Ricorda 1973: il colpo di Stato di Pinochet in Cile

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Fin dalla conquista dell’indipendenza nel 1818, il Cile si è distinto nel contesto latinoamericano per la sua stabilità politica e istituzionale: le elezioni si tenevano regolarmente e nel XX secolo l’attività politica cessò di essere un privilegio esclusivo dell’élite. Fino al 1973, l’alternanza al potere tra le forze più conservatrici e quelle più riformiste impedì l’attuazione di politiche radicali.

Nel 1970, complici i fallimenti delle forze politiche tradizionali, incapaci di dare risposta alla crisi economica che stava scuotendo il Paese, Salvador Allende, alla guida di una composita alleanza di partiti di sinistra, venne eletto Presidente. Nel 1970 Allende aveva l’appoggio del 36,2% degli elettori, salito al 44% nelle elezioni parlamentari del marzo 1973.

Fin da subito, Allende implementò nuove misure economiche: promosse un aumento degli stipendi e un blocco dei prezzi per aumentare il potere di acquisto dei più deboli e portò avanti una importante serie di nazionalizzazioni e una riforma agraria. L’estrema velocità con cui vennero implementati questi cambiamenti generò importanti distorsioni economiche. Il boicottaggio da parte dei produttori, contrari ai prezzi bloccati, si unì al virtuale embargo imposto dagli Stati Uniti, generando una forte scarsità di beni di consumo. La struttura statale non era abbastanza sviluppata per amministrare le grandi aziende nazionalizzate e il governo si trovò a dover ricorrere alla stampa di nuova moneta, cosa che provocò una rapida crescita dell’inflazione. A questa crisi economica si univano le proteste politiche, segno dell’estrema polarizzazione della società. 

All’apice di questa crisi, l’11 settembre del 1973, i militari guidati da Augusto Pinochet decisero di prendere il potere con un colpo di Stato attaccando direttamente il Palazzo presidenziale. Allende, dall’interno del Palazzo, parlò via radio ai cileni per condannare il gesto dei militari e poco dopo, secondo le versioni poi diffuse dalla dittatura militare, si suicidò. 

Il regime di Pinochet si concepì come l’inizio di una nuova epoca nella storia nazionale. Pinochet vedeva la sua autorità come il mandato della Divina Provvidenza. A seguito del golpe, rapidamente, le istituzioni che erano state il marchio di fabbrica del sistema politico cileno furono distrutte: il Congresso fu chiuso, i partiti politici e i sindacati furono banditi. Le forze armate dichiararono lo stato d’assedio sostenendo che il Cile era in preda a una “guerra interna”. 

I nemici della dittatura furono perseguitati, torturati e uccisi. L’eredità del regime comprende circa 4.000 persone uccise o scomparse (con numeri non ufficiali che arrivano a 25.000); decine di migliaia di persone torturate (il numero ufficiale si avvicina a 40.000, ma potrebbe arrivare a 100.000); tra le 150.000 e le 200.000 persone detenute per motivi politici; tra le 200.000 e le 400.000 esiliate

I militari non si limitarono ad applicare le tradizionali tattiche di uccisione e tortura, ma reinventarono anche il concetto di sparizione (già utilizzata nella Germania nazista) come modo per distruggere i nemici politici e per terrorizzare il resto della società, evitando al contempo la responsabilità dei propri crimini. Non essendoci prove, i militari potevano negare l’esistenza dei crimini. 

Il braccio di Pinochet

Dopo Pinochet, l’attore più importante dell’apparato repressivo fu la DINA (Dirección de Inteligencia Nacional), formata da una rete di agenti e militari. La missione dell’agenzia era quella di penetrare i partiti marxisti, eliminare i loro leader e sradicare il pensiero di sinistra dalla società cilena. L’organizzazione era composta da circa 2000-4000 membri tra militari, civili e informatori. 

Il direttore della DINA, il colonnello Contreras, divenne il braccio destro di Pinochet. Fu lui stesso a proporre la creazione di una nuova agenzia di intelligence per combattere il “nemico interno”. L’agenzia iniziò a operare all’inizio del 1974. Nella prima fase, l’obiettivo era disfarsi dei leader del MIR (Movimento della Sinistra Rivoluzionaria), che furono eliminati quasi interamente nel 1974 e nel 1975. Le successive azioni della DINA si concentrarono sui membri dei partiti socialista e comunista e su alcuni leader della Democrazia Cristiana. Anche i leader sindacali e studenteschi furono obiettivi della DINA. 

Per proteggere i responsabili delle violazioni dei diritti umani, Pinochet concesse un’amnistia per alcuni atti criminali commessi tra l’11 settembre 1973 e il 10 marzo 1978. L’obiettivo dichiarato era quello di fomentare l’unificazione nazionale, ma l’effetto pratico fu quello di assolvere gli ufficiali dalla responsabilità per la morte e la tortura di migliaia di persone. 

Verso la transizione

Alcuni scricchiolii economici nei primi anni Ottanta, uniti alle pressioni internazionali, spinsero Pinochet a indire nel 1988 un referendum con cui veniva chiesto al popolo di conferire a Pinochet un ulteriore mandato di 8 anni. I cileni si espressero in senso contrario votando “NO”, costringendo Pinochet a dimettersi, ma questo referendum non rappresentó una vera e propria sconfitta per il dittatore: dopo 15 anni di dittatura, il 43% degli aventi diritto votò in suo favore

In seguito al referendum, i primi governi democratici furono retti da una composita coalizione nota come Concertación, che governò il Paese dal 1990 al 2010. In quegli anni la priorità era la stabilità democratica, un compito complesso dato che Pinochet rimase comandante in capo dell’esercito fino al 1998, anno in cui fu improvvisamente detenuto a Londra, a causa di un ordine di estradizione emesso da un giudice spagnolo che stava indagando sulla morte e la scomparsa di cittadini spagnoli in Cile. 

Per ragioni politiche, negli anni Novanta, i governi diedero priorità alla ricerca di chi era scomparso: la grande rilevanza mediatica che avevano avuto tali sparizioni imponeva di dare risposte quanto prima. I primi tentativi di ricostruzione della verità lasciarono invece da parte i casi delle vittime di detenzione e tortura. Nella fase di transizone alla democrazia, era politicamente più semplice indagare nei casi in cui era più difficile individuare i colpevoli: le vittime di tortura avrebbero infatti potuto individuare i loro aguzzini, che spesso ricoprivano ancora incarichi all’interno delle forze armate.

Fu il presidente Lagos (2000-2006) a commissionare il cosiddetto Rapporto Valech (ufficialmente il Rapporto della Commissione Nazionale sugli incarceramenti politici e le torture), pubblicato il 29 novembre 2004, a seguito di un’indagine durata sei mesi, e poi ampliato nel 2010 con la creazione della Commissione Valech II. 

Le dichiarazioni rese dalle oltre trentacinquemila vittime nel corso di queste indagini sono ad oggi in parte segrete, come stabilito da una legge del 2004 secondo cui le testimonianze verranno rese pubbliche nel 2054. Le storie di alcune delle vittime sono però state raccolte nel libro Cien voces rompen el silencio (Cento voci rompono il silenzio). 

Le storie raccolte documentano con precisione le crudeltà subite dalle vittime nei centri di detenzione controllati dalla polizia e dalle forze armate. La Commissione Valech ha identificato 1.132 centri di detenzione in cui si sono verificate torture e detenzioni politiche (la lista aggiornata è consultabile qui, insieme alla lista delle vittime). In questi centri, l’accesso al cibo era molto precario, con persone che ricordano di non aver mangiato quasi nulla per 17 giorni o di aver ricevuto dell’acqua solo al quinto giorno di detenzione. 

Molte delle vittime sottolineano poi le scarse condizioni igieniche. Patricia Herrera spiega che i detenuti erano costrette a urinare in sacchetti e a mettere gli escrementi ovunque ci fosse spazio disponibile. I vestiti erano limitati a ciò che le vittime indossavano il giorno della loro detenzione. Le celle e gli spazi nei campi di concentramento erano affollati. Mario Florido ha condiviso una piccola cella con altre undici persone che dovevano organizzarsi e fare i turni per poter camminare, defecare o mangiare. Ci sono però anche molte testimonianze di detenuti che erano tenuti in completo isolamento. 

Tutte le vittime raccontano poi il sadismo dei loro torturatori, che li torturavano per ottenere informazioni su inesistenti piani dei marxisti per ottenere il controllo del Paese. Le torture fisiche e psicologiche erano di solito combinate. Le percosse, le impiccagioni, le applicazioni di corrente elettrica si univano alle finte esecuzioni, alle minacce di tortura dei parenti e all’ascolto delle urla strazianti degli altri prigionieri. Sono poi molte le vittime che raccontano di aver subito atroci violenze sessuali: si tratta soprattutto donne, anche incinta, ma a volte anche di uomini. Molti ricordano di aver voluto suicidarsi, ma di non avere modo di farlo. 

In alcuni casi, i prigionieri venivano semplicemente rilasciati senza alcuna spiegazione. A volte le autorità lasciavano semplicemente liberi i detenuti, mentre in altri casi le vittime venivano abbandonate in vari luoghi nel cuore della notte. Enrique Aguirre fu trovato da sua moglie, ancora vivo, in una pila di cadaveri in un canale di Santiago. A volte, invece, gli agenti costringevano i detenuti a firmare documenti in cui dichiaravano di aver ricevuto un trattamento adeguato durante la detenzione. Anche tornati alla libertà, in molti hanno trovato impossibile tornare alla vita normale a causa delle ferite fisiche e psicologiche. 

A cinquant’anni dal colpo di Stato con cui Pinochet prese il potere e a trentacinque anni dal ritorno alla democrazia, in Cile sono in molti a non aver avuto giustizia e in molti a non aver pagato per i propri crimini. Il Cile è infatti uno dei Paesi che ha avuto meno successo nel fare i conti con il proprio passato, a differenza – per esempio – del caso argentino o di quello paraguayano. Il fatto che la ferita sia ancora aperta e polarizzante è emerso recentemente: nelle proteste che hanno scosso il Cile a partire dal 2019, nelle difficoltà incontrate nel nuovo processo costituente, ma anche nel perdurare di potenti fazioni di estrema destra, che fanno propri molti dei messaggi di Pinochet. 

 

Fonti e approfondimenti

Andrés Wood, Machuca, 2004.

Carola Fuentes e Rafael Valdeavellano, Chicago Boys, 2016.

Hugo Rojas, Torture in Chile (1973-1990): Analysis of One Hundred Survivors’ Testimonies, California Western International Law Journal, 2012. 

Silvia Borzutzky, Human Rights Policies in Chile. The Unfinished Struggle for Truth and Justice, Palgrave Macmillan, 2017.

Steve Stern e Peter Winn, El tortuoso camino chileno a la memorialización, Lom ediciones, 2014.

 

Editing a cura di Elena Noventa

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