L’Italia ha un grosso problema con il sex work: si chiama stigma sociale

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È passato poco tempo dal 17 dicembre, la Giornata internazionale per la fine della violenza contro le sex worker istituita dal 2003 per richiamare l’attenzione sui crimini d’odio commessi contro chi svolge lavoro sessuale. A breve, il 3 marzo, sarà la Giornata internazionale per i diritti delle sex worker. Dei momenti di visibilità e riflessione che oggi, in piena pandemia da Covid-19, sono più necessari che mai per una questione ancora fortemente stigmatizzata a livello sociale. Anche in Italia.

Dal primo lockdown nazionale di marzo scorso, le sex worker presenti nella nostra penisola sono precipitate nell’indigenza e lo Stato italiano ha fatto ben poco per aiutarle. A fine aprile del 2020, molte delle lavoratrici del sesso sul nostro territorio versavano in un grave stato di povertà, a causa dell’impossibilità di lavorare. Ma a questa ampia fetta di popolazione bisognosa di aiuto non sono finora stati concessi ammortizzatori sociali, perché ancora scarsamente riconosciuto e non tutelato.

Quindi, per le sex worker che lavorano in nero niente indennità di 600 euro del decreto Cura Italia e altri bonus previsti per chi esercita la libera professione. Inoltre, qualora siano sprovviste di documenti perché immigrate o persone transgender, le sex worker possono incontrare dei grossi problemi anche per accedere ai servizi sanitari del nostro Paese. Non proprio il massimo, durante una pandemia globale.

Le uniche ad attivarsi sul serio negli ultimi mesi sono state, ancora una volta, le associazioni italiane di sex workers e i servizi di assistenza sul territorio, come la storica onlus Comitato per i diritti civili delle prostitute (CDCP), il collettivo Ombre Rosse e la Piattaforma nazionale antitratta (una rete informale che raccoglie le organizzazioni impegnate nel contrasto alla tratta di esseri umani a fini di sfruttamento sessuale e lavorativo). 

Queste ONG hanno lanciato la campagna di crowdfunding Covid19 – Nessuna da sola! Solidarietà immediata alle lavoratrici sessuali più colpite dall’emergenza, ormai terminata, che ha raccolto più di 21mila euro (su un obiettivo iniziale di 30mila). I fondi raccolti sono stati utilizzati per coprire le richieste di aiuto che sono arrivate dalle sex worker di tutta Italia, vista l’assenza di misure di sostegno da parte del governo. Sex worker che si sono ritrovate in estrema difficoltà per pagare l’affitto e le medicine, soprattutto se persone trans in terapia ormonale oppure se sieropositive all’HIV. 

Come si legge sulla stessa pagina web della campagna, questo è “un momento di disperazione e di paura” per le sex worker. Nella grande varietà di modalità e condizioni del lavoro sessuale (che non si limita alla prostituzione, ma comprende una vasta gamma di servizi, dalla pornografia alle hotline e allo spogliarello), “vi sono persone dedite ad attività di prostituzione in forma libera, concordata o costretta, già in condizioni di vulnerabilità umana e sociale”, che oggi rischiano di precipitare nella povertà estrema

Il rischio speculare è che queste persone si trovino costrette a violare le regole di contenimento della pandemia da Covid-19 pur di continuare a lavorare per ottenere dei mezzi di sostentamento. “Perché morire di Covid-19 è un rischio, ma senza cibo morire di fame è una certezza”, nelle parole di un’attivista di Ombre Rosse intervistata da The Submarine.

Le uniche sex worker leggermente più tutelate dal punto di vista della sicurezza personale, economica e sanitaria sono quelle che operano online attraverso delle piattaforme che garantiscono loro un fatturato, che a sua volta può permettere loro l’accesso agli ammortizzatori sociali. Ma sono veramente poche. 

La condizione delle sex worker in Italia

La crisi sanitaria ed economica globale provocata dal Covid-19 non ha fatto altro che amplificare diseguaglianze sociali preesistenti. Le sex worker rappresentano una categoria del tutto esclusa dal dibattito pubblico italiano degli ultimi decenni, a parte quando vengono usate come una specie di slogan elettorale dal politico di turno che invoca la “riapertura delle case chiuse”, senza avere un’idea precisa di cosa volesse dire per le donne essere rinchiuse lì dentro.

Il famoso sistema delle “case chiuse”, sviluppatosi a fine Ottocento e gestito dallo Stato italiano dagli anni Venti alla fine degli anni Cinquanta, si fondava sul più vile sfruttamento delle prostitute, costrette a vivere in condizioni drammatiche e repressive. Lo stesso soprannome delle “case chiuse” deriva dal fatto che le finestre dei bordelli dovevano rimanere sempre sbarrate, per preservare la cosiddetta pubblica decenza. Il marchio che rimaneva sulle donne che vi lavoravano, agli occhi dell’opinione pubblica, era indelebile.

Grazie agli sforzi della senatrice socialista Lina Merlin questa “istituzione totale” lesiva della dignità umana venne abolita nel 1958, con la legge passata alla storia con il nome di legge Merlin.

Il problema attuale dell’Italia con il sex work, però, deriva dal fatto che il nostro impianto legislativo sulla questione è rimasto sostanzialmente fermo al periodo del secondo dopoguerra. All’epoca, l’obiettivo della legge Merlin era quello di tutelare le donne dallo sfruttamento, non di vietare la prostituzione in sé, inquadrandola per la prima volta come un fatto “privato e personale”. Ma, anche nell’ottica della stessa senatrice, si trattava solo di un primo passo verso l’emancipazione femminile a cui finora è mancato un vero seguito. 

Le norme abolizioniste, che nel 1958 avevano la loro ratio, oggi sono diventate sotto alcuni aspetti anacronistiche, se non dannose per le sex worker. Come il reato di favoreggiamento della prostituzione, per esempio, accusato da molte ONG di contribuire alla marginalizzazione della categoria: non solo penalizza “l’adescamento a fini sessuali”, ma pone chiunque assista una lavoratrice sessuale (in qualsiasi modo, anche solo comprandole dei preservativi) sotto il sospetto di compiere un crimine.

Sfruttamento o libera scelta?

Oggi, la globalizzazione, il neoliberismo, l’evoluzione dei costumi e della condizione della donna hanno profondamente mutato il mondo del lavoro sessuale, dove le soggettività impiegate sono più varie che mai. Lo sfruttamento oggi si intreccia alla crisi migratoria e alla tratta di esseri umani: circa l’80% delle ragazze, sempre più giovani, che si prostituiscono per strada in Italia sono straniere (in base alle stime riportate dalle ONG che offrono assistenza a queste ragazze, in mancanza di dati ufficiali sul sex work). A partire dagli anni Settanta, tuttavia, è sorta anche la questione dell’autodeterminazione femminile, che associazioni come CDCP e Ombre Rosse rivendicano chiedendo tutele e diritti per chi svolge sex work senza coercizione.

Una questione che si è dimostrata molto divisiva anche all’interno del movimento femminista, fra chi considera il sex work unicamente come una forma di abuso operata dal patriarcato (alla stregua della tratta) e chi invece sostiene la possibilità di scelta consapevole. 

Tanto per sciogliere ogni dubbio, l’Italia è più allineata verso la prima posizione: nel 2019 la Corte costituzionale, nell’ambito del processo sulle escort  presentate all’ex premier Silvio Berlusconi durante le feste alla sua villa di Arcore, ha stabilito che “la scelta di vendere sesso è quasi sempre determinata da fattori che limitano e condizionano la libertà di autodeterminazione dell’individuo”. Ergo, esercitare il lavoro sessuale non può essere mai considerata una decisione libera – e quindi legittima.

Oltre gli stereotipi

È importante sottolineare che la distinzione fra sex work volontario e prostituzione forzata, in Italia come nel resto del mondo, non è sempre così semplice da attuare come potrebbe apparire. Fra la migrante costretta dai trafficanti a prostituirsi e l’escort autonoma ed emancipata ci sono moltissime sfumature. Il mercato del lavoro sessuale è sfaccettato quasi quanto i diversi approcci alla sua regolazione, che in Europa varia dalla criminalizzazione del cliente della Svezia al regolamentarismo statale dei Paesi Bassi. 

Molto meno conosciuto – ma praticato da numerose ONG – è l’approccio della riduzione del danno, che si pone l’obiettivo di fornire alle sex worker gli strumenti necessari per migliorare la propria condizione di vita nell’immediato. Ciò fornendo loro assistenza sanitaria e legale, per esempio, ma soprattutto accettando la loro attività senza giudizi morali.

Tutte le ONG di questo tipo, infatti, concordano su una cosa: c’è lo stigma sociale alla base della discriminazione e della violenza nei confronti delle sex worker. La vergogna di cui vengono ammantate crea difficoltà a chiunque voglia denunciare e permette a chi commette violenza (fisica, sessuale, verbale, economica) di restare impunito. 

Per combattere lo stigma, serve andare oltre le immagini stereotipate della “povera vittima” o della “prostituta felice” e capire che “chi fa sex work frequenta i tuoi stessi luoghi, abita nel tuo stesso palazzo, è in fila con te al supermercato” – tanto per citare Giulia Zollino, antropologa ed educatrice sessuale, che parafrasa dall’inglese le autrici sex worker Juno Mac e Molly Smith. Ma non si può abbattere la marginalizzazione e la violenza se il lavoro sessuale non viene legittimato.

Urge un approccio pragmatico alla questione: l’abolizionismo e la criminalizzazione del cliente finora non hanno fatto sparire la prostituzione dal mondo, anzi. Fintanto che non cambierà il nostro sistema economico e sociale, è necessario riconoscere che le sex worker esistono (anche al maschile, in misura minore) e devono vedere tutelati i propri diritti umani e civili, in quanto categoria professionale che risponde a una precisa domanda di servizi. Non devono essere criminalizzate, escluse dalla società e lasciate morire.

Dopo anni di indagini, colloqui e incontri con i sindacati di sex worker a livello globale, Amnesty International nel 2015 ha presentato una risoluzione per la depenalizzazione del sex work. A cui, nel 2016, l’ONG ha fatto seguire la pubblicazione della propria policy in materia di protezione dei diritti umani delle lavoratrici sessuali, che delinea come i governi di tutto il mondo “debbano fare di più”.

 

 

Editing a cura di Carolina Venco

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