Spiegami le elezioni: intervista a Riccardo Noury, Portavoce Amnesty International

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Riccardo Noury è portavoce e direttore dell’Ufficio Comunicazione della Sezione Italiana di Amnesty International, organizzazione di cui fa parte dal 1980. È autore, coautore o prefattore di numerosi testi in tema di violazioni dei diritti umani, in particolare sulla pena di morte e la tortura.

Secondo Amnesty International, in questo periodo così complesso c’è stato un arretramento sul lato dei diritti umani in Italia oppure le forze politiche sono riuscite a rispondere a quelle che erano le sfide in atto, garantendo forme di tutela adeguate a uno Stato democratico?

L’emergenza sanitaria, con ciò che ne è derivato, ha prodotto una fragilizzazione complessiva dei diritti: naturalmente si è trattato di una strage per il diritto alla salute, ma ha reso tutto il sistema dei diritti in questo Paese molto più debole.

Questo lo si deve anche a fenomeni che sono pre-pandemici, cioè l’affermazione di narrazioni divisive, velenose, come quelle che si basano sulla logica “prima noi, poi loro”, ovvero sull’idea che i diritti bisogna meritarseli e non sono innati, quindi dipendono da un giusto comportamento, e che non sono per tutti, quindi se aumenti i diritti a qualcuno li togli a qualcun altro. Ecco, queste narrazioni che si sono affermate già a partire dalla seconda metà dello scorso decennio e hanno prodotto paura, una costante sensazione di minaccia, hanno diviso la società in persone meritevoli di diritti e persone che non li meritano. 

La scorsa legislatura è stata complessivamente molto timida sul tema dei diritti, e nel dibattito pubblico si è permessa parallelamente l’affermazione di due aggettivi associati ai diritti umani, controverso e divisivo. Se ci fate caso, li abbiamo sentiti, congiunti o disgiunti, ogni volta che si è parlato di diritti umani in ambito parlamentare. Quindi siamo arrivati a queste elezioni con un quadro di fragilità, con il rischio che si torni indietro su alcune cose e questo ci ha spinto a rendere pubblico un appello, un manifesto di dieci punti e che si basa proprio su questa premessa: sui diritti non si torna indietro. Anzi, si faccia un passo avanti.

A proposito del manifesto, al primo punto si legge “libere di scegliere”. Secondo l’ultimo rapporto IPSOS, il 75% della popolazione italiana è a favore della legge 194, un dato in crescita rispetto agli anni scorsi (nel 2001 era poco più del 60%). Tuttavia, avete deciso di inserire questo punto in cima: l’ordine è casuale o ci dice qualcosa delle discriminazioni vissute dalle donne in Italia?

Il manifesto non è una classifica di priorità, altrimenti il decimo punto sarebbe quello meno importante e certamente non lo è, sono tutti sullo stesso piano. Però non c’è dubbio che da alcuni anni stiamo assistendo, in Europa e non solo, a un arretramento dei diritti delle donne, specialmente nella sfera sessuale e riproduttiva. E a questo aggiungiamo possibili onde lunghe derivanti dalla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, ma anche senza allontanarci troppo, possiamo vedere cosa sta accadendo in Paesi più vicini, dentro l’Unione europea, in primo luogo in Polonia.

Per quanto riguarda l’Italia ci sono tre elementi preoccupanti: il primo è che durante il lockdown sembrava di essere in un Paese diverso dall’Italia, in un tempo diverso dal XXI secolo, perché sono usciti a lavorare fondamentalmente degli uomini. C’è quindi un primo tema che riguarda le discriminazioni sul lavoro, la perdita del potere contrattuale da parte delle donne sul mercato del lavoro e la sacrificabilità della professione delle donne, ovvero di riportarle a un ruolo di focolare domestico. 

In secondo luogo abbiamo un problema che ormai è di sistema: quello della violenza contro le donne, del femminicidio. Questo si deve a mille ragioni, ma una di queste è la mancata completa applicazione della convenzione di Istanbul, che si basa sulle tre P, che riprese in italiano sono: protezione, prevenzione e punizione. In Italia si è messo sempre molto l’accento sulla punizione rispetto ai fatti che accadono, mentre come Amnesty crediamo che la protezione e la prevenzione siano le due P che mancano e che potrebbero arginare veramente, in maniera efficace, il fenomeno. 

La terza questione è sulla violenza sessuale, su cui abbiamo una legislazione antiquata. Uno degli obiettivi di Amnesty, all’interno di una campagna delle sezioni europee della nostra associazione, è di riformulare la normativa in tema di stupro, quindi modificare l’art. 609 bis del codice penale, come ha fatto la Spagna di recente, cioè con una legge che si basi sul principio del consenso. Perché già oggi la discriminazione e il pregiudizio che ci sono nei confronti delle donne, anche nelle aule di tribunale, sono forti; se non abbiamo neanche leggi  moderne, che possano contrastare in maniera efficace questo pregiudizio, non c’è scampo. 

Il contrasto alla misoginia era uno dei punti fermi di una proposta che Amnesty ha sostenuto, quella del deputato del Partito democratico, Alessandro Zan, e che tra l’altro, a proposito di temi che vengono associati a termini come “divisivo”, si colloca perfettamente in questo quadro. Il Ddl Zan è sufficiente o ci sono altri ambiti nei quali dobbiamo garantire maggiori diritti e tutele per la comunità Lgbtq+, che non sono ricompresi in questa proposta?

Quella proposta e quelle che immagino successivamente verranno presentate nella nuova legislatura, dovrebbero intanto porre argine a un’emergenza, cioè alla discriminazione, al discorso d’odio e agli atti di violenza che quotidianamente ormai colpiscono le persone appartenenti alla comunità, e quindi è importante fare un primo passo su questo. Dopodiché, il discorso della discriminazione è un pò più ampio, riguarda anche i diritti civili, il matrimonio egualitario e l’Italia è indietro su questo. Il Ddl Zan aveva individuato, andando ad ampliare le tutele e i gruppi da tutelare, quali sono i settori della società più vulnerabili: è un elenco abbastanza lungo, comprende anche le persone che subiscono discriminazione per via della loro condizione di disabilità. Quando ci siamo mobilitati in sostegno della proposta era importante intanto che venisse approvato il Ddl Zan così com’era, e continueremo a chiederlo in caso emergesse una normativa analoga. Per Amnesty quel testo rimane sempre valido, così come le sue necessità.

Passando proprio alla questione della disabilità, ci richiamiamo velocemente alla convenzione ONU che definisce la disabilità come “il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”. In Italia quali sono le barriere più importanti e più difficili con le quali questa comunità entra in relazione?

Senza andare troppo lontano, mi fermo un attimo sulla situazione in Ucraina, pensando a quanto cambierebbe se le persone che stanno assistendo con dolore a questa guerra facessero davvero attenzione alle difficoltà dei gruppi vulnerabili nell’evacuazione, nel cercare un luogo sicuro, quando le città di notte sono al buio perché viene tolta la corrente elettrica per evitare che poi le luci accese facciano da bersaglio per i bombardamenti russi. 

Questo significa che chi sta in un palazzo di quelli di costruzione sovietica, un grattacielo, rimane bloccato in casa per ore e ore perché l’ascensore non funziona. È una scena di guerra, ma la situazione specifica non è così distante rispetto all’Italia. Quindi quelle barriere, che ci sono, sono barriere fisiche, ma anche culturali in questo caso: anche quando vengono proposte soluzioni, sembrano quasi delle concessioni, secondo l’idea che si debba fare qualcosa perché abbiamo di fronte delle persone diverse, cui noi facciamo semplicemente il “favore” di abbassare il marciapiede, di avere l’autobus con la pedana. Questo dal nostro punto di vista è un deficit di cultura dei diritti umani. E stiamo parlando fondamentalmente di disabilità fisica. Poi c’è un altro filone: quello della disabilità mentale, che chiama in causa la non sufficiente attenzione del servizio sanitario, chiama in causa un buco nero enorme, che è quello dei TSO, qualcosa che nel nostro Paese è circondato da opacità, dalla mancanza di trasparenza, dall’abuso che produce morti: Andrea Soldi a Torino, Mauro Guerra in provincia di Torino, sono i primi due nomi che mi vengono in mente, ma sono molti di più. Al problema culturale, si aggiunge qui anche quello economico: a tutela salute fisica e mentale dovrebbero essere destinate davvero molte, molte risorse in più.

Nel rapporto di Amnesty sul barometro sull’odio, ci ha colpito molto il fatto che la questione della cittadinanza sia sostanzialmente oscurata all’interno dei contenuti che avete preso come oggetto di studio. Oggi però ci sono proposte di riforma che sono state inserite da alcune forze politiche nei rispettivi programmi: Amnesty cosa propone?

La forma più ampia possibile di Ius Soli. L’Italia è ferma da trent’anni in materia, senza che ci sia stato un solo passo avanti, ogni volta che qualcuno prende la parola se non si autocensura viene sottoposto ad attacchi che perdono di vista il punto. Il punto è quello dei diritti, non è quello dell’opportunità o del vantaggio politico: la cittadinanza la vediamo già oggi nei fatti, nelle scuole, negli incontri, nelle comitive, nei gruppi di amici che si formano, la vediamo in mille occasioni, ma non la vediamo sulla legge e forse quella della cittadinanza è la forma più grave nella quale si manifesta quella narrazione falsa in base alla quale se tu concedi i diritti a qualcuno li togli a qualcun altro, perché a chi li togliamo i diritti se diamo la cittadinanza? Li togliamo a qualche autoctono, a qualche nativo? No, facciamo solo un atto riparatorio, tuttavia questo spaventa molto.

Ritiene che ci sia una forma di proposta politica che segue il sostrato culturale all’interno dell’opinione pubblica? Per esempio a proposito dei codici identificativi per le forze di polizia, inesistenti nei programmi politici dei maggiori partiti. Crede che nella prossima legislatura ci possa essere un passo indietro?

Sulla questione dei codici identificativi non sono affatto ottimista, l’unica cosa che posso dire è che non si torna indietro perché non c’è mai stato un passo avanti, siamo alla casella zero. Sono ormai ventuno anni, da Genova, che si pone il tema, e lo si pone ogni volta che succede qualcosa. Abbiamo visto in più occasioni, da Genova in poi, quali sono le conseguenze del non avere delle leggi a posto: fino al 2017 non avevamo neppure la legge sulla tortura. E devo dire, nonostante sia stata scritta quasi per non essere applicata, considerato quanto è barocca, ampollosa, retorica, inutilmente piena di dettagli, alla fine viene applicata. Però, ad esempio, nei rinvii a giudizio per quello che è stato definito da uno degli indagati come “l’abbattimento dei vitelli”, ovvero la rappresaglia a Santa Maria Capua Vetere, si parla di tortura e c’è la legge. Ma è stato anche evidenziato che, nonostante ci fossero telecamere e tutto, alcune decine di partecipanti di quell’assalto non sono stati identificati. E perché? Perché non avevano i codici, e quindi il problema rimane. 

In tutti questi anni c’è stata una grande opposizione da parte dei sindacati di polizia, spalleggiati dai partiti di riferimento, che in alcuni casi hanno anche accolto tra le proprie fila quei funzionari dei sindacati che sono così entrati in Parlamento proprio grazie a quei partiti. Si è trattato quindi di un muro solido, basato sulle solite argomentazioni pretestuose, puntando sul fatto che si danneggia il lavoro della polizia, rischiando di avere forme di vendetta nei confronti degli agenti che vengono identificati in quel modo, che sono più o meno le stesse motivazioni addotte per trent’anni per non approvare la legge sulla tortura. Credo pertanto che prima di una riforma in questo senso passerà ancora del tempo. Del resto però quella dei decenni è sostanzialmente una regola: ci sono voluti trent’anni per una legge sulla tortura, sono trent’anni che non si fa un passo avanti sulla cittadinanza, sono più di vent’anni che non si fa un passo avanti sui codici. Noi insisteremo. Sono certo che saranno presentate nuove proposte di legge, purtroppo sono altrettanto certo che ci sarà ancora un muro a opporsi.

Quali iniziative e forme di mobilitazione sta organizzando Amnesty?

Come Amnesty stiamo facendo sostanzialmente due cose, intanto è partita l’ultima versione del barometro per misurare il discorso d’odio di un nutrito gruppo di candidate e candidati, i risultati li renderemo pubblici dopo il 25 settembre. Ora li stiamo raccogliendo per cui non ho ancora idea di come stiano andando le cose, prestando attenzione al dibattito mi limito a constatare che nella comunicazione elettorale in più occasioni mi sia capitato di vedere emergere in maniera molto pesante il tema del discorso d’odio. 

In secondo luogo, stiamo sottoponendo il manifesto in 10 punti, soprattutto tramite i nostri canali social, ai leader e alle leader per chiedere la loro adesione; l’abbiamo fatto prima in modo formale tramite lettera e ora in via più informale (chi va sul sito di Amnesty International Italia può prendere parte, cliccando può mandare un tweet pre-impostato che partirà dal suo account e arriverà al suo leader di riferimento). Vogliamo che altri soggetti che partecipano alle elezioni si aggiungano ai cinque che hanno aderito al manifesto, che sono i Radicali, +Europa, Sinistra Italiana, Europa verde, Unione popolare; abbiamo oggi 99 candidate e candidati che hanno aderito individualmente e siamo sicuri che il numero aumenterà.

 

Fonti e approfondimenti

Amnesty International Italia, “Elezioni politiche 2022: le nostre dieci richieste”, amnesty.it, 08/09/2022.

 

Editing a cura di Cecilia Coletti

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