Ricorda 2000: l’Uganda vota contro il passaggio al sistema multipartitico

Il 29 giugno 2000, i cittadini ugandesi sono stati chiamati a scegliere, tramite referendum, tra il sistema politico vigente – definito no-party o “del movimento” – e il sistema multipartitico. Come si evince dal titolo, il 91% dei votanti ha espresso la volontà di proseguire con il sistema disegnato dal National Resistance Movement (NRM) e da Museveni, che anche se non può essere definito one-party system, di fatto, permette soltanto al NRM di operare.

La creazione del no party-sistem

Yoweri Museveni è diventato presidente autoproclamandosi tale, nel 1986, durante un colpo di stato che cercava di fermare, e non ha più lasciato la carica. Prima di lui il Paese era stato scosso da numerose prese e riprese di potere illegittime e scontri dettati dalla smania di dominio e dalle affiliazioni etnico-religiose degli esponenti governativi.

Tra il 1991 e il 1996, Museveni creò un sistema politico in cui di fatto esisteva un solo partito, il NRM, ma all’interno del quale veniva lasciato ampio spazio al dibattito e al confronto. In più sia internamente che all’esterno, il movimento creava opportunità per le donne e per i gruppi solitamente marginalizzati. Museveni riuscì così a ottenere un forte appoggio da parte della popolazione, per sé e per il movimento.

Il motivo per il quale Museveni riteneva indispensabile la limitazione delle attività dei gruppi politici alternativi al movimento era la paura che il sistema multipartitico potesse causato il riemergere dei settarismi etnici e religiosi, almeno a suo dire.

Quando nel 1994 i lavori per la scrittura della Costituzione ebbero inizio, il no party-system venne istituzionalizzato. L’art. 72 garantiva ai cittadini il diritto di formare partiti e organizzazioni politiche, ma l’art. 270 impediva a tali gruppi di avere sezioni locali, di organizzare raduni, di fare campagna elettorale e di svolgere attività in contrasto con il sistema politico del movimento.

A partire dal 1996 il carattere inclusivo del movimento venne meno: la situazione economica del Paese peggiorò, la disoccupazione crebbe anche a causa delle politiche suggerite dall’IMF che spinsero il governo a tagliare posti di lavoro pubblici e vennero silenziate le voci interne di dissenso. A questo punto, non lasciando nessuno spazio per l’opposizione, il movimento si trasformò in quello che Sigmun Neumann chiama party of integration, un partito che vuole trasformare la realtà per renderla adatta all’applicazione delle proprie idee, che considera giuste, contro tutte le altre che sono invece soltanto errori.

Il salto da un sistema di democrazia illiberale – in cui i partiti non possono operare, ma in cui si tengono con regolarità elezioni di ogni grado e i diritti sono garantiti – a uno di integrazione totale fu breve. Nel 1997 venne approvato dal Parlamento il Movement Bill senza i numeri previsti dalla Costituzione. La proposta di legge faceva sì che tutti i cittadini fossero parte del movimento e nella seduta parlamentare che ne approvò la conversione non fu raggiunta la maggioranza di 2/3 dei deputati prevista dall’art. 74 della Costituzione per poter apportare modifiche al sistema politico.

Il referendum

Il referendum del 2000 era previsto dall’art. 272 della Costituzione per permettere agli ugandesi di scegliere il sistema politico. La proposta di legge per indirlo venne convertita il 1 giugno del 1999, ma senza il quorum necessario. La Corte costituzionale si pronunciò annullando la pratica e costringendo il movimento a preparare una nuova proposta che venne poi convertita il 6 giugno 2000.

Nel frattempo in Parlamento si discuteva in merito a un’altra proposta, il Movement Bill, che avrebbe dovuto aumentare lo spazio di azione dei partiti. La conversione non ci fu mai. La posizione di Museveni era chiara: se si fosse permesso ai partiti di operare, il sistema sarebbe diventato multipartitico senza passare per il referendum.

Per quanto riguarda il referendum, le posizioni espresse dagli esponenti politici dei partiti erano tre:

  • il movimento, con la voce di Museveni, sosteneva che il Paese non fosse ancora pronto al sistema multipartitico in quanto le differenze sociali non erano di classe, ma religiose ed etniche;
  • i partiti maggiori, tra cui il Democratic Party e l’Uganda People’s Congress, chiamavano al boicottaggio – e quindi all’astensione – in quanto non necessario votare per un diritto fondamentale;
  • un gruppo di partiti minori spingevano per il multipartitismo, ma erano mal organizzati e divisi.

Come anticipato, il movimento ebbe la meglio e il suo sistema politico venne mantenuto. Solo il 9% dei votanti espresse la volontà di passare a un sistema multipartitico. Nella parte occidentale del Paese, roccaforte del NRM, il sistema in vigore ottenne il 97% dei consensi; a nord invece, area da sempre anti-governativa, i consensi scendevano al 77%. Anche a Kampala, la capitale, i voti per il passaggio al sistema multipartitico si aggiravano intorno al 20%.

Le ragioni della scelta

Durante il periodo di campagna referendaria alcune organizzazioni della società civile collaborarono con la Commissione Elettorale per informare i cittadini. Insieme somministrarono ai cittadini un questionario per capire il livello di conoscenza dei sistemi democratici e le intenzioni di voto dei cittadini.

I risultati mostrarono che la maggior parte della popolazione sapeva del referendum, ma molti erano erano convinti che si trattasse di un voto per o contro il NRM: nello specifico il 42% degli intervistati dichiarò che si sarebbe andati al voto per eleggere nuovi leader. La percezione era quindi che il movimento avrebbe perso il potere in caso di vittoria dell’opzione per il sistema multipartitico. Più di un intervistato su cinque pensava che il voto non fosse segreto e questo potrebbe aver spinto a votare per il mantenimento del sistema del movimento.

La formazione che le organizzazioni della società civile aveva previsto di offrire alla popolazione non fu efficace come si sperava: la Commissione Elettorale pubblicò il testo definitivo solo il 12 maggio, a un mese e mezzo dal voto, e il tempo per strutturare e diffondere le spiegazioni non fu sufficiente. Le due opzioni erano rappresentate da due simboli: il voto per il mantenimento del no-party system aveva il simbolo del NRM, un autobus giallo, mentre il sistema multipartitico era rappresentato da una colomba. L’ufficialità dei simboli arrivò molto tardi, altro fattore che ostacolò la diffusione di informazione degli “educatori civici”. La maggior parte delle informazioni che la popolazione riuscì a recepire proveniva da amici e familiari e dai media, che però a detta degli intervistati erano quasi sempre di parte.

Nonostante non siano stati registrati particolari casi di ricatti, intimidazioni o promesse economiche o materiali, la mancanza di consapevolezza potrebbe aver leggermente falsato il risultato del voto. È vero, però, che l’84% degli intervistati, alla domanda diretta sul mantenimento del sistema attuale o il passaggio al sistema multipartitico, dichiarò di preferire la prima opzione. La motivazione era quasi sempre la stessa, per molto tempo ripetuta dal loro presidente: la paura che il multipartitismo avrebbe compromesso la stabilità politica del Paese.

Il sondaggio evidenziò una forte fiducia della popolazione nei confronti del NRM, fattore che solitamente pesa molto nelle scelte di voto. Questo probabilmente influì anche nel referendum del 2005, quando l’Uganda scelse finalmente il sistema multipartitico, transizione supportata dal NRM stesso. In cambio, una modifica alla costituzione sul limite massimo del numero di mandati presidenziali permette ancora oggi a Museveni di mantenere la carica e il supporto del 60% della popolazione (dato relativo alle ultime elezioni presidenziali tenutesi nel 2016).

 

Fonti e approfondimenti

A History of Modern Uganda, Richard J. Reid, Cambridge University Press, 2017

Constitution of Uganda, 1995

Regime Hegemony in Museveni’s Uganda – Pax Musevenica, Joshua B. Rubongoya, Palgrave Macmillan, 2007

Uganda. The dynamics of Neoliberal Transformation, Politics and Development in Contemporary Africa, Jörg Wiegratz, Giuliano Martiniello, Elisa Greco, Jon Harald Sande Lie, Ronald R. Atkinson, Adam Branch and Adrian Yen, Joshua B. Rubongoya, Kristof T, Zed Books Ltd, 2018

Uganda’s Referendum 2000: The Silent Boycott, Michael Bratton and Gina Lambright, African Affairs, Vol. 100, No. 400 (Jul., 2001), pp. 429-452, Oxford University Press

Grafica: Marta Bellavia – Instagram: illustrazioninutili_

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