L’altra metà del cielo: il movimento femminista di Singapore

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Singapore ha una lunga storia di immigrazione che ha reso molto variegata la sua popolazione di 5 milioni e mezzo di abitanti: il gruppo etnico prevalente è quello cinese, seguito da quello malese, indiano e da modeste quote di discendenze eurasiatiche ed europee. Inoltre, il Paese è fra i primi a livello mondiale per percentuale di stranieri, circa al 30% (la maggior parte dei quali sono lavoratori e, soprattutto, lavoratrici). Le lavoratrici vengono pagate molto meno dei colleghi uomini: il divario salariale fra i sessi, oggi, è al 20%.

Eppure, nel suo report del 2014 sullo sviluppo umano, l’ONU ha nominato Singapore come miglior Paese asiatico per l’uguaglianza di genere, classificandolo 13° su 155 nazioni del mondo. In questo articolo scopriremo come si è sviluppata la ricca storia dell’attivismo femminista di quest’isola e le difficoltà che ha dovuto affrontare in un contesto sociale multietnico, nonostante il regime autoritario ancora in vigore.

Dall’epoca coloniale a oggi

Nel 1875, le mogli e le figlie dei coloni britannici fondarono quella che ad oggi è l’organizzazione più antica dell’isola: la Young Women’s Christian Association (YWCA). Oltre a giocare un ruolo centrale nell’educazione delle giovani donne dell’epoca, le azioni dell’YWCA hanno contrastato fortemente la tratta di donne e le leggi invasive e umilianti che regolavano la prostituzione sotto il governo britannico.

Molti istituti di beneficienza, scuole femminili e cliniche ostetriche dell’epoca vennero costruiti anche grazie agli sforzi e alle donazioni di donne di etnia cinese di ceto alto-borghese. La Chinese Ladies’ Association, nata nel 1915 per trasformarsi poi nella Chinese Women’s Association (CWA) nel 1960, ha fornito a queste donne sia una rete sociale che un canale di attività filantropica, attiva ancora oggi. La CWA è la più antica organizzazione fondata da donne locali. Insieme al Kamala Club delle donne indiane e la Young Women’s Muslim Association, la più antica associazione di donne islamiche del mondo, ha inaugurato la lunga tradizione di associazionismo etnico dell’isola.

Tuttavia, le donne di classe media e dell’élite non sono state le uniche a impegnarsi per il miglioramento della condizione delle donne singaporiane. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, alcune donne emigrate dal Sud della Cina importarono a Singapore il movimento religioso cinese dello Xiantiandao (ossia “Via del Cielo Primordiale”), che trae il proprio credo dai “Tre Insegnamenti” di Confucianesimo, Buddismo e Daoismo. Incoraggiate dalle loro pratiche religiose, queste donne erano “resistenti al matrimonio”, oppure spose che si erano rifiutate di consumare il rapporto o di coabitare col marito. Una volta giunte a Singapore, iniziarono a fondare dei monasteri soprannominati “sale vegetariane” (in inglese, “vegetarian halls”) a causa della dieta seguita, che divennero presto rifugio anche per donne vedove, indigenti, vittime di abusi e giovani orfane.

Nel 1955 esistevano circa 350 sale vegetariane a Singapore, dove le donne cooperavano e rivestivano dei ruoli di inaudita autonomia per l’epoca, formando delle vere e proprie unità familiari attraverso un sistema di adozioni religiose. Non a torto, queste sale possono essere considerate un’importante espressione del femminismo indigeno dell’isola, oltre che una realtà pressoché unica nel Sud-Est asiatico. Oggi solo 30 sale resistono ancora alla chiusura per far posto ai templi buddisti tradizionali.

La lotta contro la poligamia 

Dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, il movimento femminista iniziò ad assumere una forma più strutturata, con la fondazione del Singapore Council of Women (SCW). Schierato con il movimento anti-colonialista, fu la prima organizzazione a riconoscere pubblicamente i diritti delle donne come una questione di interesse politico e sociale e a inserirli nella più ampia lotta per la democrazia e i diritti umani.

L’SCW creò asili nido, case di riabilitazione per le donne coinvolte nella prostituzione e diversi servizi di consulenza matrimoniale. La loro campagna più famosa e di successo fu quella per porre fine alla poligamia, negli anni ’50. L’allora nascente Partito di Azione Popolare (PAP) – tuttora alla guida del Paese – fu l’unico partito che incluse specificatamente i diritti delle donne nel suo programma per le elezioni del 1959, impegnandosi a introdurre il matrimonio monogamo in caso di vittoria. Il PAP vinse e fece approvare la Carta delle Donne nel 1961 in cui venivano riconosciuti alle singaporiane numerosi diritti in materia di matrimonio, divorzio, affidamento dei figli, successione ereditaria e protezione contro la violenza.

Tuttavia, la poligamia non venne mai del tutto bandita: oggi, solo il matrimonio civile (introdotto dalla Carta) è monogamo, mentre quello musulmano prevede la possibilità per un uomo di prendere fino a quattro mogli.

Dopo questa vittoria a metà, l’SCW perse slancio e si dissolse nel giro di una decina d’anni. Il movimento femminista riprese lentamente vigore fino al 1980, quando il governo creò il Singapore Council of Women’s Organizations (SCWO), un comitato consultivo nazionale con l’obiettivo di coordinare le attività dei vari gruppi di donne ed eliminare la discriminazione di genere. Oggi, ci sono più di 40 organizzazioni affiliate al SCWO, che rappresentano in totale più di 150.000 donne.

Il “Grande Dibattito sul Matrimonio”

Un rinnovato interesse verso la condizione femminile venne destato dal “Grande Dibattito sul Matrimonio”, come è stata soprannominata dalla stampa singaporiana la serie di reazioni pubbliche che seguì a delle affermazioni dell’allora primo ministro Lee Kuan Yew. Durante il suo discorso per il National Day Rally del 1983, il premier richiamò l’attenzione sul basso tasso di natalità di Singapore (presente soprattutto fra l’etnia cinese), ricollegandolo al fatto che le donne laureate stavano ritardando, se non addirittura rinunciando, a matrimonio e figli per coltivare le proprie aspirazioni professionali.

Convinto eugenista, Lee riteneva che un declino delle nascite fra la popolazione dotata di un livello d’istruzione alto avrebbe provocato un “peggioramento del corredo genetico”, che avrebbe condotto al disastro economico nazionale. Nella sua ottica, tutte le donne potevano essere madri, ma solo le donne colte dovevano diventarlo.

Così, a metà anni Ottanta, il governo diede avvio al Programma di Educazione Familiare, con una serie di campagne educative di massa sui media e degli incentivi economici e sociali. Tutto deliberatamente indirizzato alle donne con l’educazione di livello più alto, che iniziarono a essere bersagliate da slogan come: “Stai dando agli uomini l’idea sbagliata?”. Come risposta diretta alle strategie pro-natalità del PAP, nel 1985 nacque quella che oggi è l’organizzazione femminista più importante di Singapore, l’Association of Women for Action and Research (AWARE). Da allora, questo gruppo si batte per l’uguaglianza di genere nell’ambito del lavoro e dell’educazione, oltre che per la tutela delle donne contro la violenza domestica, ottenendo finora dei discreti successi.

AWARE e i diritti delle lavoratrici straniere

AWARE è stata pensata come un’associazione multietnica, quindi tutte le cittadine e i cittadini di Singapore e chiunque in possesso della residenza permanente con più di 18 anni di età può entrare a farne parte (mentre le persone straniere possono iscriversi solo come membri associati). Tuttavia, dalla fine degli anni ’90, sono state mosse ampie critiche ad AWARE rispetto al suo impegno nella lotta per i diritti delle donne straniere. In quel periodo, infatti, iniziò a sollevarsi la questione degli abusi a cui erano spesso sottoposte le collaboratrici domestiche straniere nel loro ambiente di lavoro. Un problema che AWARE ha trascurato fino al 1998.

Questa situazione si venne a creare a causa della concomitanza di diversi fattori. Innanzitutto, lo stretto controllo dello Stato singaporiano sulla società civile aveva reso i diritti di lavoratrici e lavoratori migranti, in generale, un argomento tabù, che le attiviste erano molto caute nell’affrontare in pubblico. Inoltre, le differenze di classe ed etnia avevano creato diversi ostacoli nella comprensione, da parte delle femministe di AWARE, dei problemi delle donne migranti.

La campagna ventennale del gruppo contro le politiche pro-natalità del governo aveva affrontato questioni che erano al cuore della domanda di collaboratrici domestiche da parte delle famiglie singaporiane (come i ruoli di genere tradizionali e la discriminazione delle donne sul lavoro), ma AWARE non si era mai concentrata sulle condizioni di vita di queste donne. Forse perché la maggior parte delle attiviste di AWARE apparteneva alla classe media e aveva bisogno dell’aiuto delle collaboratrici domestiche, per far fronte ai propri molteplici impegni. Occuparsi della questione migrante avrebbe richiesto loro di mettere in discussione il proprio stile di vita.

Nel 2001, di fronte all’ennesimo brutale omicidio di una giovanissima domestica indonesiana da parte del suo datore di lavoro, nacque The Working Committee Two (TWC2). Dotato di un programma della durata di un anno, mirava a un trattamento più equo delle collaboratrici domestiche straniere attraverso una maggior consapevolezza pubblica e dei cambiamenti legislativi.

In seguito, TWC2 divenne l’acronimo dell’organizzazione permanente Transient Workers Count Too, aperta a cittadine e cittadini, residenti permanenti, lavoratrici e lavoratori migranti di qualsiasi nazionalità. Tuttavia, a causa delle restrizioni imposte dallo Stato sulla registrazione delle ONG, l’accesso alla struttura direttiva è per legge limitata solo ai chi possiede cittadinanza o residenza singaporiana. Nella comprensione dei problemi delle lavoratrici straniere, ad ogni modo, la contrapposizione fra “noi” singaporiane e “loro” migranti resta forte nell’opinione pubblica.

Un movimento penalizzato dal controllo statale sulla società civile

È innegabile che, nel corso del Novecento, si siano sviluppate molte altre organizzazioni di donne a Singapore, oltre ad AWARE. Nessuna di esse, però, ha adottato una posizione dichiaratamente femminista, e pochissime hanno riscosso la stessa attenzione mediatica e istituzionale. AWARE non è una semplice organizzazione del movimento, ma è il movimento stesso – o almeno il suo volto. Questo ha finito col creare molta pressione sul gruppo, oltre al fatto che la storia dell’attivismo femminile al di fuori del suo contesto è tutt’oggi largamente ignorata.

D’altronde, l’ambiente legislativo e politico creato dal PAP negli ultimi sessant’anni non è stato sicuramente incoraggiante per l’emersione di un movimento femminista diversificato e di ampio respiro. Dato il severo regime di registrazione delle associazioni presente nel Paese, il campo è dominato dalle ONG (Organizzazioni Non Governative), mentre collettivi e altre reti informali mantengono un profilo basso per evitare il controllo statale. Inoltre, la popolazione ristretta di Singapore ha fatto sì che, nella sfera della società civile, si creasse un nucleo dominante di attiviste appartenenti alla cerchia dell’élite e della classe media del Paese.

Spesso sono sempre le stesse figure a sedere nei consigli direttivi di AWARE, SCWO, TWC2 e molte altre ONG, creando una stagnazione all’interno del movimento che lascia spazio alle rivalità individuali. La capacità di stringere alleanze formali o creare campagne congiunte non è fra i punti forti delle femministe di Singapore, anche se sono riuscite a formare dei legami transnazionali piuttosto duraturi con gruppi di donne ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico) e con l’UNIFEM (il Fondo di sviluppo delle Nazioni Unite per le donne).

 

Fonti e approfondimenti

Lyons, L., “Transnational networks and localized campaigns. The women’s movement in Singapore”, Women’s Movements in Asia: Feminisms and Transnational Activism, edited by Mina Roces and Louise Edwards, Routledge, 2010.

Zaccheus, M., “Hidden women’s abodes: Singapore’s vegetarian nuns and aunts”, The Straits Times; Singapore, 14/04/2019

Chia, R., G., “Singapore ranked worst place for women to work among top ‘gender-equal’ nations, with about 20% less pay and savings than men”, Business Insider Singapore, 21/02/2019

Kok Xing Hui, “Singapore is top Asian nation for gender equality: UN report”, The Straits Times; Singapore, 29/12/2015

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