L’altra metà del cielo: i movimenti femministi transnazionali della Thailandia

@Michael Coghlan - Flickr - CC-BY-SA 3.0

Dopo Singapore e Indonesia, l’ultima tappa del nostro viaggio attraverso l’attivismo femminista in Asia e spazio post-sovietico ci conduce in Thailandia, la “terra dei sorrisi”. Qui, come in altri Paesi della regione, il termine “femminismo” ha una connotazione generalmente negativa (mancando anche di una precisa traduzione nella lingua autoctona), poiché viene associato a valori sociali occidentali, non thailandesi. Le persone che osano dichiararsi pubblicamente femministe sono considerate alla stregua di “odiatrici di uomini” e, per questo, è estremamente raro che questi ultimi dichiarino il proprio appoggio alla causa.

In questo contesto, non sorprende scoprire che i vari gruppi di donne che si sono formati durante il XX secolo non sono riusciti a dar vita a un movimento forte e coeso. Eppure, due di questi gruppi – opposti, in un certo senso, ma complementari nella propria ricerca di emancipazione – si sono distinti per la loro particolare rilevanza a livello nazionale e transnazionale: il movimento per migliorare la qualità della vita delle persone che svolgono lavoro sessuale e il movimento per l’istituzione del bhikkhuni, l’ordine monastico buddhista femminile.

La condizione delle donne oggi

L’ordine di genere della “terra dei sorrisi” è un sistema sfaccettato e complesso, quasi paradossale. La società thailandese è nota per essere caratterizzata da relazioni di genere relativamente egualitarie, almeno in confronto ai vicini dell’Asia orientale e meridionale. Le donne rivestono un ruolo importante nella gestione dell’economia familiare e costituiscono quasi metà della popolazione lavoratrice, prevalentemente nel settore del turismo e delle esportazioni. La condizione socio-economica di molte donne è certamente migliorata, negli ultimi decenni, di pari passo con lo sviluppo economico del Paese.

Eppure, a fianco di questa immagine di donne forti e competenti, non mancano i casi di disuguaglianza e discriminazioni. La società thailandese è ancora profondamente androcentrica. Ad esempio, secondo il diritto di famiglia, l’infedeltà è causa di divorzio fra coniugi solo se è la donna a esserne colpevole; mentre l’uomo può concedersi maggiori libertà, a patto che non “onori un’altra donna come sua moglie”.

Nonostante le thailandesi abbiano ottenuto il diritto di votare e candidarsi alle elezioni molto presto, nel 1932, la partecipazione femminile in politica e nella pubblica amministrazione è notevolmente bassa, sotto il 10%. La media in Asia si attesta intorno al 14%. Le donne sono in larga parte escluse anche dalla guida del Paese: nel 2010, detenevano soltanto il 10% dei seggi sia al Senato che alla Camera.

Inoltre, l’ideale di femminilità promulgato dalla società non è sempre facile da sostenere. Figlia ubbidiente, moglie premurosa e madre pronta a qualsiasi sacrificio sono le uniche sfaccettature di un’identità  fortemente improntata alla famiglia e alla riproduzione. Identità che viene messa alla prova, in modi diversi, sia dalle lavoratrici sessuali che dalle monache buddhiste.

La lotta delle sex worker contro lo stigma

Secondo un report delle Nazioni Unite del 2014, ci sono almeno 123.530 persone che praticano lavoro sessuale attive in Thailandia (anche se chi fa attivismo sarebbe incline a raddoppiare questo numero, per includere le decine di migliaia di migranti provenienti dai vicini Myanmar, Laos, Cambogia e Vietnam).

L’industria del sesso thailandese affonda le sue radici nell’epoca della Seconda Guerra Mondiale, quando nel Paese si installarono numerose basi militari giapponesi, i cui soldati desideravano essere “intrattenuti” (similmente a come accadde nelle comfort station). Il settore conobbe un periodo di ulteriore espansione durante il conflitto del Vietnam, quando le truppe statunitensi iniziarono a recarsi a Bangkok per delle “pause ricreative”. Negli ultimi anni, i turisti sessuali hanno sostituito i militari come clienti nei bar, centri massaggi e locali di karaoke che si sono moltiplicati per rispondere alla domanda di mercato.

In tutto questo, vale la pena sottolineare che la prostituzione in Thailandia è illegale dal 1960 ed è punibile con una multa di 1000 baht thailandesi (circa 30 euro). I clienti rischiano la prigione fino a 6 anni solo in caso comprino sesso da delle minorenni. Tuttavia, la legge è stata a lungo ignorata, in quanto il business del sesso può rivelarsi un affare molto lucrativo anche per le forze dell’ordine. Tuttavia, da quando si è instaurato un governo militare nel 2014, gli innumerevoli bordelli sparsi per il Paese sono stati investiti da un’ondata di incursioni e blitz senza precedenti da parte della polizia.

L’obiettivo delle autorità è quello di trasformare la Thailandia in una destinazione di lusso per turisti facoltosi, cancellando qualsiasi traccia della propria lunga storia di prostituzione. Combattere la tratta di esseri umani e lo sfruttamento delle persone migranti fornisce quindi il pretesto per multare, incarcerare, sottoporre a processo e deportare anche le numerose lavoratrici del sesso straniere. Lo stigma contro le lavoratrici del sesso è profondamente radicato nella società thailandese. Nel corso dell’ultima metà del Novecento, sono state lanciate molte campagne contro la prostituzione, perlopiù da donne di classe media che  promulgavano delle “attività di protezione e riabilitazione” per convincere le lavoratrici del sesso a cambiare vita.

Negli anni ’80, però, alcuni gruppi di donne hanno iniziato a riconoscere l’urgenza di migliorare le condizioni di lavoro nell’industria del sesso: l’approccio abolizionista non aveva portato altro che ulteriore sfruttamento e abuso. Bisognava cominciare a considerare le persone che vi erano impiegate come normali lavoratrici piuttosto che come “cattive ragazze” da redimere, astenendosi da un giudizio morale sulla professione per concentrarsi sulla sua tutela.

Attiviste come Sukanya Hantrakul si sono a lungo battute per i diritti lavoratrici del sesso, impegnandosi a fornire loro delle competenze da spendere nell’ambito del proprio lavoro. Da questo nuovo approccio, nel 1985, a Patpong (il quartiere a luci rosse di Bangkok) è nata EMPOWER (Education Means Protection of Women Engaged in Recreation), organizzazione che ancora oggi fornisce alle persone che svolgono lavoro sessuale corsi di lingua inglese, educazione sanitaria e workshop di formazione professionale.

Attualmente, EMPOWER possiede 9 centri in 4 province del Paese, ciascuno dotato di un profilo diverso a seconda della situazione nella specifica area. Nel Nord, nella città di Chiang Mai, l’Empower Drop-in Centre è un centro specializzato in migrazione, multilingua e multiculturale, dato che le persone che lo frequentano spaziano fra più di 15 etnie diverse. Nel 2006, sempre a Chiang Mai, è nato il Can Do Bar, un locale gestito collettivamente solo da persone impiegate nell’industria del sesso.

Inoltre, EMPOWER si è gradualmente trasformata in un’organizzazione transnazionale. Nel 2005, grazie al supporto della Rockefeller Foundation, ha creato l’Empower University Mekong Worknet con cui vuole rinforzare la comunicazione a scopo di prevenzione sanitaria con le lavoratrici sessuali di Cina, Myanmar, Laos, Vietnam e Cambogia. L’anno successivo, si è tenuto il primo Mekong Regional Sex Workers’ Forum, con più di 50 partecipanti da Thailandia, Laos e Cina.

La lotta delle bhikkhuni contro il patriarcato buddhista

Insieme alla politica, la religione rappresenta un’altra roccaforte del potere maschile in cui le donne hanno scarsa rilevanza. La religione ufficiale della Thailandia è il Buddhismo Theravada, praticato da più del 95% della popolazione. Pertanto, la sua congregazione maschile, detta sangha, possiede una posizione sociale piuttosto prestigiosa nel Paese. Di tradizione millenaria, il Buddhismo thailandese si è trasformato in un’istituzione profondamente patriarcale. Sulla base di una presunta “dimensione materialistica” delle donne che ne impedirebbe l’illuminazione spirituale, infatti, i precetti tramandati oggi dai seguaci di questa religione forniscono una base morale a una presunta superiorità maschile.

Oltre ad opprimere le donne, il sangha esclude a priori l’esistenza di una congregazione femminile, l’ordine bhikkhuni. Nel 1928, il consiglio supremo ha posto il divieto totale, per qualsiasi monaco, di dare alle donne il noviziato o la piena ordinazione come monache. Questa regola è stata implementata subito dal Supremo Patriarca, diventando legge, ed è rimasta in vigore fino ai giorni nostri. Ciononostante, grazie alla cooperazione internazionale, le donne thailandesi hanno iniziato a disubbidire, recandosi in Sri Lanka o in India per ricevere l’ordinazione da parte di monaci stranieri.

La prima donna in assoluto a diventare bhikkhuni in questo modo in Sri Lanka, nel 2003, è stata Dhammananda Bhikkhuni (al secolo Chatsumarn Kabilsingh, nota professoressa in una delle principali università di Bangkok). Nel 1987, l’allora Kabilsingh aveva contribuito a fondare la Sakyadhita International Network of Buddhist Women, ampia rete transnazionale che si è dimostrata fondamentale per la reviviscenza della congregazione femminile. Dhammananda ha poi dato vita a una comunità bhikkhuni nel suo monastero di Songdhammakalyani, nella città di Nakhon Pathom.

Oggi, ci sono 270 bhikkhuni sparse per la Thailandia, tutte ordinate all’estero, a fronte di più di 250.000 monaci maschi. Il gruppo più numeroso di queste monache risiede a Chiang Mai. Qualsiasi tentativo di annullare la legge del 1928, finora, si è dimostrato vano, perfino da parte del Senato. Il consiglio supremo sangha ha continuato a riconfermarla ufficialmente, l’ultima volta nel 2014. Il governo nega che si tratti di discriminazione di genere, rimandando piuttosto a una “questione di tradizioni di lunga data”. Le donne non sono libere di diventare monache nel proprio Paese, ma “nessuno impedisce loro di viaggiare per farlo oltremare”, ha affermato di recente un portavoce del National Office of Buddhism thailandese.

L’importanza di fare rete oltre i confini nazionali

Instaurare una rete di relazioni transnazionali si è rivelato molto importante per la sopravvivenza sia delle lavoratrici sessuali che delle monache bhikkhuni, dal momento che entrambe le cause ricevono uno scarso supporto da parte della cittadinanza thailandese. Sessualità e critica alla religione, infatti, sono ancora argomenti tabù. Soprattutto per EMPOWER, i finanziamenti esteri sono stati fondamentali, anche se ciò ha reso l’organizzazione più permeabile all’influenza del femminismo occidentale, ostacolando lo sviluppo di  un pensiero femminista indigeno.

Inoltre, un altro elemento di debolezza è il fatto che la lotta per i diritti delle donne in Thailandia raramente parte dal “basso” della società. Un esempio è il movimento #HearMeToo, che nel 2018 ha cercato di dar voce alle storie delle vittime di violenza sessuale: dal momento che era guidato principalmente dalle Nazioni Unite e non aveva solide radici nelle comunità locali, non è riuscito a dare origine a nessun cambiamento profondo.

 

Fonti e approfondimenti

Falk Lindberg, M., “Feminism, Buddhism and transnational women’s movements in Thailand”, Women’s Movements in Asia: Feminisms and Transnational Activism, edited by Mina Roces and Louise Edwards, Routledge, 2010

Quadrini, M., “Embracing Feminism in Thailand”, New Naratif, 17/07/2019

Chandran, R., “No sewing please, we’re sex workers: Thai prostitutes battle stigma”, Reuters, 16/05/2019

Tanakasempipat, P., “Thailand’s rebel female Buddhist monks defy tradition”, Reuters, 04/01/2019

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