«Gli Stati Uniti non possono far correre questo rischio al popolo statunitense. Lasciare Saddam in possesso di armi di distruzione di massa per altri mesi o anni non è un’opzione: non dopo l’11 settembre». Così l’allora Segretario di Stato Colin Powell espose durante un lungo e articolato discorso in sede del Consiglio di Sicurezza ONU, quelli che il suo governo riteneva essere i capi d’accusa contro il regime di Saddam. Un mese dopo, il 20 marzo 2003, gli Stati Uniti iniziarono la missione di guerra Iraqi Freedom, in piena violazione del diritto internazionale.
La volontà dell’amministrazione Bush di destituire il regime di Saddam Hussein, iniziò a emergere internamente a partire da luglio 2002. Il presidente iracheno veniva ritenuto colpevole infatti, della detenzione di armi di distruzione di massa. Il governo di Washington sosteneva che l’Iraq, nonostante le numerose sanzioni attribuitegli dalle Nazioni Unite proprio per questo motivo a partire dalla fine della guerra del Golfo, si sarebbe ostinato a non eliminare tali armamenti.
Guerra preventiva
Il momento in cui l’amministrazione Bush dovette rendere pubbliche le sue intenzioni su come intendeva procedere nella guerra al terrorismo iniziata con l’attacco all’Afghanistan del 7 ottobre 2001 arrivò quando il presidente statunitense pronunciò il suo discorso sullo stato dell’Unione di fronte al Congresso riunito in seduta plenaria e ai cittadini statunitensi che lo seguivano in diretta televisiva. Bush annunciò l’impegno degli Stati Uniti nell’eliminare la minaccia rappresentata dai terroristi ovunque essi fossero nel mondo e dai regimi che cercavano di impadronirsi delle armi di distruzione di massa, come quelli dei Paesi che costituivano quello che indicò come “Asse del male”: Iraq, Iran e Corea del nord.
Come avrebbe proceduto l’amministrazione Bush per sconfiggere il terrorismo internazionale, eliminare le armi di distruzione di massa in Iraq e instaurare una “pace giusta” fatta di etica, democrazia, libero mercato e protezione dei diritti dell’uomo in Medio Oriente?
La risposta a questa domanda è contenuta nella Strategia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti che fu resa ufficiale nel settembre 2002. Il mezzo con il quale l’amministrazione Bush intendeva combattere il terrorismo internazionale era la “guerra preventiva”: la decisione di uno Stato di colpire in modo preventivo il proprio presunto nemico, prima che quest’ultimo possa avere la possibilità di attaccare o comunque di rendere esplicita la supposta minaccia.
Il concetto di guerra preventiva non è riconosciuto come valido dalla Carta delle Nazioni Unite, che giustifica una guerra soltanto in risposta a un attacco già avvenuto.
Anche per questo, l’invasione dell’Iraq da parte dell’amministrazione Bush fece precipitare la crisi delle relazioni transatlantiche. L’unilateralismo con il quale gli Stati Uniti avevano imposto l’attacco all’Iraq, passando sopra a tutte le regole del diritto internazionale e alla legittimità delle Nazioni Unite, era senza precedenti nella storia delle relazioni transatlantiche.
L’invasione e gli effetti interni alla nazione irachena
Il popolo iracheno, già in evidente difficoltà dopo la prima Guerra del Golfo e le sanzioni che si susseguirono, accolse inizialmente di buon grado l’operazione Iraqi Freedom e tutto ciò che essa comportava. L’invasione di terra del Kuwait da parte della forza multinazionale formata da USA, Polonia, Gran Bretagna e Australia incontrò una sterile resistenza: evitando lo scontro frontale, le forze armate irachene si ritirarono pian piano fino a concedere la conquista finale di Baghdad il 9 aprile 2003. Il simbolo di questa reazione sociale all’invasione straniera furono i festeggiamenti che ne seguirono, dei quali è ormai famoso l’abbattimento in diretta mondiale della statua di Saddam Hussein nella capitale.
Tuttavia, il popolo iracheno dovette fare i conti con gli errori degli “occupanti”. Ai festeggiamenti seguirono saccheggi ai beni e ai simboli del regime; eliminati esercito e tutte le forze di polizia locale, la popolazione scoprì la cruda verità dell’occupazione: le false promesse di protezione e ricostruzione.
Questo comportamento fu subito visto come la scintilla che provocò la creazione del movimento di resistenza iracheno, nato subito dopo la fine dell’invasione. Lo sviluppo di un movimento di resistenza armata all’occupazione “fu ovviamente sostenuto anche dagli ex-bathisti, che speravano di poter negoziare una qualche reintegrazione e, con ancor più forza, dai jihadisti sunniti variamente legati ad al-Qaida, che speravano di fare dell’Iraq un nuovo Afghanistan.”
Quale futuro per l’Iraq?
La “CPA” (Amministrazione provvisoria della coalizione), istituita nell’aprile 2003, prese il mano il potere nel paese attraverso la guida dello statunitense Paul Bremer per un anno. Durante questa prima fase transitoria, gli occupanti commisero degli errori che ebbero degli effetti socio-politici irreversibili: il partito Ba’ath e l’esercito iracheno furono aboliti per decretum; ci fu una privatizzazione dell’economia che giovava agli investitori stranieri; il programma di ricostruzione fu realizzato con le rendite petrolifere irachene e assegnato, spesso senza una gara d’appalto, ad alcune delle più famose compagnie a stelle e strisce.
Questo “liberismo selvaggio e […] la sfacciata corruzione” che gli occupanti crearono a Baghdad non pochi problemi. La scomparsa del Ba’ath e dell’esercito nazionale privò il paese della sua classe dirigente e, sotto l’influenza della commissione preposta, guidata dal già menzionato sciita Chalabi, si trasformò in una generale purga anti-sunnita guidata dagli sciiti.
Quando la CPA concluse il suo lavoro, il potere formale tornò agli iracheni attraverso l’istituzione nel luglio 2003 del “Consiglio di governo iracheno”, composto da 25 personalità nominate direttamente da Bremer; questi ultimi furono scelti secondo criteri rigidamente clientelari ed etnico-confessionali. Agendo in tale direzione, compreso lo smantellamento totale delle istituzioni, portarono l’Iraq in due rovinose direzioni: in un primo momento, la retribuzione del potere totalmente settaria, favorevole in un certo qual modo agli sciiti e ai Curdi; in un secondo momento, una frammentazione localistica, dunque non nazionale, della gestione del potere.
Entrambe queste tendenze minarono quel che di poco era rimasto della coesione nazionale e tutte le possibilità, seppur remote, per una ricostruzione in senso democratico dell’Iraq post-Saddam.
Fonti e approfondimenti
Richard A. Clarke, Against all Enemies: Inside America’s War on Terror, (New York: Simon & Schuster, 2004).
Ivo H. Daalder e James M. Lindsay, America unbound: The Bush Revolution in Foreign Policy, (Washington D. C., Brookings Institution Press, 2003).
Vito Fatuzzo, “Perché gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq?”, Istituto Analisi Relazioni Internazionali, 2023
Laura Guazzone, “Storia contemporanea del mondo arabo: i paesi arabi dall’impero ottomano ad oggi”, Mondadori Università, 2016, pp. 393-414
Richard N. Haass, War of necessity, War of choice: a memoir of two Iraq Wars, (New York:
Simon & Schuster, 2009).
Kenneth Michael Pollack, The threatening storm: the case for invading Iraq, (New York: Random House, 2002).
Bob Woodward, Bush at war, (New York: Simon & Schuster, 2002).
Bob Woodward, Plan of attack, (New York: Simon & Schuster, 2004).
Editing a cura di Elena Noventa