Israele dopo il 7 ottobre, il fact-checking

fact checking
Immagine generata con supporto Canva © Lo Spiegone

Sono passati sei mesi dal 7 ottobre, quando uomini armati di Hamas si sono infiltrati nel sud di Israele. Il bilancio stimato è di circa 1.200 persone uccise e di 253 prese in ostaggio. Da quel momento oltre 33 mila palestinesi sono stati uccisi dalle bombe israeliane, molti altri potrebbero essere ancora sotto le macerie. 

La risposta sproporzionata del governo guidato da Benjamin Netanyahu non si è concretizzata solo nell’azione militare, ma anche in una macchina propagandistica (la hasbara) volta a giustificare i suoi orrori. I casi in cui le parole delle forze armate israeliane (Idf) e dei politici di Tel Aviv si sono in seguito dimostrate false – o non sono state confermate da prove – sono molti. 

Pochi giorni dopo il 7 ottobre, le Idf hanno portato giornalisti internazionali in visita nel kibbutz di Kfar Aza e, durante il tragitto, hanno diffuso voci secondo le quali almeno 40 bambini erano stati uccisi da Hamas, molti dei quali decapitati. 

Dopo mesi, il numero ufficiale fornito dal Consiglio Nazionale Israeliano per l’Infanzia parlerà di 38 bambini, tre di questi con meno di tre anni e quattro con un’età compresa tra 3 e 6 anni. Quattordici di questi bambini sono morti negli attacchi missilistici di Hamas, non durante gli assalti ai kibbutz. Delle decapitazioni nessuna prova, nonostante le parole di vertici delle Idf come il portavoce Jonathan Conricus.

Sull’attacco di Hamas verranno diffuse notizie mai confermate o semplicemente non vere che contribuiranno ad alimentare la narrazione negativa nei confronti dei palestinesi, non solo di Hamas. Narrazione che è servita al governo di Netanyahu come scusa per quello che alcuni, compresa la Relatrice speciale delle Nazioni Unite, Francesca Albanese, definiscono espressamente come un genocidio. 

La hasbara ha puntato anche sul collegamento con la Shoah. Guy Basson, vice comandante della Brigata Kfir, ha dichiarato di aver visto i corpi di otto bambini giustiziati in un asilo nido nel kibbutz Be’eri. Tra le vittime ci sarebbe stato anche un sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz. Non era vero. Come non era vera la storia dei bambini messi nel forno o del feto estratto da una donna incinta e poi pugnalato davanti a lei. 

Un giornalista isrealiano, Ishay Cohen, ha attaccato le Idf quando gli hanno fatto intervistare un soldato che riferiva di “neonati e bambini appesi in fila su uno stendibiancheria” da Hamas. Dopo aver preso coscienza che si trattava di informazioni false, Cohen ha cancellato l’intervista.

“Ammetto che non pensavo fosse necessario verificare la verità di una storia portata da un tenente colonnello… Perché un ufficiale dell’esercito avrebbe inventato una storia così orribile? Mi sbagliavo”. 

Non ha fatto marcia indietro, invece, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden che ha affermato a più riprese di aver visto personalmente fotografie di bambini decapitati e altre atrocità, anche dopo che la Casa Bianca ha ammesso di non aver visto foto del genere. Haaretz ha cercato di spiegare che tante delle notizie riportate sul 7 ottobre erano false. La loro diffusione non fa altro che creare una polarizzazione tra chi nega quello che di vero è successo e chi utilizza queste fake news. Nel tentativo di disumanizzare i palestinesi e giustificare quello che Israele sta facendo da quella data in poi. 

Tel Aviv ha accusato Hamas di aver violentato le donne israeliane, prima di essere uccise o durante la loro prigionia, secondo quella che sarebbe “una pratica sistematica”. 

Il portavoce del governo israeliano Eylon Levy ha parlato di una “macchina stupratrice di Hamas”. Dopo una visita di 17 giorni in Israele, la Rappresentante speciale delle Nazioni Unite sulla violenza sessuale nei conflitti, Pramila Patten, ha riferito di aver trovato insieme a un team di esperti “informazioni chiare e convincenti”. 

Secondo il rapporto Onu “ci sono ragionevoli motivi per ritenere che la violenza sessuale legata al conflitto sia avvenuta in più luoghi durante gli attacchi del 7 ottobre“. Almeno tre: il sito del festival musicale Nova e i suoi dintorni, Road 232 e kibbutz Re’im. Si sono svolti 33 incontri con rappresentanti israeliani e sono state esaminate più di 5.000 immagini fotografiche e 50 ore di riprese video, ma “nonostante gli sforzi concertati per incoraggiare” le vittime a farsi avanti, il team non è stato in grado di intervistare nessuno di loro. 

Il rapporto spiega che alcune accuse di stupro e violenza sessuale erano “infondate”, incluso il caso del feto pugnalato dopo essere stato estratto. 

Lo studio non conferma le accuse di Israele secondo cui lo stupro di massa organizzato è stato una componente centrale di un’operazione meticolosamente pianificata nel corso degli anni, insomma di una violenza sistematica. 

Nel resoconto Onu si analizzano anche le accuse di violenze fatte nei confronti delle donne palestinesi sotto la custodia israeliana. Compresi “toccamenti indesiderati di aree intime” e “nudità forzata e prolungata”, anche durante irruzioni nelle case e ai posti di blocco. Il rapporto specifica che c’è la possibilità che le norme culturali conservatrici potrebbero impedire la denuncia di aggressioni sessuali. Israele ha respinto l’accusa, come già fatto quando le accuse erano state avanzate da un gruppo di esperti indipendenti dell’Onu.

Il fatto che Hamas abbia costruito una fitta ragnatela di tunnel sotto Gaza non è una novità. Fu lo stesso Yahya Sinwar, leader della milizia nella Striscia, a dichiarare nel 2021 che la rete era lunga oltre 500 chilometri. Usati per il contrabbando con l’Egitto, come rifugi per gli uomini della milizia e per stoccare armi, i tunnel sono stati uno degli obiettivi dichiarati dei bombardamenti israeliani dal 7 ottobre in poi. Alcuni di questi sarebbero partiti dall’ospedale più grande della Striscia, l’al-Shifa di Gaza city. 

Per le Idf lì sotto si sarebbe trovato anche il quartier generale di Hamas. Questo avrebbe giustificato la violazione delle norme internazionali di guerra, che inseriscono le strutture sanitarie tra i luoghi che godono di protezione speciale. Settimane prima che Israele inviasse truppe ad al-Shifa, il portavoce Daniel Hagari ha portato avanti una campagna martellante in questa direzione. Adducendo prove “concrete” che nel suo resoconto erano innegabili. 

Human rights watch ha tuttavia segnalato di non poter corroborare la presenza del quartier generale di Hamas. 

L’organizzazione lo ha spiegato su X. Dopo che il 15 novembre l’ospedale è stato preso d’assalto, con una gestione dell’evacuazione dei civili molto discutibile, le Idf hanno pubblicato una serie di video e foto che – nella sua visione – dovevano provare le sue affermazioni. Eppure nessuna di queste mostrava che sotto al-Shifa ci fosse il quartier generale di Hamas. 

Come hanno dimostrato in molti, tra cui il Washington Post, “le stanze collegate alla rete di tunnel scoperte dalle truppe dell’Idf non mostravano prove immediate di un uso militare da parte di Hamas”. “Nessuno dei cinque edifici ospedalieri identificati da Hagari sembrava essere collegato alla rete di tunnel” e “non ci sono prove che sia possibile accedere ai tunnel dall’interno dei reparti ospedalieri”.

L’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente, è stata oggetto di una campagna diffamatoria da parte del governo di Israele.

Non è un caso, visto che si tratta della più grande organizzazione umanitaria attiva a Gaza, dopo la sua fondazione nel 1949 avvenuta proprio per proteggere i palestinesi cacciati dalle loro case. E non è un caso nemmeno la tempistica con cui è avvenuto l’attacco frontale. Ovvero subito dopo che la Corte internazionale di giustizia ha stabilito di procedere con il caso di genocidio avanzato dal Sudafrica contro Tel Aviv. 

In quel momento è arrivato sulle scrivanie di molti Paesi un rapporto con il quale si accusavano 12 dipendenti dell’Unrwa (su 30 mila totali) di aver partecipato alle violenze del 7 ottobre. Si aggiungeva che il 10% dei 12 mila lavoratori dell’agenzia Onu disposti sul territorio aveva un qualche legame con Hamas. Numeri che, anche se confermati, sarebbero irrisori e che non tengono in considerazione che Hamas non è solo una milizia armata, ma anche l’autorità al governo in Gaza. 

Nove dipendenti accusati di aver partecipato al 7 ottobre sono stati immediatamente licenziati dall’Unrwa, ma questo non è bastato agli Usa e ad altri 14 Paesi (tra i quali l’Italia) che hanno deciso di sospendere i finanziamenti all’agenzia. La decisione è stata presa nonostante il parere contrario di diverse organizzazioni internazionali, tra le quali c’è anche Amnesty international.

Ma le inchieste di molti giornali internazionali hanno corroborato la fallacia delle accuse di Israele e, di conseguenza, delle mosse di tanti Paesi occidentali nei confronti dell’UNRWA. 

Sky News afferma che “i documenti dell’intelligence israeliana fanno diverse affermazioni di cui l’emittente non ha visto prove e molte delle affermazioni, anche se vere, non implicano direttamente l’Unrwa”. Per il canale britannico Channel 4, che ha visionato il documento, non c’è “alcuna prova” di quanto sostenuto da Israele. Per il Financial Times le accuse di partecipazione diretta agli attacchi del 7 ottobre erano dirette contro 4 palestinesi e non 12.

Come riferisce The Intercept, l’azione di Israele ha anche violato esplicitamente gli ordini emessi dalla Corte mondiale. I quali ordinavano di “adottare misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura dei servizi di base e dell’assistenza umanitaria urgentemente necessari”. 

All’alba del 29 febbraio, almeno 112 palestinesi sono morti e circa 700 sono rimasti feriti dopo essersi radunati a Gaza City. Le persone attendevano uno dei rarissimi convogli di aiuti militari che raggiunge la capitale della Striscia. Funzionari palestinesi sostengono che le forze israeliane abbiano aperto il fuoco sulla folla. In un video pubblicato dalle stesse Idf si vedono centinaia di persone correre all’impazzata, in sottofondo si sentono raffiche di mitra.

Il portavoce delle Idf Hagari si è affrettato ad attribuire la responsabilità della tragedia alla calca di persone che, secondo la loro ricostruzione, sarebbe morta schiacciata dove essersi fatta prendere dal panico a seguito di alcuni spari di avvertimento dell’esercito. La ricostruzione dei testimoni oculari è diversa. 

In attesa degli aiuti, centinaia di persone si sarebbero riunite in grandi gruppi. Quando si sono avvicinati ai camion, sono partiti gli spari delle Idf. Dopo che questi si sono interrotti, le persone sono tornate ai camion, per vedere i soldati aprire nuovamente il fuoco. 

Secondo testimoni oculari e medici morti e feriti sono stati portati con ferite da arma da fuoco nelle poche strutture sanitarie rimaste. Le Idf hanno sostenuto di aver sparato anche perché si sarebbero sentite minacciate dalla presenza di uomini armati, ma comunque di non aver puntato alla folla. 

In una relazione del 5 marzo, gli esperti delle Nazioni Unite hanno condannato la violenza “scatenata dalle forze israeliane” definendola un “massacro”. “Israele sta affamando intenzionalmente il popolo palestinese di Gaza dall’8 ottobre. Ora prende di mira i civili in cerca di aiuti umanitari e i convogli umanitari”, hanno detto gli esperti. Chiedendo a Israele di porre fine alla sua “campagna di fame e di attacchi contro i civili”. 

“L’attacco è avvenuto dopo che Israele ha negato gli aiuti umanitari a Gaza City e nel nord di Gaza per più di un mese”, hanno detto gli esperti. Essi hanno rilevato che il massacro del 29 febbraio ha seguito uno schema di attacchi israeliani contro civili palestinesi in cerca di aiuto. Con oltre 14 episodi registrati di sparatorie, bombardamenti e attacchi a gruppi riuniti per ricevere rifornimenti urgenti da camion o lanci aerei tra la metà di gennaio e la fine di febbraio 2024.

Comments are closed.

Scopri di più da Lo Spiegone

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continua a leggere