L’altra metà del cielo: le Pussy Riot in Russia

femminismo
@ Игорь Мухин at Russian Wikipedia - CC BY-SA 3.0

Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e più di vent’anni di varie attività femministe, in Russia non esiste ancora un movimento femminista che possa essere considerato veramente efficace e unitario. Anzi, anche chi si schiera a favore della parità di genere, spesso rifiuta l’associazione al femminismo: un concetto che rimane sconosciuto alla maggior parte della popolazione russa (nel 2012, il 40% non aveva mai sentito questo termine), quando non è apertamente considerato alla stregua di una moda occidentale che distrugge famiglie.

In questo contesto estremamente ostile, tuttavia, un gruppo di attiviste è riuscito a ottenere una risonanza mediatica sia a livello internazionale che nazionale senza precedenti: il collettivo delle Pussy Riot, per alcuni superficiale e controverso, per altri la scossa di cui la Russia aveva bisogno.

La Russia di Putin: violenza e politica machista

La condizione della donna in Russia oggi appare alquanto difficile sotto molti aspetti, soprattutto considerando l’eredità lasciata alla Federazione Russa dall’Unione Sovietica, periodo durante il quale vennero gettate le basi dell’uguaglianza fra i sessi in ogni ambito. Lottando spalla a spalla con gli uomini nel 1917, infatti, le rivoluzionarie russe si videro riconosciuti diritti estremamente all’avanguardia per l’epoca – come il diritto di voto, seguito dal diritto di aborto, che venne sancito nel 1920 (anche se fra 1936 e 1955 venne di nuovo bandito da Stalin), oltre a generosi congedi di maternità.

Nonostante il riconoscimento di diritti civili, sociali e politici alle donne indubbiamente precursore dei tempi, la società russa odierna è riscivolata lentamente in un rigido sistema conservatore e patriarcale, dove le discriminazioni non mancano e gli stereotipi di genere tradizionali nemmeno.

Nel febbraio del 2017, ad esempio, il presidente Vladimir Putin ha promulgato la cosiddetta “legge dello schiaffo” – approvata con maggioranza schiacciante dalla Duma di Stato, con 380 voti a favore e 3 contrari – che ha in sostanza decriminalizzato la violenza domestica. Se non ci sono ossa rotte, e non succede più di una volta l’anno, l’aggressore può evitare la detenzione per lunghi periodi; anzi, nei rari casi in cui il tribunale decida di prendere le parti della vittima, le sanzioni peggiori consistono in multe (equivalenti a un massimo di 460 euro), periodi di detenzione che vanno dai 10 ai 15 giorni e lavori socialmente utili. Eppure, secondo Human Rights Watch la violenza domestica uccide almeno 14,000 donne in Russia ogni anno – in pratica, una donna ogni 40 minuti.

Inoltre, la politica della mascolinità promossa da Putin per legittimare il suo regime – e delegittimare i propri avversari – rappresenta un elemento di novità non indifferente per il panorama politico russo, non avvezzo a un simile sfruttamento della retorica di genere. Il Cremlino negli ultimi anni ha utilizzato la comunicazione e la stampa per rendere Putin il più macho possibile agli occhi dell’opinione pubblica.

Il discorso anti-femminista si sposa perfettamente con la narrativa anti-occidentale, anti-liberale e anti-diritti umani di Putin. Se all’epoca della perestroika si diceva che “non c’è sesso nell’Unione Sovietica”, oggi il presidente è il primo a sfruttare la questione per ottenere consenso.

Dal suo primo mandato presidenziale nel 2000, Putin (in coppia con la Chiesa Ortodossa Russa) non ha fatto altro che promuovere valori tradizionali e conservatori, negare diritti alla comunità LGBTQIA+ e condannare il femminismo. Dopo il collasso dell’Unione Sovietica, il timido fiorire di piccole ONG (Organizzazioni Non-Governative) femministe indipendenti è stato stroncato da Putin per evitare che sfuggisse al controllo delle autorità.

Alcune organizzazioni informali basate sulla mobilitazione online e sul femminismo intersezionale sono tuttavia riuscite a resistere, come il blog-collettivo feministki@lj, il gruppo Za Feminizm e il Moscow Feminism Group (MFG).

Il caso Pussy Riot

Le Pussy Riot sono un gruppo punk-rock formatosi nel 2011 a Mosca. Rappresentano un caso più unico che raro nel panorama socio-politico della Russia odierna: una dozzina di giovani donne che hanno proclamato pubblicamente sé stesse e la propria produzione musicale come femministe, per porsi in aperta contrapposizione con le politiche conservatrici e sessiste di Putin. Ispirandosi in parte al movimento di guerrilla rock “Riot grrrl” della Pacific Northwest statunitense degli anni ’90, in parte all’intelligencija dissidente che si contrappone allo Stato nata nell’Impero russo all’alba del XIX secolo, le Pussy Riot si sono distinte per i toni rivoluzionari delle loro canzoni e le loro irriverenti performance di protesta col volto coperto da un passamontagna colorato.

Fra le loro numerose manifestazioni, una delle più famose è senza dubbio il tentativo di esibirsi in una “preghiera punk” nella Cattedrale del Cristo Salvatore di Mosca il 21 febbraio 2012, per protestare contro il coinvolgimento della Chiesa Ortodossa nella campagna elettorale di Putin per le presidenziali che avrebbero avuto luogo il 4 marzo successivo. Un gesto che non è rimasto impunito dalle autorità: tre leader del gruppo, Nadezhda Tolokonnikova, Maria Alyokhina e Yekaterina Samutsevich sono state successivamente arrestate e accusate di vandalismo motivato da odio religioso. Samutsevich è riuscita a evitare la prigione ricorrendo in appello, mentre Tolokonnikova e Alyokhina sono state condannate a due anni di detenzione, scontati in durissimi campi di lavoro nelle regioni di Mordavia e Perm da cui sono state liberate con un’amnistia solo a fine dicembre del 2013.

Un episodio che ha portato le Pussy Riot sotto la luce dei riflettori anche al di fuori della Russia, riscuotendo ampie manifestazioni di solidarietà in Occidente, ma molto meno in patria. Dopo il loro rilascio, Tolokonnikova e Alyokhina sono infatti diventate delle vere e proprie celebrità a livello internazionale, arrivando a esibirsi con Madonna a New York ad un concerto per Amnesty International e a incontrare Hillary Clinton nel 2014.

In un certo senso, quella delle Pussy Riot è “la storia che l’Occidente non aspettava altro di sentire”: dalla scelta di darsi un nome in inglese ai riferimenti da Terza Ondata di femminismo, l’immagine stessa del gruppo sembra costruita più per ottenere successo all’estero che nel proprio Paese di origine – a digiuno sia di inglesismi che di lessico femminista.

Secondo un sondaggio condotto dal Levada Centre nel 2012 – subito dopo l’annuncio della condanna delle Pussy Riot per la loro “preghiera punk” –  il 78% dei russi riteneva che la pena assegnata fosse proporzionata al crimine commesso, se non addirittura leggera, mentre solo il 2% sosteneva che le azioni del gruppo non dovessero essere punite come criminali. Anche se le Pussy Riot si sono rese simbolo di un sentimento anti-Putin che si sta gradualmente intensificando fra la popolazione, queste attiviste non hanno riscosso grande solidarietà presso i propri concittadini.

Opinioni femministe discordanti

Nonostante il loro impegno contro il regime sessista di Putin, le Pussy Riot sono finite spesso al centro delle critiche della comunità femminista russa a causa dei loro metodi di lotta. I testi di canzoni del gruppo, come “Osvobodi Bruschatku” (“Liberare la strada”), “Kropotkin Vodka” e “Putin zassal” (“Putin se la fa addosso”), sono stati accusati da alcune attiviste di utilizzare un linguaggio violento che finisce per riprodurre meccanismi di aggressione e abuso di potere tipicamente patriarcali – con insulti omofobi e misogini rivolti al governo di Putin e a esponenti di spicco della Chiesa Ortodossa.

Inoltre, tre dei membri di spicco del gruppo – Tolokonnikova, suo marito Pyotr Verzilov e Samutsevich – hanno fatto parte anche di Voina (tradotto dal russo, letteralmente “guerra”), un collettivo artistico anarchico nato nel 2007, le cui esibizioni in più di un caso sono state definite violente e sessiste. Nel 2011, per esempio, diverse artiste del gruppo (tra cui Tolokonnikova e Samutsevich) sono scese nelle stazioni della metropolitana di Mosca per aggredire le poliziotte in servizio, baciandole sulle labbra: una manifestazione considerata una sorta di stupro simbolico da parte di molte femministe.

In questa prospettiva, il collegamento diretto fra Voina e Pussy Riot ha indotto molte persone a mettere in dubbio la vocazione femminista di queste ultime. Secondo le commentatrici più sospettose, le azioni delle Pussy Riot potrebbero non essere altro che un prodotto delle menti maschili di Voina – primo fra tutti Verzilov, il marito di Tolokonnikova.

Tuttavia, nella comunità femminista russa esistono anche voci che vedono nelle Pussy Riot delle alleate. Olga Lipovskaia (descritta come la “faccia del femminismo russo radicale” degli anni ’90, e tutt’ora una forza importante del movimento) ha dichiarato nel 2012 che forse le “loro canzoni non contengono posizioni femministe ideologiche o concettuali”, ma le loro azioni possono essere senz’altro definite come femministe, in quanto “infrangono veramente le tradizionali idee circa il ruolo della donna”. Inoltre, tenendo conto della scarsità dei gruppi femministi attivi sul territorio della Federazione, grazie alle Pussy Riot la retorica femminista e la questione di genere sono apparse finalmente nell’agenda dei media e nel dibattito politico della Russia contemporanea.

 

Fonti e approfondimenti

Peter Rutland (2014), The Pussy Riot affair: gender and national identity in Putin’s Russia, Nationalities Papers, 42:4, 575-582, DOI: 10.1080/00905992. 2014.936933

Janet Elise Johnson (2014), Pussy Riot as a feminist project: Russia’s gendered informal politics, Nationalities Papers, 42:4, 583-590, DOI: 10.1080/00905 992.2014.916667

Valerie Sperling (2014), Russian feminist perspectives on Pussy Riot, Nationalities Papers, 42:4, 591-603, DOI: 10.1080/00905992.2014.924490

Marina Yusupova (2014), Pussy Riot: a feminist band lost in history and translation, Nationalities Papers, 42:4, 604-610, DOI: 10.1080/00905992. 2014.923391

Denejkina A., “In Russia, Feminist Memes Buy Jail Time, but Domestic Abuse Doesn’t”, Foreign Policy, 15/11/18.

Ferris-Rotman A., “Putin’s War on Women”, Foreign Policy, 09/04/18.

Azhgikhina N., “Why Are Russian Women Opposed to #MeToo?”, The Nation, 23/02/18.

Gunda Werner Institute (GWI), The situation of women in Russia – An introduction, 16/02/11.

 

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