A partire dall’8 gennaio 1992, ogni mercoledì diverse donne coreane si radunano di fronte all’Ambasciata giapponese a Seoul in segno di protesta. Tra di esse spiccano donne molto anziane che, nonostante l’età, continuano da decenni a domandare al governo di Tokyo il riconoscimento e le scuse ufficiali per quanto successo loro più di 80 anni fa. Sono le comfort women: vittime di uno dei più efferati crimini di prostituzione forzata e tratta di esseri umani del XX secolo, di cui si macchiò il Giappone imperiale tra gli anni ’30 e ’40.
Se negli articoli precedenti ci siamo occupati delle Femen in Ucraina e delle Pussy Riot in Russia, con questo articolo iniziamo ad addentrarci nei movimenti femministi dell’Estremo Oriente.
Tratteremo del movimento che si è sviluppato intorno alle comfort women in Corea del Sud – un Paese dove la memoria di un grande trauma storico si interseca con la questione di genere e la lotta per i diritti delle donne.
La storia delle comfort women
Il termine comfort women (letteralmente “donne di conforto”) è un eufemismo utilizzato per indicare quelle donne sfruttate come schiave sessuali dalle forze imperiali giapponesi nel corso del secondo conflitto mondiale e negli anni direttamente precedenti alla guerra. Secondo diversi studi, tra le 70.000 e le 200.000 donne, per la maggior parte coreane (ma anche cinesi e filippine), vennero forzatamente assoldate per servire come prostitute nelle cosiddette comfort station – dei veri e propri bordelli istituiti nel 1932 dal governo di Tokyo per “mantenere alto il morale” delle forze d’invasione giapponesi.
La sistematica tratta di queste donne, nell’ottica del governo di Tokyo, aveva come obiettivo anche quello di evitare il diffondersi di malattie veneree tra le proprie forze. Le comfort women venivano così spesso sottoposte ad analisi per l’identificazione di malattie sessualmente trasmissibili, e reclutate molto giovani (a 14 anni in alcuni casi) poiché reputate vergini e quindi automaticamente prive di malattie.
Tale cruda realtà si verificò in tutti i territori occupati dall’Impero del Sol Levante (come Cina, Corea, Myanmar, Filippine, e Indonesia). Le donne coreane reclutate erano spesso provenienti da famiglie povere, ingannate con la promessa di un lavoro; altre volte venivano semplicemente rapite, o assoldate dietro minaccia. Le comfort women vissero per anni in condizioni disumane e spesso venivano malmenate dai soldati giapponesi. Secondo alcune testimonianze, potevano essere costrette ad avere rapporti sessuali con più di 50 soldati al giorno.
Nel 1937, in seguito al massacro di Nanchino in Cina – dove si stima che oltre 200.000 civili siano stati assassinati, e centinaia di donne stuprate, dalle forze d’invasione nipponiche – il governo di Tokyo ordinò un maggior dispiegamento delle comfort station, al fine di evitare che la reputazione dell’esercito giapponese venisse danneggiata ulteriormente da altri episodi di violenza incontrollata. Così, la tratta delle comfort women coreane si intensificò, perdurando fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale nel 1945.
La ricerca della verità e la nascita dei movimenti delle comfort women
Col finire della guerra e la liberazione dei territori occupati, scomparirono gradualmente anche le comfort station, ma tale crimine di guerra rimase avvolto nel silenzio per diversi decenni. Di fatto, numerose comfort women vennero eliminate durante l’ultima fase del conflitto, e le prove della loro tratta furono distrutte dalle autorità giapponesi, le quali negarono ogni responsabilità. Inoltre, molte donne vennero semplicemente abbandonate al loro destino nelle comfort station dove erano state costrette a lavorare e, in mancanza di risorse pecuniarie, non riuscirono a fare ritorno alle proprie case in Corea.
La difficile reperibilità della documentazione relativa a questo crimine non costituisce l’unica motivazione del lungo silenzio sulla storia delle comfort women. Diversi fattori culturali legati alla società patriarcale coreana hanno giocato un ruolo importante. Come spiegato dalla studiosa Chunghee Sarah Soh, le donne che perdevano la loro verginità prima del matrimonio venivano tradizionalmente considerate impure e disonorate, non importava quali fossero le circostanze della loro mancata castità. Per questo motivo, in alcuni casi, le comfort women ritornate a casa sono state ripudiate dalle loro stesse famiglie e, per molte di loro, parlare in pubblico delle violenze subite è stato a lungo reso impossibile dallo stigma sociale. Alcune sopravvissute sono arrivate al suicidio, a causa del senso di vergogna imposto dalla società.
Tuttavia, nonostante questi ostacoli di natura socio-culturale, diverse reduci delle comfort station poco a poco hanno iniziato a organizzarsi in piccoli gruppi femministi indipendenti. Nel 1990, una dozzina di queste organizzazioni diede vita al Korean Council for the Women Drafted for Military Sexual Slavery (ossia, il consiglio coreano per le donne ridotte in schiavitù sessuale per i militari). Le richieste di questa organizzazione di donne sono semplici: il riconoscimento da parte di Tokyo dei crimini perpetrati, delle scuse ufficiali, un memoriale e l’inserimento della vicenda nei libri di storia giapponesi.
Nel 1991, Kim Hak-sun fu la prima donna coreana a parlare in pubblico della sua esperienza come comfort woman per i soldati giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale. Nello stesso anno, un gruppo di superstiti – fra cui la stessa Kim Hak-sun – intentò causa contro il Giappone, domandando una compensazione pecuniaria e delle scuse ufficiali. Fecero seguito altre cause nel 1993. A partire dal gennaio del 1992, diverse manifestanti iniziarono a radunarsi ogni mercoledì di fronte all’Ambasciata giapponese a Seoul per chiedere giustizia: una protesta settimanale che tutt’oggi va avanti.
A mobilitare ulteriormente l’opinione pubblica, si aggiunsero gli studi dello storico giapponese Yoshimi Yoshiaki, il quale rese pubblici dei documenti ritrovati negli archivi delle Forze di autodifesa giapponesi (ossia l’insieme delle forze armate nipponiche), rivelando il coinvolgimento del governo imperiale nel sistema delle comfort station.
Nel 1996, anche un report delle Nazioni Unite ha condannato il Giappone per aver forzato migliaia di donne coreane a prostituirsi, invocando le scuse ufficiali di Tokyo e una compensazione pecuniaria per le vittime, e chiedendo di fare chiarezza su questo oscuro capitolo della storia giapponese.
Il rifiuto del Giappone di riconoscere la questione
Sebbene tale violazione dei diritti umani da parte del Giappone sia stata ufficialmente condannata dalle Nazioni Unite e dalla società civile, un reale riconoscimento da parte di Tokyo della propria responsabilità non è ancora avvenuto. Di fatto, la vicenda rimane una ferita aperta nelle relazioni tra Giappone e Corea.
Un piccolo passo avanti sembrava essere stato fatto nel 1995, con l’istituzione da parte del governo giapponese di un fondo di compensazione per le donne vittime di violenza sessuale negli anni del secondo conflitto mondiale. Tuttavia, tale fondo ha finito col dipendere esclusivamente da donazioni private, poiché nessun versamento è mai arrivato da parte di Tokyo che, di fatto, ha continuato a negare il coinvolgimento delle autorità nipponiche nei crimini in questione e a considerare le comfort station come il risultato di iniziative private. Per questo motivo il fondo è stato chiuso nel 2007.
Un secondo tentativo è stato intrapreso nel 2015 dal governo di Shinzo Abe, questa volta con un fondo pubblico di 8.3 milioni di dollari, creato per compensare le donne sopravvissute. Ancora una volta, però, si è mancato di specificare il coinvolgimento diretto del Giappone nel traffico di esseri umani e nella forzata prostituzione delle donne coreane. Spinto anche dalle proteste dei movimenti femministi, il capo del governo coreano Moon Jae-in ha deciso nuovamente di chiudere il fondo.
Le comfort women e le nuove generazioni
Ad oggi, le comfort women rimaste in vita sono poco più di una trentina, ma il movimento femminista avviato dalle loro storie sopravviverà anche alla loro morte. Sono sempre di più, infatti, le giovani coreane che si uniscono alle manifestazioni settimanali di fronte all’Ambasciata giapponese a Seoul, mentre numerosi atti di protesta e campagne online hanno saputo attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla tematica.
Nel 2017, ad esempio, l’artista coreana Jin Joo Chae ha installato diversi monumenti commemorativi delle comfort women all’interno degli autobus della compagnia Dong-A Transit di Seoul. Queste installazioni artistiche hanno immediatamente risvegliato il supporto e l’interesse dei cittadini coreani che, condividendo le proprie foto online, hanno contribuito a rendere la campagna virale.
Sempre nel 2017, è stata lanciata una cyber-manifestazione su Facebook e Instagram dal titolo Uncomfort Women, che consentiva agli utenti di applicare digitalmente la foto del proprio viso su quello della piccola statua di bronzo posta di fronte all’Ambasciata giapponese a Seoul in commemorazione delle comfort women. La campagna è riuscita a coinvolgere un gran numero di persone, anche al di fuori dei confini nazionali, e a mobilitare masse di millennials online.
Un trauma intergenerazionale
Per le nuove generazioni, il riconoscimento da parte del Giappone dei crimini perpetrati tra gli anni ’30 e ’40 del secolo scorso va al di là della mera vicenda storica. La mancata risoluzione della faccenda rappresenta un danno psicologico collettivo per tutte le donne coreane.
La Corea del Sud, di fatto, rimane ancora una società fortemente patriarcale, in cui lo stigma sociale e il sentimento di vergogna associato allo stupro rappresenta un consistente ostacolo che impedisce alle vittime di riportare tale crimine alla polizia. Nel 2016, un report del Global Economic Forum sul divario di genere posizionava la Corea del Sud al 116° posto su 144 Paesi. Tale contesto rende la vicenda delle comfort women una questione fondamentale per tutte le donne del Paese: giungere a un risarcimento e a delle scuse ufficiali da parte del Giappone sarebbe una grande conquista per i movimenti femministi in Corea del Sud.
Fonti e approfondimenti
Chunghee Sarah So, The Korean “Comfort Women”: Movement for Redress, Asian Survey
Josh Smith, Haejin Choi, South Korea’s surviving ‘comfort women’ spend final years seeking atonement from Japan, Reuters
Flora Drury, Obituary: Kim Bok-dong, the South Korean ‘comfort woman’, BBC
Hiroka Shoji, Why the ‘Comfort Women’ Issue Still Matters, 70 Years Later, The Diplomat
Joseph Yi, The Korea-Japan ‘Comfort Women’ Failure: A Question of History, The Diplomat
Sofia Lotto Persio, World War II Mass Grave of ‘Comfort Women’ Documented in Graphic Video Was Discovered in the U.S., Newsweek
Grace Banks, South Korea: New generation joins ‘comfort women’ fight, Aljazeera
Adam Bemma, South Korea: World’s longest protest over comfort women, Aljazeera