Violenza politica in Giappone: un problema attuale

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Sabato 15 aprile 2023, 12.30 ora locale. Il Primo ministro Kishida Fumio a Wakayama, nel Kansai (zona sud-occidentale del Giappone), presso il porto cittadino, per intervenire al comizio elettorale del candidato del Partito liberal-democratico Kado Hirofumi. Improvvisamente, un uomo sui 24 anni – Kimura Ryūji – lancia un ordigno rudimentale verso Kishida, che riesce a uscire illeso dall’attacco. 

A pochi mesi dall’assassinio dell’ex Primo ministro Abe Shinzo, l’evento ha scioccato l’opinione pubblica domestica e internazionale, che considera il Giappone uno dei Paesi più sicuri del mondo, data la scarsa diffusione di armi da fuoco nella popolazione civile (0.3 armi ogni 100 persone, a differenza degli Stati Uniti, dove sono 120.5) e la rarità delle sparatorie. 

Pre-1945: uno Stato violento

Kishida non è il primo leader giapponese vittima di un attentato, così come Abe non è stato il primo a essere assassinato. 

Negli ultimi 160 anni, la sorta di Abe è toccata a ben 9 Primi ministri, o a figure di rango equivalente. Anche se spesso oscurata da un’immagine tanto mitica quanto rassicurante di un Giappone kawaii (letteralmente, carino), ordinato, con i ciliegi in fiore, la violenza è un tratto caratteristico della storia politica giapponese, sia a livello statale sia come mezzo di rivendicazione politica. 

Torniamo indietro al 1603, l’inizio dello shogunato Tokugawa. Conosciuto anche come periodo Edo – l’antico nome della capitale Tokyo – lo shogunato Tokugawa pose fine al periodo degli “stati combattenti” (sengoku), oltre cento anni di lotte intestine tra signori feudali. Gli shogun Tokugawa (governanti militari) tolsero potere all’imperatore, instaurando un sistema feudale e una politica autarchica e di chiusura quasi completa vengo il mondo esterno, conosciuta come sakoku (letteralmente, Paese chiuso). 

Per circa duecento anni questa politica proseguì indisturbata, ma l’arrivo delle “navi nere” del Commodoro Matthew C. Perry nel 1853 costrinse il Giappone ad aprirsi al commercio con gli Stati Uniti. Il periodo del governo militare terminò, anche a causa di disordini interni. 

La restaurazione del potere imperiale (restaurazione Meiji) viene spesso definita una transizione di potere pacifica: il nuovo imperatore Meiji dichiarò la fine dell’ordine militare a gennaio 1868 e l’ultimo shogun Tokugawa si arrese nell’aprile dello stesso anno. 

Sicuramente meno sanguinolenta rispetto a eventi come la Rivoluzione francese, la restaurazione Meiji rappresenta comunque un momento di rottura violenta nella storia politica giapponese. La guerra civile tra i sostenitori del potere militare e quelli del potere imperiale proseguì per oltre un anno, costando la vita a migliaia di persone. 

Guidato dallo slogan fukoku kyohei (Paese ricco, esercito forte), il Giappone dei primi anni del Novecento divenne una potenza industrializzata e militarmente forte seguendo il modello Occidenale. Ma non fu soltanto in questo senso che il Giappone imitò l’Occidente: negli anni Trenta colonizzò la penisola coreana e occupò la Manciuria, rendendosi responsabile di terribili crimini come il massacro di Nanchino del 1937

E’ forse superfluo menzionare quanto il Giappone fu violento negli anni del conflitto, ma è importante ricordare lo sfruttamento delle “comfort women” (o meglio, schiave sessuali) coreane. 

Gli anni dell’imperialismo e del militarismo rappresentano una delle pagine più buie e violente della storia del Paese. Tuttavia, per motivi di stabilità e ordine, le forze alleate – guidate dagli Stati Uniti – alla fine della guerra decisero di non affrontare davvero il problema: il tribunale di Tokyo non destituì l’imperatore Hirohito e non condannò per crimini di guerra alcun membro della famiglia imperiale. La figura imperiale venne mantenuta e soltanto privata della propria natura divina tramite l’introduzione di una nuova costituzione nel 1947. 

Questa scelta ha sicuramente contribuito al negazionismo dei crimini commessi dal Giappone durante la Seconda guerra mondiale che contraddistingue numerose frange più a destra del Partito liberal-democratico giapponese. In Occidente, la violenza di questo periodo storico passa spesso in secondo piano, anche grazie al ruolo di alleato principale degli Stati Uniti nell’Asia-Pacifico, alla posizione all’interno del G7 e ai rapporti con l’Unione Europea. 

Violenza e rivendicazioni politiche

Nel 1918, la popolazione giapponese diede vita a una delle mobilitazioni più grandi e violente contro la classe dirigente. 

Le proteste furono generate da un rapido aumento del prezzo del riso – che colpì in particolare le aree più rurali – combinato con l’inflazione del primo dopoguerra, che portò a un aumento generale dei prezzi dei beni di consumo anche nelle zone urbane. Quasi due milioni di persone presero parte a quelli che sarebbero passati alla storia come “moti del riso” (kome sodo), marciando e attaccando fisicamente i simboli dello Stato, come edifici pubblici e stazioni di polizia. Migliaia di partecipanti furono arrestati e alcuni furono addirittura condannati alla pena di morte.  

Tra il 1959 e il 1960, la popolazione in massa scese nuovamente in piazza, questa volta per protestare contro il rinnovo del Trattato di mutua sicurezza con gli Stati Uniti (anpo). 

Furono studenti e studentesse della cosiddetta “New Left” (Nuova sinistra) a iniziare le “Lotte Anpo”, chiedendo che Tokyo assumesse una posizione più neutrale nella guerra fredda e diminuisse la sua dipendenza da Washington. Tra le azioni più dimostrative ci fu l’occupazione simbolica della Dieta giapponese – l’equivalente del Parlamento italiano – a cui la polizia risposa in maniera estremamente violenta. La macchina su cui il Portavoce dell’allora Presidente Eisenhower James Haggerty stava lasciando l’aeroporto di Haneda venne caricata dalla folla e il funzionario, assieme all’allora ambasciatore Douglas MacArthur II dovette essere salvato dai marines dell’esercito statunitense. Le proteste ebbero un successo piuttosto limitato: anche se portarono alle dimissioni del Primo ministro Kishi, il Trattato venne comunque rinnovato.

Alle “Lotte Anpo” seguì una nuova e contrapposta ondata di attivisimo di destra, in cui la violenza assunse una connotazione estetica e spettacolarizzata. 

Nel 1960, l’allora leader del Partito socialista Inejiro Asanuma venne assassinato in diretta televisiva, trafitto con una wakizashi, spada usata dai samurai. Dieci anni dopo, lo scrittore Mishima Yukio si tolse la vita tramite seppuku, una pratica di suicidio rituale – più nota come harakiri – adottata dai samurai caduti in disonore. 

La rivendicazione di Mishima coinvolse un nuovo simbolo dello Stato: il potere militare. Mishima era capo di una milizia privata chiamata Tatenokai, composta da studenti di (estrema) destra che avevano l’obiettivo di proteggere l’imperatore e di restaurare l’antico spirito nazionale del Giappone (kokutai). 

Il 25 novembre 1970, Mishima e quattro membri di Tatenokai si introdussero all’interno del quartier generale delle Forze di autodifesa (SDF), nel centro di Tokyo. Dal terrazzo dell’edificio, Mishima tentò di esortare le SDF – esercito giapponese de facto – a compiere un colpo di stato, restaurando il potere imperiale. Il golpe fallì in maniera disastrosa. Le SDF reagirono facendo alzare in volo gli elicotteri per coprire la voce di Mishima e impedirgli di parlare. Il suicidio dello scrittore diede ulteriore linfa alla formazione di nuovi movimenti di estrema destra

Motivazioni e conseguenze

Rivendicazioni di stampo ultra-nazionalista possono essere rintracciate dietro agli omicidi di leader negli anni Venti o Trenta. Ad esempio, il primo capo del governo giapponese, Hara Takashi, conosciuto come Hara Kei, venne pugnalato da Nakaoka Konichi, che si opponeva all’introduzione del suffragio universale. Negli ultimi anni, il sentimento sembra invece essere cambiato

Secondo quanto emerso dalle indagini, Yamagami Tetsuya avrebbe colpito Abe per i suoi legami con la Chiesa dell’Unificazione, un nuovo movimento religioso sudcoreano fondato dal reverendo Moon negli anni Cinquanta. L’omicidio di Abe ha aperto un “vaso di Pandora”: sono emersi numerosi legami di vari membri del Partito Liberal-Democratico con la Chiesa dell’Unificazione, che hanno costretto il Primo ministro Kishida a un rimpasto di governo nell’agosto del 2022

La popolazione giapponese è molto ostile alla commistione tra religione e politica e alle sette religiose: il Paese non ha dimenticato l’attacco alla metropolitana di Tokyo, tramite gas nervino sarin, da parte dei membri della setta Aum Shinrikyo nel 1995, che uccise 14 persone, ferendone oltre seimila. L’attacco scosse le fondamenta della società e venne utilizzato dal governo giapponese per ampliare il ruolo delle Forze di autodifesa nella gestioni delle crisi domestiche.

Le ragioni dietro l’attentato a Kishida sembrano invece riguardare il malcontento di Kimura Ryuji nei confronti della legge elettorale e dello stato della democrazia giapponese, che impedirebbe ai giovani di fare politica attiva. Avvenuto a pochi giorni dall’incontro dei ministri degli Esteri del G7 a Nagano, e con il summit tra capi di Stato e di Governo del G7 a Hiroshima in programma per maggio, esso solleva un alone di incertezza sul futuro 

Come insegna il 1995, è importante non dimenticare che la protesta politica può essere utilizzata anche per adottare maglie più stringenti, non solo per prevenire la violenza ma per reprimere il dissenso. In qualsiasi forma esso si manifesti

 

Fonti e approfondimenti

Gatti, Rosa e Caroli, Francesco. 2008. Storia del Giappone. Roma, Bari: Laterza.

Leheny, David. 2006. Think Global, Fear Local. Sex, Violence, and Anxiety in Contemporary Japan. Ithaca, New York: Cornell University Press.  

Schieder, Chelsea Szendi. 2021. Coed Revolution – The Female Student in the Japanese New Left. USA: Duke University Press.

Siniawer, Eiko Maruko. 2011. Ruffians, Yakuza, Nationalists: The Violent Politics of Modern Japan, 1860-1960. Ithaca & London: Cornell University Press.

Skabelund, Aaron. 2022. Inglorious, Illegal Bastards. Japan’s Self-Defense Forces during the Cold War. Ithaca: Cornell University Press.

 

Editing a cura di Elena Noventa

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