di deterrenza desiderato. La teoria è che se qualcuno sa che affronterà una grave punizione per il suo terzo reato, non lo commetterà – o non commetterà nemmeno il suo primo reato. Tuttavia, differenti studi hanno dimostrato come nella pratica le cose non funzionino così. In particolare, mostrano che negli Stati dove questo statuto è in vigore gli omicidi sono aumentati dal 10% al 12% nel breve termine e dal 23% al 29% nel lungo termine. Questi hanno suggerito, poi, che i criminali che affrontano la possibilità dell’ergastolo per un terzo “strike” possano essere più propensi a uccidere i testimoni sulla scena del crimine nel tentativo di evitare il rilevamento del fatto.
Le Three strikes law non hanno ridotto, poi, nemmeno i tassi di stupro, rapina, aggressione, furto con scasso, furto o furto d’auto.
Ciò che appare evidente e ci restituisce un chiaro riscontro dei suoi limiti è che, nella maggioranza dei casi, i reati per cui questa legge è applicata hanno una gravità inferiore rispetto alla condanna prevista. Si viene a creare così una grande e ingiusta sproporzione tra il reato commesso e la durata della pena.
C’è, ad esempio, il caso di un ragazzo di sedici anni che venne condannato all’ergastolo senza condizionale per aver rubato la pistola del patrigno, dopo che quest’ultimo aveva sparato e minacciato di uccidere sua madre. Il patrigno, al contrario, sfuggì a ogni tipo di condanna, mentre il ragazzo subì una condanna così dura perché al terzo reato. Ci fu anche il caso di un uomo sorpreso a rubare una giacca del valore di 150 dollari che ha passato il resto della sua vita in prigione, e potremmo citare ancora moltissimi altri casi simili a questi.
La disproporzionalità tra crimine commesso e valore della pena è dovuta anche al fatto che i giudici, semplicemente, non possono fare quello che dovrebbero fare, cioè giudicare e scegliere una punizione che sia appropriata sia per il crimine, sia per la persona davanti a loro. Essi sono obbligati, infatti, a usare leggi come queste che prevedono il carcere a vita.
Anche le Three strikes law, come quella sui mandatory minimum, sono state modificate in parte dal First Step Act promosso da Trump. Sebbene si riferisca solo al sistema carcerario federale statunitense, questo atto prevede, riguardo alle Three strikes law, che le persone con tre o più condanne, anche per reati di droga, ottengano automaticamente venticinque anni invece dell’ergastolo. Ciononostante, finché esisteranno, leggi così punitive non faranno altro che continuare a fungere da strumenti puramente repressivi, che però non aumentano di fatto la sicurezza delle comunità.
Fonti e approfondimenti
Cullen J., Sentencing Laws and How They Contribute to Mass Incarceration, Brennan Centre for Justice, 05/10/2018.
Gay Stolberg S. & Herndon A. W., ‘Lock the S.O.B.s Up’: Joe Biden and the Era of Mass Incarceration, New York Times, 25/06/2019.
Kovandzic T. V., Sloan III J. J. & Vieraitis L. M., “Striking out” as crime reduction policy: The impact of “three strikes” laws on crime rates in U.S. cities, in Justice Quarterly, 21:2, 207-239, 2004.
Lopez G., The First Step Act explained, Vox, 05/02/2019.
Montz R., How mandatory minimums helped drive mass incarceration, Vox, 03/09/2015.
“Three Strikes” Sentencing Laws, FinLaw, 29/01/2019.
Editing a cura di Cecilia Coletti