L’economia rappresenta il pilastro dei programmi elettorali dei partiti politici. Nella congiuntura tra la pandemia, l’invasione russa in Ucraina e gli effetti delle sanzioni europee, la presenza del tema è ancor più costante e giornaliera nel dibattito politico. I programmi elettorali sono incentrati sulle “ricette economiche” proposte dai vari schieramenti per favorire la ripresa economica: qui abbiamo riassunto i principali punti programmatici dei vari gruppi politici. Dall’analisi dei programmi emergono con forza due temi destinati a essere determinanti nella scelta del 25 settembre, ma che avranno ricadute per i prossimi anni e terranno impegnati gli esecutivi a venire. Parliamo delle varie proposte di riforma del sistema fiscale – tematica eterna nel dibattito politico italiano – e del futuro del Piano nazionale di ripresa e resilienza, elemento determinante della programmazione economica italiana ed europea da qui al 2026.
Su questi due temi centrali ha risposto alle nostre domande Leonardo Becchetti, professore ordinario di economia politica all’Università di Roma Tor Vergata, dove dirige il corso di specializzazione in European Economics and Business Law e del Master MESCI di Development and International Cooperation. Ha conseguito il Master of Science, in Economics presso la London School of Economics e il Dottorato all’Università di Oxford e di Roma La Sapienza. Ha pubblicato circa quattrocento lavori tra articoli su riviste internazionali e nazionali, volumi, contributi a volumi, quaderni di ricerca ed è tra i primi 70 economisti del mondo come numero di pagine pubblicate su riviste internazionali.
La flat-tax è forse l’argomento principale di questa campagna elettorale, l’Italia ha una pressione fiscale molto elevata ed è necessaria una riforma del sistema fiscale (peraltro avviata nei mesi precedenti la caduta del governo Draghi). Nel mondo ci sono pochi Paesi con un regime fiscale simile, possiamo citare, da un lato, la Russia e alcuni Paesi dell’ex blocco sovietico e, dall’altro, alcuni paradisi fiscali (Jersey, Andorra, Belize o Hong Kong). Cosa dice l’evidenza economica sugli effetti che ha tale scelta politica in ambiti come spesa pubblica, crescita economica, evasione fiscale?
L’evidenza economica e le analisi empiriche sugli effetti della flat tax consentono di giungere a conclusioni univoche forse solo su un punto: separando l’effetto della riforma fiscale da tutti gli altri fattori concomitanti, si riscontra che la cosiddetta curva di Laffer non è osservata in nessuno dei casi. Per curva di Laffer intendiamo la famosa “U” rovesciata che sarebbe stata disegnata da Laffer su un tovagliolo a Ronald Reagan in una cena per spiegare la relazione non lineare tra aliquota fiscale e prelievo fiscale. In sostanza, quando l’aliquota è troppo alta i contribuenti si “difendono da soli” e aumenta il tasso di evasione. Dato un innalzamento delle aliquote, che crescono da livelli già troppo elevati, il prelievo fiscale diminuisce invece di aumentare (il tratto discendente della U rovesciata).
Ma il vero suggerimento di policy della curva di Laffer, secondo il suo ideatore, è la possibilità di “risalire all’indietro la curva”. Riducendo l’aliquota – quando si parte da livelli della stessa molto elevati – si riduce anche l’evasione (effetto estensivo positivo) generando entrate maggiori per l’erario e più che compensative dell’abbassamento d’aliquota (effetto intensivo negativo). Il risultato può in realtà essere determinato da una riduzione di evasori totali, ma anche (e più probabilmente) da una riduzione di evasori parziali (quindi un effetto intensivo positivo).
Un’altra componente che contribuirebbe a generare l’effetto positivo è la crescita del PIL determinata dall’incentivo ad aumentare l’attività economica per la riduzione del prelievo fiscale che aumenta di per sé le entrate fiscali.
La flat tax in questa prospettiva diventa lo strumento della politica economica, che paradossalmente riduce il prelievo sui redditi (generando un beneficio per i contribuenti), finendo per aumentare e non diminuire le entrate pubbliche (evitando cioè di produrre il temuto effetto negativo di una riduzione del finanziamento di beni pubblici essenziali come salute, istruzione in primis finanziati dalla spesa pubblica).
Tuttavia, i dati empirici di chi ha osservato gli effetti dell’introduzione di flat tax nel mondo indicano che l’effetto previsto dalla curva di Laffer non si verifica. Più in dettaglio, il contributo positivo alle entrate pubbliche determinato dalla riduzione dell’evasione è più che bilanciato in negativo dalla riduzione delle entrate dovuta all’abbassamento dell’aliquota.
Da notare che sulla flat tax esistono alcuni luoghi comuni. Non necessariamente si tratta di una tassa regressiva, in quanto la progressività/regressitività del regime fiscale dipende da come la stessa flat tax si combina con il regime di detrazioni/deduzioni in vigore e con il livello di reddito soglia scelto, a partire dal quale la flat tax si applica (ovvero dal livello di reddito soglia al di sotto del quale si è esenti da tasse o si può addirittura introdurre un’imposta negativa, ovvero una sorta di reddito di cittadinanza).
In genere, si osserva però che l’introduzione di una flat tax rispetto al precedente regime fiscale rappresenta generalmente, ma non sempre (dipende dall’aliquota flat prescelta rispetto alle aliquote esistenti precedentemente), una riduzione della progressività fiscale.
Va inoltre notato che nel nostro Paese, la flat tax di fatto già esiste per la progressione di redditi al di sopra dell’ultimo scaglione dell’Irpef e per i guadagni degli autonomi fino a 65mila euro di reddito annuo.
Quali sono, dunque, gli obiettivi della Flat tax?
Uno degli obiettivi della flat tax è, come accennato, l’aumento dell’offerta di lavoro e tramite di esso l’aumento della creazione di reddito che può contribuire ad avvicinare il risultato della crescita delle entrate fiscali ipotizzato da Laffer. In realtà, la letteratura economica spiega – già nei manuali di testo del primo anno – che di fronte a un aumento del valore delle ore lavorate (per la riduzione del prelievo fiscale sui salari lordi), esistono due effetti (sostituzione e reddito) che si compensano.
Da una parte, l’aumento del valore delle ore lavorate (e dunque del costo del tempo libero, ovvero della decisione di non lavorare) riduce la domanda di tempo libero e aumenta l’offerta di lavoro (effetto sostituzione). In questo caso, l’impatto sull’attività economica e sul reddito aggregato è positivo. Dall’altra parte, l’aumento del reddito netto generato dalle ore lavorate ci rende più ricchi a parità di orario di lavoro e possiamo decidere di usare parte di questa ricchezza per “comprare” più tempo libero ovvero per lavorare di meno.
L’evidenza empirica indica che molto spesso i due effetti si compensano e, dunque, l’effetto netto in termini di aumento di ore lavorate e di reddito aggregato creato in aggiunta è molto modesto o inesistente.
In genere, è il lavoro femminile che tende a reagire più positivamente, in quanto la decisione di lavorare o di lavorare di più è maggiormente sensibile al salario percepito.
Il motivo per il quale l’effetto reddito prevale, o è comunque molto forte, è che esistono “beni superiori” o beni considerati importanti per soddisfazione e senso di vita (da acquistare e godere nel tempo libero), che se siamo più ricchi possiamo permetterci e decidiamo di “acquistare” piuttosto che lavorare di più.
Per focalizzarsi sul contesto italiano: è una riforma sostenibile a livello di coperture? È compatibile con le caratteristiche della nostra economia?
Se è vero quanto concluso dalla letteratura empirica sull’eccessivo ottimismo dell’ipotesi derivata dalla curva di Laffer (in breve: la riduzione dell’aliquota attraverso l’introduzione della flat tax aumenta le entrate fiscali) allora l’introduzione della flat tax richiede di per sé una copertura in bilancio che compensi il maggior deficit generato. La quantità del deficit dipende ovviamente dall’entità della riduzione dell’aliquota. Lega e Fratelli d’Italia sono in realtà consapevoli del problema e di fatto le loro proposte sono molto più caute e difensive di quanto semplificato nella comunicazione.
Fratelli d’Italia propone una flat tax solo sui redditi addizionali rispetto all’anno precedente (“flat tax incrementale”), ovvero propone di premiare fiscalmente l’aumento dei redditi e dunque il maggiore contributo alla crescita. In questo modo, se l’impatto sul bilancio pubblico è minimo, molto ridotti sono anche i benefici per i contribuenti.
La Lega, invece, divide in realtà la flat tax in tre fasi. La prima fase prevede semplicemente l’estensione dell’attuale regime di flat tax, già in vigore per gli autonomi fino alla soglia di 100 mila euro rispetto alla soglia di 65 mila euro esistente, aggiungendo a essa la cosiddetta “flat tax incrementale” proposta anche da Fratelli d’Italia. La seconda fase, realizzabile in un tempo da definire, prevederebbe il passaggio alla tassazione dei redditi familiari con un’aliquota flat fino a una certa soglia per poi vedere una crescita lineare dell’aliquota sopra tale soglia. Di fatto saremmo di fronte a una riforma fiscale di carattere diverso che solo per motivi di comunicazione continuiamo a chiamare flat tax. In una terza ipotetica fase, indeterminata nei tempi di attuazione, il regime della flat tax sarebbe esteso a tutti i contribuenti.
Un dibattito più maturo sul tema fiscale dovrebbe forse evitare di agitare il mito della flat tax per discutere più realisticamente di aumento/riduzione della progressività fiscale e di maggiore capacità di tenere in conto i diversi profili di rischio dei contribuenti.
Da più parti emerge la volontà di “rimodulare” o “ripensare” il piano di investimenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), principalmente in ragione delle mutazioni nella congiuntura economica causate dalla guerra. Considerando il difficile percorso che ha portato alla sua adozione in sede UE, ciò sarebbe possibile?
Il PNRR rappresenta per il nostro Paese una frontiera nel rapporto con l’Unione europea e nei benefici che da tale rapporto possiamo trarne. Non è un caso che la quota di italiani scettici o favorevoli all’uscita dall’euro o dall’Unione europea sia significativamente calata dopo la sua adozione e in generale dopo la svolta dell’Unione europea in direzione di maggiore cooperazione post pandemia. Rappresenta una frontiera perché segna il passaggio da un approccio rigorista, fondato sull’idea del pareggio di bilancio o comunque su regole di rigore fiscali (il Fiscal Compact) cogenti nei confronti dei Paesi membri, a un approccio molto più orientato all’investimento.
La storia recente ha dimostrato che le regole rigoriste utilizzate fino a questa svolta e prima della pandemia si sono rivelate di fatto piuttosto elastiche e in grado di accomodare eccezioni e situazioni particolari, che comunque sono state negoziate con fatica dai Paesi a maggior deficit e presentano molti aspetti critici anche dal lato tecnico (ad esempio il cosiddetto “tasso naturale di disoccupazione” usato come benchmark per decidere la situazione congiunturale di un Paese e il conseguente sforzo di bilancio da realizzare). Con il PNRR si entra nel “migliore dei mondi possibili” per il nostro Paese, passando da un periodo pre-crisi fatto di scarsità di risorse pubbliche disponibili a un periodo post-pandemia dove il più grave crollo del PIL dopo la Seconda guerra mondiale corrisponde con la maggiore disponibilità di risorse per gli investimenti per il nostro Paese (in proporzione tenendo conto dei diversi costi della vita molto più del Piano Marshall). L’ulteriore elemento di vantaggio per il nostro Paese è che tali risorse non sono libere (dunque soggette facilmente a sprechi e corruzione), ma disponibili solo per il raggiungimento di obiettivi concordati, ovvero di investimenti e spesa buona da rendicontare rigorosamente e progressivamente. Come è noto gli obiettivi di fondo sono la transizione ecologica e digitale accompagnati da alcune riforme strutturali (burocrazia, giustizia) e da risorse destinate a importanti partite di welfare (salute, assistenza).
Gli obiettivi del PNRR si innestano nel quadro generale degli obiettivi dell’Unione europea di transizione ecologica e digitale e dunque una rinegoziazione strutturale da parte di un solo Paese non sarebbe possibile, né avrebbe senso vista la validità unanimemente riconosciuta di orizzonti e scenari.
La portata in termini finanziari del Piano e gli interventi strutturali che finanzia erano attesi da decenni per il “sistema Paese”, la congiuntura attuale rende davvero necessario un nuovo piano?
La situazione congiunturale odierna prevede alcune novità non previste al momento della definizione del Piano. Come è noto l’impennata dei prezzi delle fonti fossili ha riacceso l’inflazione perché l’aumento del costo dell’energia ha determinato un aumento dei costi di produzione in tutti i settori economici. Allo stesso tempo, la forte ripresa dell’attività economica, finite le restrizioni più severe post pandemia, ha aumentato i costi delle materie prime e anche i tempi delle consegne dei semilavorati.
Questa nuova congiuntura richiede tecnicamente di rivedere i costi degli interventi (lievitati nel frattempo per via della ripresa dell’inflazione), ma non una ridefinizione di carattere generale del Piano. Quanto sta succedendo spinge in realtà a un suo rafforzamento con ancora più decisione. Non è un caso che negli Stati Uniti, ad agosto, si sia varato un piano massiccio di incentivi (più di 700 miliardi di dollari) alla transizione di famiglie e imprese verso le fonti rinnovabili (incentivi ad autoproduzione di energia per le imprese e le famiglie, ad acquisto di pompe di calore, pannelli e auto elettriche per le famiglie) e che tale piano sia stato chiamato Inflation Reduction Act. Ciò significa che il governo statunitense ha compreso e ritenuto che questa situazione congiunturale di ripresa dell’inflazione sia diversa da quelle passate, dipendente quasi per intero dall’impennata dei prezzi delle fonti fossili e che dunque il modo migliore per domare l’inflazione sia accelerare la transizione ecologica ovvero ridurre la domanda di fonti fossili per portare a una riduzione dei loro prezzi.
Se tutto questo è vero lo shock congiunturale dell’esplosione dei prezzi del gas dovrebbe indurre a rafforzare l’impegno verso gli obiettivi del PNRR.
Editing a cura di Carolina Venco
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