La guerra nello Yemen, iniziata nel 2015 e tuttora in corso, è almeno in parte frutto di problemi rimasti irrisolti dal 1990, anno dell’unificazione del Paese. Nei trent’anni che hanno seguito la fusione delle due repubbliche yemenite, infatti, la faglia tra nord e sud è divenuta sempre più profonda. Questa è più volte sfociata in episodi di violenza e ha raggiunto un nuovo apice nel contesto odierno quando, lo scorso 25 aprile, il movimento indipendentista meridionale al-Hirak al-Janubi, ha dichiarato la secessione.
I due Yemen
L’angolo sud-occidentale della Penisola Araba è noto come Yemen fin dall’epoca preislamica. La regione è quindi ben definita dal punto di vista geografico, pur essendo stata per la maggior parte della sua storia politicamente frammentata. All’inizio del Novecento, lo Yemen risultava diviso in un imamato zaidita a nord e un protettorato britannico a sud. Nel 1839 il Regno Unito aveva infatti occupato e reso colonia la città portuale di Aden, uno snodo fondamentale per i traffici marittimi tra Europa e Asia, per poi estendere la propria influenza nell’entroterra tramite accordi con i diversi capi locali. Ma, nel corso degli anni Sessanta del XX secolo, cambiamenti radicali a livello regionale e globale causarono la caduta dei regimi precedenti.
All’inizio del decennio ad Aden iniziarono a diffondersi sentimenti anti-imperialisti che portarono alla formazione del Fronte di Liberazione Nazionale. Facendo leva sui legami tribali dei suoi membri, il movimento guadagnò sostenitori non solo nella città ma anche nelle zone rurali, contribuendo in questo modo a unificare la popolazione. La guerra per l’indipendenza iniziò il 14 ottobre 1963. All’epoca, il Regno Unito stava già preventivando il suo ritiro dalla regione, con l’idea di lasciare i Paesi del Golfo in mano a governanti alleati e mantenere così un controllo indiretto sugli ex domini. Nel caso dello Yemen del Sud ciò non avvenne: il 29 novembre 1967 i britannici ammisero la sconfitta contro le forze insurrezionaliste e lasciarono il Paese. Il giorno successivo, il Fronte di Liberazione Nazionale annunciò la nascita della Repubblica Democratica Popolare dello Yemen (RDPY), con capitale Aden. Il nuovo Stato aderì all’ideologia marxista (caso unico nel mondo arabo) e trovò nell’Unione Sovietica il suo principale alleato e sostenitore.
Lo Yemen del Nord divenne invece uno degli scenari della cosiddetta “guerra fredda araba” tra l’Egitto di Nasser e l’Arabia Saudita degli al-Saud. Con il sostegno egiziano, il 26 settembre 1962 le forze armate di Sana’a rovesciarono la teocrazia zaidita alla guida del Paese dal 1918 e proclamarono la Repubblica Araba dello Yemen (RAY). Ma l’Arabia Saudita, che aveva accolto l’imam in fuga, vide con preoccupazione la caduta di un regime conservatore per mano dei repubblicani e si schierò con quanti erano rimasti fedeli all’imamato, fomentando una guerra civile tra monarchici e repubblicani. Le ostilità tra Il Cairo e Riyad terminarono nel 1967 quando, a seguito della disastrosa sconfitta della guerra dei Sei Giorni, Nasser si vide costretto a ritirarsi dallo Yemen. Tuttavia, la guerra civile proseguì per altri due anni. I repubblicani si assicurarono infine la vittoria, ma un governo stabile non venne raggiunto fino al 1978, quando il giovane capo militare Ali Abdullah Saleh, anch’egli sciita zaidita, divenne presidente.

Figura 1. La Repubblica Araba dello Yemen e la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen. Fonte: Wikipedia Commons
Il processo di unificazione
Nonostante i due Stati yemeniti fossero completamente differenti, una repubblica nazionalista e militare a nord e uno Stato marxista a sud, l’idea di una possibile unificazione iniziò presto a circolare. Come già accennato, il concetto geografico di Yemen esisteva da secoli, pur non essendo mai stato tradotto in un’entità politica unitaria, e i suoi abitanti si identificavano come yemeniti. Inoltre, i repubblicani del nord avevano contribuito alla cacciata dei britannici tramite la creazione di un’apposita commissione per l’invio di truppe e aiuti al Fronte di Liberazione Nazionale. Un ulteriore stimolo all’unificazione venne poi dalla scoperta di giacimenti petroliferi nelle zone a cavallo tra i due Paesi. Il progetto richiese però molto tempo e i colloqui vennero interrotti nel 1972 e nel 1979 da due guerre di confine.
Alla fine degli anni Ottanta, la RAY iniziò a guadagnare una posizione di vantaggio nei negoziati, mentre i vertici del governo meridionale furono indeboliti da crescenti divisioni interne che sfociarono in conflitto nel 1986. Inoltre, il declino dell’Unione Sovietica privò la RDPY del suo principale alleato politico e partner economico. Per Aden, una rapida unione con il più ricco e popoloso nord rappresentava quindi l’unica speranza di sopravvivenza. Nel novembre 1989 le due parti firmarono quindi un accordo definitivo e il 22 maggio 1990 venne annunciata la nascita di uno Yemen unito, con capitale Sana’a.
Inizialmente, l’unificazione fu ben accolta da entrambe le parti e dalla comunità internazionale. L’entusiasmo generale svanì però con le elezioni del 1993. Il Congresso Generale del Popolo guidato da Saleh ottenne la maggioranza dei voti, seguito dal partito islamico del nord, Islah, mentre il Partito Socialista del sud ottenne una vittoria schiacciante nelle province dell’ex RPDY. I risultati delle elezioni rivelarono quindi come fosse ancora consolidato tra gli yemeniti un senso di appartenenza regionale più che nazionale.
La guerra civile del 1994 e le sue conseguenze
Il Partito Socialista dichiarò che avrebbe accettato una soluzione di governo solo nel caso in cui ruoli e poteri fossero stati equamente divisi tra i rappresentanti del Nord e del Sud. Affermando il proprio diritto a governare le province dell’ex RDPY, i vertici del Partito ipotizzarono una nuova configurazione dello Stato su base federale, con Saleh come presidente. Ma questi interpretò la proposta come un complotto secessionista e rispose con la marginalizzazione politica dei rappresentanti meridionali. Le tensioni che seguirono culminarono, il 7 aprile 1994, con uno scontro tra gli eserciti del Nord e del Sud, che nel frattempo non erano stati uniti. La battaglia degenerò subito in una vera e propria guerra di secessione. Il conflitto venne soppresso nel mese di luglio, quando le truppe di Sana’a marciarono su Aden. La repressione manu militari della rivolta lasciò così un segno nella memoria collettiva del Sud.
Dal termine della guerra civile, Saleh mantenne il ruolo di presidente dello Yemen per quasi vent’anni. Durante questo lungo mandato consolidò il proprio potere sfruttando e favorendo le differenze regionali, una strategia di divide et impera da lui stesso definita come una “danza sulle teste dei serpenti”. Il risultato fu l’esacerbarsi della dicotomia Nord-Sud. Lo Stato stesso contribuì a diffondere l’idea che i meridionali fossero secessionisti, comunisti e atei. Questi ultimi, dal canto loro, rimproverarono al governo l’esclusione dalla distribuzione delle ricchezze e da una rappresentanza politica.
Dall’Hirak al-Janubi al Consiglio di Transizione del Sud
Il malcontento del Sud portò nel 2007 alla creazione di un movimento meridionale anti-establishment, al-Hirak al-Janubi, diffusosi soprattutto ad Aden. Inizialmente, l’obiettivo degli attivisti era il riconoscimento dei diritti e delle specificità identitarie dello Yemen del Sud e il dissenso veniva manifestato tramite proteste pacifiche. Tuttavia, i brutali interventi repressivi delle forze di sicurezza governative, denunciati anche da Human Rights Watch, non fecero altro che alimentare il risentimento verso Sana’a. Molti yemeniti meridionali si convinsero che l’unione con il Nord non fosse più possibile; pertanto, l’obiettivo di al-Hirak al-Janubi divenne l’autonomia. La bandiera dell’ex RDPY tornò nelle piazze di Aden.
A seguito delle rivolte popolari del 2011, in cui Saleh rimase ferito durante un attentato, Abd-Rabboh Mansur Hadi, suo vice, venne nominato presidente ad interim; riconfermato con le elezioni del 2012, cercò di appianare i dissidi con i secessionisti tramite la Conferenza per il Dialogo Nazionale nel 2013 e nel 2014. Tuttavia, i vertici di al-Hirak al-Janubi rifiutarono di parteciparvi e continuarono a chiedere l’indipendenza.
All’inizio della guerra civile del 2015, al-Hirak al-Janubi si schierò con la coalizione anti-Houthi a guida saudita, vedendo i ribelli zaiditi come dei potenziali nuovi invasori. Il movimento si distaccò dagli alleati nella primavera 2017, quando Hadi licenziò Aidarous al-Zubaidi, governatore di Aden, nominata capitale ad interim dopo la caduta di Sana’a. In risposta, al-Hirak al-Janubi creò un suo ramo politico, il Consiglio di Transizione del Sud (CTS), dichiaratamente secessionista e guidato da al-Zubaidi stesso.
Gli ultimi sviluppi: la presa di Aden e la secessione
L’operato dei secessionisti ha trovato un importante sostegno negli Emirati Arabi Uniti, nonostante questi siano alleati dell’Arabia Saudita, a sua volta sostenitrice di Hadi. Gli emiratini considerano il nuovo presidente yemenita un leader troppo debole e non vedono di buon occhio la sua alleanza con Islah, partito vicino ai Fratelli Musulmani. Sembrerebbero invece intenzionati a ricreare uno Yemen del Sud per farne una sorta di Stato vassallo. Questo permetterebbe agli Emirati di controllare Aden, impedendo che la città diventi un centro di traffico marittimo capace di minacciare le loro attività portuali. Infine, è utile ricordare che lo Yemen possiede la sponda orientale dello stretto di Bab al-Mandeb, che collega l’Oceano Indiano con il Mar Rosso.
Il 10 agosto 2019, i separatisti hanno assunto il controllo effettivo di Aden. Il novembre successivo, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi hanno tentato di ricompattare il fronte anti-Houthi mediando un trattato di collaborazione tra i secessionisti e Hadi. L’accordo avrebbe dovuto portare in poche settimane alla formazione di un governo unitario sotto il controllo saudita, in cui le due parti si sarebbero divise equamente il potere. Tuttavia, l’accordo è rimasto lettera morta. Il 25 aprile 2020 il CTS ha quindi annunciato la secessione del governatorato di Aden.
Abu Dhabi ha reagito alla notizia sottolineando come Hadi e i suoi alleati non avessero creato il governo precedentemente stabilito. Allo stesso tempo, gli emiratini hanno lasciato intendere di non essere coinvolti nella decisione del CTS. Tuttavia, considerata la dipendenza di al-Zubaidi da Abu Dhabi, è improbabile che i secessionisti abbiano compiuto un’azione così radicale senza essersi consultati prima con l’alleato.
Infine, il 22 giugno le forze separatiste si sono impadronite dell’importante isola di Socotra. Il governo internazionalmente riconosciuto ha denunciato la mossa come un colpo di stato. La dichiarazione di autogoverno e le azioni del CTS hanno aggiunto un’ulteriore dimensione di instabilità in un contesto già altamente complesso, ponendo ancora una volta l’attenzione sul fallimento dell’unificazione del 1990.
Fonti e approfondimenti:
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Eleonora Ardemagni, Yemen: I limiti della democrazia “a segmenti”, ISPI online, 21/02/2020
Eleonora Ardemagni, Yemen, i secessionisti del sud sfidano l’Arabia Saudita, ISPI online, 27/04/2020
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Kim Salmutter, Why did the transition process in Yemen fail?, SciencesPo Kuwait Program, 2017
Ali Younes, Dividing Yemen a key Saudi-UAE objective, analyst says, Aljazeera, 27/04/2020
Grafica: Marta Bellavia – Instagram: illustrazioninutili_