Praxis: L’integrazione in Oman

Praxis
Copertina a cura di @side_book

L’arrivo di un consistente numero di migranti viene spesso considerato un problema, o addirittura un pericolo. L’Oman ha però dimostrato come l’integrazione di un gruppo diasporico sia non solo possibile, ma anche potenzialmente vantaggiosa per il Paese ricevente. Tra il 1970 e il 1975, il sultanato ha accolto gli Zinjibari, arabi nati nelle ex colonie omanite dell’Africa Orientale, e li ha resi co-artefici della modernizzazione del Paese. 

Zanzibar e l’Oman

Alla fine del XVII secolo l’Oman stabilì una presenza coloniale in Africa Orientale. Il fulcro di questi possedimenti era Zanzibar, che si emancipò da Musqat nel 1861. Dopo l’indipendenza, i discendenti dei coloni omaniti rimasero l’élite dominante dell’arcipelago, occupando ruoli chiave nel governo. 

Nel gennaio 1964 scoppiò a Zanzibar una violenta rivolta contro i circa 50.000 arabi presenti. Il numero esatto di vittime di origine omanita è difficile da calcolare: a seconda delle fonti, oscilla tra 3.000 e 17.000. I sopravvissuti al massacro e alle violenze fuggirono all’estero, stabilendosi in Europa, Egitto o nel Golfo. Solo un esiguo numero di rifugiati ritornò nel luogo di origine; all’epoca l’Oman era infatti un Paese povero, privo di infrastrutture, politicamente isolato dal resto del mondo e lacerato da conflitti interni. 

Creare un nuovo Oman: il ritorno degli Zinjibari

Il 1970 fu uno spartiacque per la storia dell’Oman e della diaspora Zinjibari. In questo anno il sultano Said bin Taymur, conservatore e contrario a riformare il Paese, venne deposto dal figlio Qaboos (scomparso il 10 gennaio 2020 dopo cinquant’anni di regno), che avviò immediatamente un processo di rinnovamento e modernizzazione. Poco tempo dopo l’incoronazione, il nuovo sovrano invitò tutti gli Zinjibari sparsi per il mondo  a ritornare nella loro patria ancestrale, per contribuire alla sua ricostruzione. Nel giro di cinque anni, il Paese, che all’epoca contava appena 724.000 abitanti, accolse quasi 10.000 nuovi cittadini. 

Grazie ai cognomi, fu possibile individuare i gruppi tribali omaniti a cui appartenevano gli antenati degli Zinjibari. Gli shaykh locali accolsero calorosamente i nuovi arrivati, orgogliosi di avere per la prima volta all’interno della propria comunità dottori, ingegneri o insegnanti. Molti dei rimpatriati avevano infatti frequentato l’università a Zanzibar o nei Paesi in cui si erano rifugiati dopo il 1964, parlavano fluentemente inglese ed erano lavoratori altamente qualificati. Al contrario, la maggior parte degli omaniti non aveva potuto accedere a un’istruzione. 

Le capacità acquisite tramite lo studio e l’esperienza all’estero permisero agli Zinjibari di assumere ruoli chiave nelle nascenti istituzioni statali e nel settore privato. Il ruolo dei rimpatriati nella costruzione dell’attuale Oman è stato a lungo sottovalutato dagli studiosi. Tuttavia, essi hanno contribuito in maniera significativa alla creazione dell’intero apparato statale e all’avvio di numerosi progetti di sviluppo, dal momento che la maggior parte della popolazione locale era sprovvista delle conoscenze fondamentali per la gestione di uno Stato moderno. Una delle abilità chiave di molti Zinjibari era la padronanza dell’inglese, essenziale per l’integrazione del Paese nei circuiti economici internazionali, di cui l’Oman aveva urgentemente bisogno dopo decenni di isolamento. 

Inoltre, l’esperienza diasporica aveva permesso alle donne di essere meglio disposte a lavorare in un ambiente misto e non esclusivamente con persone del proprio sesso. Nonostante questa apertura abbia provocato critiche per una presunta mancanza di decenza, le Zinjibari furono le prime lavoratrici di sesso femminile in settori come le forze armate, i media, l’industria petrolifera, il turismo e la diplomazia. 

Cittadinanza e rappresentanza

A questo si è aggiunto un importante lavoro ideologico: il sentimento di identità dell’Oman che Qaboos era intenzionato a creare non era focalizzato sul luogo di nascita o sull’appartenenza tribale, religiosa o etnica. Al contrario, l’accento venne posto sulla comune cittadinanza omanita e sulla necessità di collaborare per ricostruire il Paese. Infatti, ai rimpatriati venne concessa automaticamente la cittadinanza in quanto discendenti di omaniti, che li accomunò al resto della popolazione locale.

Inoltre, al momento di assegnare cariche istituzionali, sia politiche che religiose, il sultano ha sempre cercato di dare rappresentanza a tutti i gruppi etnici e tribali del Paese. Per esempio, il ruolo di gran mufti (il capo dei giureconsulti islamici delle Stato) è stato affidato proprio a uno Zinjibari, Ahmed al-Khalili. A livello legale, l’articolo 17 della Legge Fondamentale, un documento costituzionale pubblicato nel 1996, ribadisce l’uguaglianza tra tutti i cittadini e proibisce discriminazioni a causa di origini, lingua, religione o colore della pelle

Rispetto ad altri Paesi, l’Oman è stato avvantaggiato in questo processo di integrazione dalla sua tradizionale composizione sociale, multietnica e religiosamente diversificata. La narrativa nazionale ha esaltato questo tradizionale multiculturalismo e celebrato le differenze regionali del Paese, per trasformarli in punti di forza. Inoltre, libadismo, la branca ufficiale dell’islam all’interno del sultanato, ha tra i sui principi fondamentali la tolleranza e il rispetto.

Gli effetti di un’integrazione efficiente

L’Oman ha saputo integrare i membri istruiti di una diaspora all’interno della propria società, in modo che tanto lo Stato quanto i suoi nuovi cittadini ne traessero vantaggio. Il primo ha saputo utilizzare le conoscenze acquisite all’estero dai secondi, che d’altro canto sono diventati parte del tessuto sociale. Naturalmente, la prima generazione di rimpatriati ha dovuto rinegoziare la propria identità e non è stata immune ai pregiudizi di coloro che si consideravano i “veri” omaniti. Attualmente, gli Zinjibari e i loro discendenti sono oltre 100.000. Tuttavia, è difficile fornire una cifra esatta per due semplici ragioni. Da un lato, essi non vengono considerati come una categoria a sé stante in censimenti e statistiche; dall’altro, molti membri della seconda e terza generazione, anche grazie all’accento posto dal sovrano sull’unità nazionale, si sentono a tutti gli effetti omaniti. 

 

 

Fonti e approfondimenti

Madawi Al-Rasheed, 2005, Transnational Connections and National Identity. Zanzibari Omanis in Muscat, in Paul Dresch, James Piscatori (eds), Monarchies and Nations. Globalisation and Identity in the Arab States of the Gulf, I.B.Tauris.

Nafla S. Kharusi, 2013, Identity and Belonging among Ethnic Return Migrants of Oman, in Nationalism and Ethnic Politics, 19: 424-446.

Molly Patterson, 2013, The Forgotten Generation of Muscat: Reconstructing Omani National Identity After the Zanzibar Revolution of 1964, in The Middle Ground Journal, 7.

Sarah G. Phillips, Jennifer S. Hunt, 2017, “Without Sultan Qaboos, we would be Yemen”: the Renaissance Narrative and the Political Settlement in Oman, in Journal of International Development 29: 645-660.

Nikolaus A. Siegfried, 2000, Legislation and Legitimation in Oman: The Basic Law, in Islamic Law and Society, 7(3): 359-397.

Marc Valeri, 2007, Nation-Building and Communities in Oman since 1970: The Swahili-Speaking Omani in Search of Identity, in African Affairs 106(424): 479-496.

 

 

Editing a cura di Elena Noventa

Copertina di Simone d’Ercole

Be the first to comment on "Praxis: L’integrazione in Oman"

Leave a comment

Your email address will not be published.


*


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: