Rom, sinti, resistenze e liberazioni

Remix con supporto AI © Daniela De Rentiis CC BY-SA 4.0

La Resistenza è stata un enorme processo di (ri)scrittura collettiva. 

Sarebbe una semplificazione sostenere che gli eventi successivi all’8 settembre 1943 abbiano visto movimenti diversi procedere nella stessa direzione per un identico fine. Non era proprio così, non era tutto qui. 

Se ogni 25 aprile celebriamo la Liberazione, lo dobbiamo a quei movimenti che hanno combattuto non per un futuro nuovo ma per futuri nuovi. 

Ripercorrere i loro passi ci serve per comprendere quello che è stato, ma la memoria in sé non è sufficiente. È la memoria per sé, quella che esige l’attivazione da parte delle comunità, che entra nella storia, e che ne determina  sviluppi ed esiti. 

Dissotterrare il ricordo è un primo passo necessario, mentre coltivare l’impegno un secondo non rimandabile. 

Sono tante le esperienze di Resistenza. Non tutte però risultano facilmente rintracciabili: tra quelle ancora nascoste, vi sono le storie rom e sinti. Pochi articoli ricordano il loro impegno nelle cause antifasciste, un numero limitato di libri lo raccontano, anche se negli ultimi anni si registra un interesse crescente sul tema. 

Perché parlarne? Le ragioni sono molteplici: favorire la conoscenza e riconoscere il contributo indispensabile dei rom e dei sinti a tale processo storico sono le principali. Ma una terza è altrettanto importante.  

Rom e sinti sono partiti per le montagne, si sono uniti ai partigiani o ciriklé (uccelli, passeri) contro “quelli dei manganelli” o kashtengere. Hanno imbracciato le armi, e sono stati uccisi, al pari degli altri.

Le memorie della guerra civile che ha insanguinato l’Italia ci deve spingere anche a riflettere sul nostro rapporto con l’alterità. 

Nel continente europeo, le politiche di odio volte alla repressione e soppressione di queste comunità risalgono molto indietro nel tempo, fino alle origini del processo di trasformazione capitalistica della società moderna. 

Il Porrajmos, espressione che indica il “divoramento” di almeno mezzo milione di rom (alcune stime arrivano a contarne un milione e mezzo), consumatosi a causa della politica di morte nazifascista, è stato preceduto da numerosi tentativi di pulizia etnica. 

Di fronte a questi ultimi, così come nel caso del Porrajmos, la popolazione romanì ha dovuto elaborare specifiche strategie di resistenza per opporsi alle persecuzioni delle società maggioritarie. 

Santino Spinelli parla a questo proposito di popolo-resistenza, mentre Di Noia osserva come, in un rapporto conflittuale con il mondo esterno, rom e sinti siano diventati un popolo sottoproletario: escluso dal centro delle attività economiche e marginalizzato nelle periferie della società, in un inequivocabile altrove. 

Il girovagare perenne, stereotipo che viene ancora oggi ricondotto alla libera scelta di non integrazione di queste popolazioni, è invece da sempre un elemento strategico. Nella sostanza, un modo per non rendersi un bersaglio fisso: un metodo per sopravvivere. 

L’11 settembre del 1940 il ministero degli Interni inoltrava a tutte le prefetture del Regno d’Italia e al Questore di Roma la Circolare n. 63462. Venivano predisposti anche per rom e sinti italiani i campi di internamento, destinati a chiunque venisse riconosciuto come “zingaro”, al di là della propria cittadinanza.

Per coloro che sono riusciti a scappare e salvarsi dai rastrellamenti fascisti, anche la scelta della lotta ha fatto parte di una strategia più ampia, proprio come la “fuga”. Una strategia individuale e comunitaria, non unica e nemmeno univoca, che dimostrava spesso un forte grado di maturazione politica.

È il caso dei Leoni di Breda Solini, formazione partigiana di sinti italiani scappati dal campo di Prignano sul Secchia – in provincia di Modena -, attiva tra Breda Solini e Rivarolo Mantovano, il cui soprannome è dovuto al coraggio con cui il battaglione disarmò e catturò una pattuglia nazista. 

Ma le esperienze resistenti e i sacrifici delle popolazioni romanì si intrecciano anche agli sviluppi politici della guerra. 

Ne è un esempio la storia dei martiri di Vicenza, dieci partigiani, tra i quali quattro sinti, fucilati vicino al Ponte dei Marmi l’11 novembre 1944. 

Incontratisi soltanto due mesi prima nel territorio padovano, i quattro entrarono a far parte della “Damiano Chiesa”, una formazione militare che combatteva i nazifascisti tra i fiumi Brenta e Tesina. 

Sulla nascita della brigata pesavano i ragionamenti della componente cattolica veneta, che si riunì per lottare pensando anche di ottenere una posizione di forza, rispetto alle altre correnti politiche, nel periodo post-Liberazione e di formazione Costituzionale. 

La partecipazione di rom e sinti alla Resistenza si inserì, ovunque, in strategie diverse, mescolandosi a queste non solo in Italia ma in tutta Europa: fu un fenomeno di natura e portata a un tempo locale, nazionale, internazionale

Uomini e donne hanno combattuto, come sottolinea Angelo Arlati, per rispondere allo sterminio razziale, come alternativa alla cattura, per spirito patriottico, in nome degli ideali di libertà e giustizia. Per una di queste cause, come per tutte insieme. 

È lettura diffusa che una delle principali ragioni dietro il lungo silenzio storiografico sia l’assenza normalizzata, ovvero quell’atteggiamento tramite il quale società maggioritarie escludono dal campo del visibile pensieri e azioni di minoranze considerate asociali, al fine di rafforzare uno status quo iniquo.  

“Eterni randagi privi di senso morale”. Questo denunciava la rivista Difesa della razza, nel 1939, definendo le popolazioni romanì. Fuori dal tempo, nello spazio sbagliato, lontani da ogni logica. 

Si è detto come la persecuzione abbia profonde radici nella storia italiana ed europea: del resto, la produzione e riproduzione di scarti e scartati da parte delle autorità è un asse portante della storia. Anche di quella moderna, anche di quella recente.

Viviamo il nostro rapporto con l’alterità a ondate stantie. 

Le sfide per le istituzioni statuali aumentano, così come i limiti. La società vede crescere le crisi che la attraversano, la politica le impotenze che la disarcionano. 

L’alterità diviene strumento di consenso negativo. Pensiamo a quante persone e comunità vengono definite, ancora oggi, nei termini del randagismo morale. Rom e sinti, sicuramente sì.

Per questo motivo corriamo il pericolo di assuefarci all’assenza, sia di dibattiti che di confronti. 

I racconti della Resistenza di rom e sinti illuminano la via, ci muovono a una messa in discussione personale. Quali strategie, nostre, entrano nel più vasto orizzonte della storia collettiva? Quali tattiche siamo disposti a calare nella prassi in vista di una o più nuove liberazioni? 

Patologizzare la presenza è l’altra faccia della normalizzazione degli assenti. Non è raro che rom e sinti siano riportati al centro dell’attenzione per un comportamento declinato in termini patologici, e spesso solo per quello. 

Proviamo allora a rovesciare la chiave di lettura e assumiamo gli occhi dei nostri altri. Solo così possiamo risalire alle origini della “patologia”, che assume le forme, queste sì inquietanti, dell’ingiustizia climatica, economica e sociale (includendo generi, orientamenti, etnie e status). 

Organizzarsi per agire in questa direzione, oggi, è la più nobile forma di memoria per sé. Di (ri)scrittura, di resistenze.

 

 

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