Negli ultimi anni lo spazio post-sovietico ha visto emergere due gruppi femministi che in breve tempo hanno raggiunto una visibilità a livello globale senza precedenti per la regione. Entrambi questi gruppi si sono appropriati di un linguaggio molto esplicito e dell’immaginario sessuale per portare avanti la protesta contro i regimi nei rispettivi Paesi: si tratta delle Pussy Riot in Russia e delle Femen in Ucraina.
Le Femen si sono presentate come un’avanguardia di attiviste “sextremiste” che manifestano a seno scoperto, finendo al centro di un dibattito transnazionale sulla mobilitazione del corpo femminile come strumento di dissenso politico.
L’Ucraina non è un bordello
Come la maggior parte dei Paesi europei, l’Ucraina uscì dalla Seconda Guerra Mondiale con un’economia estremamente danneggiata. Una situazione che peggiorò ulteriormente dopo la dissoluzione dell’URSS: tra 1991 e 1999, l’iperinflazione flagellò il Paese, riducendo il suo PIL del 50%. A causa di questa profonda crisi economica, ampie fasce della popolazione furono ridotte in estrema povertà. Per sopravvivere, quindi, molte donne ucraine hanno imboccato la via della prostituzione, dentro e fuori dall’Ucraina.
Anche se dai primi anni Duemila l’economia si è relativamente stabilizzata, per molte donne il lavoro sessuale rimane l’unico mezzo di sostentamento – lavoro che si intreccia spesso alla questione della tratta di esseri umani. Secondo un report dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), tra 1991 e 2017 le vittime ucraine di tratta sono state più di 230mila.
Inoltre, numerosi turisti occidentali hanno iniziato a visitare l’Ucraina in cerca di prestazioni sessuali o, a volte, di una moglie. Molte donne sono disposte a sposare uno straniero conosciuto su Internet, o tramite un’agenzia, pur di lasciare il Paese.
Questo lo scenario in cui, nel 2008, le sorelle Inna e Sasha Shevchenko, Anna Hutsol, e Oksana Shachko hanno deciso di fondare a Kiev il gruppo Femen, che rivendica un’immagine dell’Ucraina come “un Paese dove le ragazze nude protestano, non vendono i loro corpi”. Nel loro manifesto, sostengono che il loro obiettivo principale è “la vittoria sul patriarcato” e, quindi, su quelle che considerano le sue tre manifestazioni principali: “l’industria del sesso, la religione e la dittatura”.
Le azioni di protesta delle Femen finora hanno spaziato fra una vasta gamma di questioni politiche fondamentali dell’area post-sovietica: dallo sfruttamento sessuale delle donne ucraine, fino all’ingerenza della Chiesa Ortodossa, alle mire espansionistiche russe e ai regimi di Viktor Yanukovich in Ucraina, di Vladimir Putin in Russia e Aleksandr Lukashenko in Bielorussia.
La fuga e l’attività all’estero
Le autorità ucraine hanno represso le proteste delle Femen molto violentemente fin dai primi anni della loro formazione. Se in un primo periodo le manifestanti venivano trattenute dalla polizia solo per un paio di giorni (durante i quali, ha riportato Shachko, i funzionari le picchiavano, insultavano e molestavano sessualmente), dal 2012 le forze dell’ordine hanno iniziato ad applicare contro di loro una clausola del codice penale che criminalizza le loro azioni come “atti vandalici”, con pene dai 2 ai 5 anni di detenzione.
Visto il crescendo di violenza, nel 2013 Inna Shevchenko e Oksana Shachko si sono rifugiate a Parigi come richiedenti asilo, dove Shachko è morta suicida nel luglio del 2018 dopo essersi ritirata dal gruppo. Così Femen ha iniziato a espandere il proprio raggio d’azione anche fuori dall’Ucraina, aprendo nuove sezioni in Europa (in Francia, Germania e Regno Unito) e per il mondo (in Brasile e Tunisia). Le proteste del movimento hanno iniziato a colpire politici e istituzioni esterni alla zona post-sovietica – Donald Trump, Silvio Berlusconi, il Vaticano, l’Islam, l’Unione europea.
“Porno politico”: critiche e controversie
Le tattiche utilizzate dalle Femen spesso hanno spesso alienato al gruppo il sostegno di molte femministe. Le stesse Pussy Riot hanno preso le distanze dal gesto di solidarietà delle Femen verso la “preghiera punk” del movimento russo – ossia abbattere con una motosega una croce di legno, posta a commemorazione delle vittime dello stalinismo nel pieno centro di Kiev.
Proprio l’aspetto che ha condotto il movimento alla notorietà internazionale, ossia la loro politica di sextremismo, il cui motto è: “Il nostro Dio è Donna! La nostra Missione è la Protesta! La nostra Arma sono i nostri seni nudi!”, ha causato molto dibattito intorno alle azioni delle Femen, sia nella società civile che nei mass media e in ambito accademico.
Secondo quanto riportato da Inna Shevchenko, l’idea di mettersi a seno nudo per la prima volta venne a Oksana Shachko nell’agosto del 2009, durante una manifestazione in cui la ragazza saltò nella fontana di Piazza Maidan a Kiev. “Realizzammo che la chiave di tutto era restituire questo corpo nudo alla sua legittima proprietaria, la donna, e quindi costruire una nuova interpretazione di nudità”, ha dichiarato Shevchenko nel 2013.
Ma c’è chi sostiene che la realtà sulla nascita della strategia sextremista sarebbe ben diversa, e non così spontanea. Secondo il documentario Femen – L’Ucraina non è in vendita (Ukraine Is Not a Brothel), prodotto e girato dalla militante Kitty Green, le Femen sarebbero un’invenzione di Viktor Svyatski, l’unico membro maschile del gruppo che le ha manipolate per anni. Dopo che la diffusione del documentario nel 2013 ha denunciato il suo comportamento prevaricatore e violento, le Femen hanno espulso l’uomo dal movimento.
Secondo l’opera di Green, inoltre, Svyatski agiva da “reclutatore” per il gruppo, viaggiando per l’Ucraina in cerca di belle ragazze da esibire nelle proteste. Le Femen sono state spesso accusate di includere solo giovani donne considerate attraenti in termini convenzionali. La sociologa Theresa O’Keefe, per esempio, definisce il loro sextremismo come un “porno politico” che ha finito per abbracciare proprio quei criteri eteronormativi ed egemonicamente maschili rispetto alla sessualità che si proponeva di sfidare. In questo modo, l’approccio del gruppo riprodurrebbe le norme sociali vigenti invece di sovvertirle.
L’Occidente e la dimensione transnazionale
Il fatto che il gruppo femminista ucraino si sia distaccato dalle proprie radici per trasformarsi in un’organizzazione internazionale ha avuto un forte impatto sulla comprensione delle sue azioni: nell’Occidente avvezzo alla nudità femminile, il seno scoperto desta meno scalpore che altrove.
Un’altra critica spesso mossa verso le Femen è infatti quella di comprendere l’identità femminile solo attraverso una prospettiva occidentale, senza alcuna sensibilità verso contesti culturali diversi. Il loro uso del corpo femminile ha innescato un’accesa polemica con le femministe islamiche, che rivendicano la scelta di coprirsi come mezzo di autodeterminazione.
Inoltre, le azioni delle Femen sono state tacciate di essere reazionarie e poco sistematiche, e quindi poco incisive sul lungo termine. Il loro proposito di cambiare lo status quo in Ucraina è ancora lontano dal realizzarsi, dal momento che le loro proteste sono accolte da buona parte delle e dei connazionali in maniera estremamente negativa.
Tuttavia, con il loro operato, le Femen hanno contribuito a ricondurre il problema dell’oppressione patriarcale a una dimensione globale e transnazionale.
Fonti e approfondimenti
Leah Dungay (2018), ‘Our Mission is Protest’: FEMEN, Toplessness and Female Spectacle, University of Plymouth, 01 Research Theses Main Collection.
Gabriela Caviedes (2017), Feminine Features as Political Tools: The Cases of Femen and Women of Liberia, Araucaria. Revista Iberoamericana de Filosofía, Política y Humanidades, año 19, nº 38, 121-139, ISSN 1575-6823 e-ISSN 2340-2199, DOI: 10.12795/araucaria.2017.i38.06.
Emily Channell (2014), Is sextremism the new feminism? Perspectives from Pussy Riot and Femen, Nationalities Papers, 42:4, 611-614, DOI: 10.1080/00905992.2014.917074.
Kyiv Post, “1,300 prostitution cases registered in Ukraine over year”, 28/01/19.
Tucker M., “Sex, lies and psychological scars: inside Ukraine’s human trafficking crisis”, The Guardian, 04/02/16.
Lillis J., “‘We want a voice’: women fight for their rights in the former USSR”, The Guardian, 08/03/15.