Lo scorso 14 febbraio ha segnato il decimo anniversario della cosiddetta Primavera araba in Bahrain. Molto spesso, questa serie di manifestazioni iniziate nel 2011, il cui epicentro è stata l’iconica Piazza della Perla a Manama, sono state interpretate come il risultato dell’irrisolta questione sciita nel Paese. In realtà ciò che i manifestanti chiedevano era una svolta in senso democratico del regime. Tuttavia, il decennio appena terminato non ha portato i cambiamenti sperati. Al contrario, lo stato delle libertà fondamentali e dei diritti umani si è deteriorato.
Ogni dieci anni
Le proteste del 2011 segnarono, a loro volta, un anniversario cruciale nella storia nazionale: i dieci anni dall’approvazione della Carta d’Azione Nazionale (2001). Con questo documento, Hamad bin Isa al-Khalifa, divenuto emiro nel 1999, aveva promosso la creazione di un Parlamento parzialmente eletto a suffragio universale e la separazione dei poteri, creando l’impressione di una svolta democratica.
Queste promesse si rivelarono mendaci l’anno seguente. Infatti, il 14 febbraio 2002, Hamad al-Khalifa si autoproclamò re e inaugurò un rapido processo di accentramento del potere e controllo serrato della popolazione, istituzionalizzando la discriminazione della maggioranza sciita, che rappresenta circa il 62% dei bahreiniti. Quella di Manama è rimasta, di fatto, una monarchia assoluta. Il Parlamento ha funzioni esclusivamente consultive e i membri della Camera alta sono tutti nominati dal sovrano, che si è riservato, inoltre, la prerogativa di scegliere i giudici e tutti i ventisei ministri (dodici dei quali appartengono alla famiglia reale). Il sistema politico è inoltre organizzato in modo da escludere dalla rappresentanza ogni possibile oppositore del regime, in particolare gli sciiti.
Dopo esattamente nove anni di tirannia e settarismo, i bahreiniti scesero in piazza per rivendicare i propri diritti. Secondo il New York Times, oltre 100.000 dei circa 568.400 cittadini del piccolo Stato del Golfo, sia sciiti che sunniti, parteciparono alle dimostrazioni prevalentemente pacifiche. La risposta del regime non si fece attendere e il 14 marzo le proteste furono sedate grazie al supporto delle forze armate saudite ed emiratine, ufficialmente intervenute per sventare un presunto complotto sciita organizzato dall’Iran. Il monumento al centro di Piazza della Perla, nella capitale Manama, divenuto simbolo delle manifestazioni, venne demolito, riflettendo la volontà del regime di cancellare qualunque traccia delle rivendicazioni sollevate durante le proteste.
Represse le proteste, la monarchia incaricò la Commissione d’Inchiesta Indipendente del Bahrain (Bahrain Independent Commission of Inquiry – BICI) di fare luce su eventuali abusi e violazioni dei diritti umani da parte delle forze armate durante le manifestazioni.
Il rapporto della BICI, presentato pubblicamente il 23 novembre 2011, individuò le cause della morte di quarantasei civili: dodici uccisi da colpi di arma da fuoco sparati dalla polizia, cinque torturati a morte. La causa della maggior parte degli altri decessi venne ricondotta a inalazione di gas lacrimogeno e pestaggio da parte delle forze dell’ordine. Citando i dati forniti dal ministero dell’Interno, la Commissione riportò che, tra febbraio e marzo 2011, vennero effettuati 1.950 arresti, la maggior parte dei quali perpetrata di notte da militari a volto coperto. Queste operazioni di prelievo dei civili dalle loro abitazioni furono ricondotte alla polizia segreta, l’Agenzia di Sicurezza Nazionale (National Security Agency – NSA), che si occupa principalmente di intelligence interna e controspionaggio. Circa 1.300 degli arrestati avevano preso parte a manifestazioni o erano dichiaratamente dissidenti politici.
All’incarcerazione seguirono una serie di umiliazioni e torture atte a estorcere informazioni e confessioni; tra queste, il rapporto citò percosse, elettroshock, privazione del sonno e abusi sessuali. Inoltre, 1.253 persone persero il lavoro e trentotto studenti furono espulsi dall’università per aver partecipato alle proteste del febbraio e marzo 2011.
L’inverno delle libertà fondamentali
Inizialmente, Hamad al-Khalifa seguì le raccomandazioni della Commissione, sospese le pene capitali, ricostruì le moschee sciite demolite durante la repressione delle proteste e privò l’NSA del potere di arrestare i civili. Nel 2012, la monarchia annunciò inoltre l’intenzione di implementare alcune riforme in grado di limitare l’eccessivo potere del governo e di aprire un canale di dialogo con i gruppi di opposizione.
In realtà, lo schema del decennio precedente venne ripetuto e rinforzato. Le promesse democratiche e le raccomandazioni della Commissione non hanno portato a nulla di concreto e gli ultimi dieci anni hanno visto un deciso peggioramento della repressione politica e, più in generale, dei diritti umani. Freedom House ha classificato il Bahrain come “Paese non libero”, con un punteggio pari a 11 su 100. Oggi, nessun dissenso è tollerato e chiunque critichi il governo può essere imprigionato, esiliato o privato della cittadinanza. L’inasprimento della repressione del regime iniziò a manifestarsi soprattutto a partire dal 2016, quando al-Wefaq, principale partito di opposizione sciita, fu dichiarato illegale con l’accusa di sostegno al terrorismo.
Le poche decisioni liberali adottate da Hamad al-Khalifa sono state ritrattate nel 2017, considerato l’anno più sanguinario da quando il sovrano è salito sul trono. Nel mese di gennaio, il monarca ha infatti restituito alla NSA la piena autorità di colpire obiettivi civili, e il 23 marzo la polizia segreta si è resa artefice di una violenta operazione di repressione a Diraz (sulla costa nord-ovest del Paese) contro i partecipanti a un sit-in pacifico. I manifestanti stavano già da qualche mese esprimendo il loro dissenso per il trattamento riservato a Isa Qassim, importante leader religioso sciita, al quale era stata revocata la cittadinanza l’anno precedente, quando la NSA intervenne disperdendo i civili con lacrimogeni e armi da fuoco, ferendo decine di persone e uccidendone cinque.
Gli eventi di Diraz sono solo uno degli esempi più clamorosi della brutalità della NSA, e più in generale del regime bahreinita, contro la società civile. Un settore particolarmente colpito dalla repressione è stato quello dei media indipendenti. La classifica per il 2020 di Reporters Sans Frontières ha assegnato al Bahrain, su centottanta Paesi, il centosessantanovesimo posto e Hamad al-Khalifa è stato annoverato tra i “predatori della libertà di stampa”. La pubblicazione di al-Wasat, l’unico quotidiano non legato al regime, è stata sospesa nel 2017. Il giornale si trovava nel mirino del regime già dal 2011, anno in cui la NSA aveva torturato a morte il co-fondatore Karim Fakhrawi.
Ad oggi, le carceri bahreinite ospitano almeno undici giornalisti, accusati principalmente di diffusione di notizie false, vilipendio verso lo Stato o, addirittura, di aver sostenuto gruppi terroristici. Inoltre, a partire dal 2019, il controllo sulle pubblicazioni online e sui social network si è fatto sempre più serrato. Ricorrendo all’accusa di diffusione di informazioni false, il ministero dell’Informazione può perseguitare gli utenti che hanno pubblicato o condiviso contenuti anche solo velatamente critici verso il governo. Per esempio, lo scorso novembre, diciotto persone sono state incarcerate per aver commentato la morte del Primo ministro Khalifa bin Salman al-Khalifa.
Il 2017 ha anche segnato il ritorno dell’applicazione della condanna a morte, sospesa dopo le proteste. Tra il 1971, anno della fondazione del regno, e il 2011, il Bahrain era ricorso alla pena capitale nove volte. Secondo i dati riportati dal Bahrain Institute for Rights and Democracy (BIRD), a partire dal 2017 sono già state compiute sei esecuzioni e almeno altre ventisette persone si trovano nel braccio della morte, di cui dodici con l’accusa di attività terroristiche. Le ricerche effettuate dallo stesso istituto hanno svelato che le confessioni di circa metà dei condannati sono state estorte tramite tortura.
La cultura dell’impunità
Già nel 2011, il rapporto della BICI aveva individuato la presenza di una forte “cultura dell’impunità”, ovvero della diffusa e sistematica mancanza di persecuzione giudiziaria verso i membri delle forze armate responsabili di violazioni dei diritti umani. Il decennio appena trascorso ha confermato le denunce della Commissione. Dopo il 2011, solo un numero inconsistente di poliziotti di basso rango ha effettivamente ricevuto una punizione, che tuttavia non rispecchiava la gravità dei crimini compiuti. Tra gli “intoccabili” più noti vi è Nasser bin Hamad, capo della Guardia reale e figlio del monarca, che grazie alla propria posizione ha evitato qualsiasi ripercussione giudiziaria nonostante sia stato provato il suo coinvolgimento diretto in alcuni casi di tortura.
Il Bahrain che non cede
Nonostante la repressione e la brutalità del regime abbiano impedito l’organizzazione di proteste su larga scala, paragonabili a quelle del 2011, i bahreiniti hanno continuato a rivendicare i propri diritti. Al giorno d’oggi, i cittadini devono limitarsi a manifestazioni poco numerose e a livello locale, specialmente nelle zone abitate da sciiti. Lo scorso 14 febbraio, in occasione del decimo anniversario dell’inizio delle proteste alla Piazza della Perla, si sono svolte piccole dimostrazioni in tutto il Paese e, sui social media, avevano iniziato a circolare gli hashtag #ثبات_حتی_النصر_10 e #ثبات_حتى_النصر (“Saldi fino alla vittoria”). Le restrizioni legate alla pandemia di Covid-19 hanno impedito la partecipazione di un numero consistente di persone. Resta tuttavia significativo il fatto che un altro decennio di privazione delle libertà fondamentali e violazione dei diritti umani non abbia schiacciato completamente la volontà dei bahreiniti di ottenere un cambiamento.
Fonti e approfondimenti
Husain Abdulla, “Seven years on, Bahrain’s pro-democracy movement faces destruction“, Middle East Eye, 26/02/2018.
Aljazeera, Small protests mark 10th anniversary of Bahrain uprising, 14/02/2021.
Amnesty International, 2021, Bahrain: Dreams of reform crushed 10 years after uprising.
Bahrain Institute for Rights and Democracy, 2020, Human Rights “Continued to Deteriorate” in Bahrain in 2019, Finds BIRD Annual Report.
Bahrain Institute for Rights and Democracy, 2021, Bahrain Human Rights Report 2021.
Bahrain Independent Commission of Inquiry, 2011, Report of the Bahrain Independent Commission of Inquiry.
Gregg Carlstrom, “Little optimism over promised Bahrain reforms“, Aljazeera, 16/01/2012.
Human Rights Watch, 2020, Bahrain. Events of 2019.
Pellas, Marc. 2016. “La révolte étouffée de Bahreïn“. Manière de voir – Le Monde diplomatique. 147: 55-57.
Jodi Vittori, “Bahrain’s Fragility and Security Sector Procurement“, Carnegie Endowment, 26/02/2019.
Editing a cura di Niki Figus