Gibuti è un piccolo Stato del Corno d’Africa schiacciato tra Etiopia, Somalia ed Eritrea. Con una popolazione inferiore al milione di abitanti, si affaccia sul Golfo di Aden per una superficie di appena 23 mila chilometri quadrati. Povero di materie prime, petrolio e gas naturali, presenta un terreno quasi interamente desertico che inibisce lo sfruttamento agricolo e un comparto industriale sottosviluppato. Eppure su Gibuti si concentrano le attenzioni di numerosi attori globali e regionali, Stati Uniti e Cina in prima linea, che ne fanno forse uno dei partner più importanti sotto il profilo strategico e commerciale di tutta l’area. La risposta a questa apparente contraddizione ce la fornisce la carta geografica.
Cenni storici
Dopo il rifiuto dell’autodeterminazione e dell’annessione alla Somalia indipendente nei due voti referendari, fortemente contestati, del 1958 e del 1967, fu solo nel 1977 che Gibuti – l’ultima colonia europea rimasta sul continente africano – ottenne finalmente l’indipendenza da Parigi. I rapporti tra Francia e Gibuti non sono stati però sostanzialmente intaccati dalla separazione e tutt’oggi rappresentano uno dei pilastri su cui è edificata la politica di potenza francese a sud del Sahara. Come eredità del periodo coloniale, Gibuti ospita infatti la base militare francese numericamente più consistente al di fuori dell’Esagono (1450 unità).
La funzione di questo presidio militare, presente sin dalla proclamazione di indipendenza, è oggi inquadrata dal Trattato di Cooperazione in materia di Difesa siglato tra i due Paesi nel dicembre 2011. La posizione geografica della base da decenni assicura a Parigi la facoltà di intervenire tempestivamente in teatri strategici del Corno d’Africa (missione delle Nazioni Unite in Etiopia ed Eritrea, 2000-2001), dell’Africa Centrale (operazione Artemis nella Repubblica Democratica del Congo, 2003) e Occidentale (operazione Licorne in Costa d’Avorio, 2003), del Medio Oriente (operazione Chammal in Iraq, 2014) e dell’Oceano Indiano (operazioni anti-pirateria, 2008-2009).
Dal 1999, il Paese è governato dal presidente Ismail Omar Guelleh, il leader del partito unico People’s Rally for Progress, al quale sono imputati un eccessivo accentramento dei poteri, pratiche clientelari, persecuzione delle opposizioni e violazione dei più basilari diritti civili e politici. In 44 anni di storia, Gibuti ha conosciuto solamente due presidenti: a governare l’ex-colonia francese nei primi 22 anni dall’indipendenza è stato lo zio di Guelleh, Hassan Gouled Aptidon (1977-1999), anch’egli appartenente al sotto-clan Issa dei Mamassan.
L’esercizio del potere politico a Gibuti si è infatti cristallizzato in logiche di affiliazione clanica e dinastica. Queste sanciscono il dominio politico degli Issa e l’estromissione delle minoranze Afar, nonostante una superficiale rappresentanza tra le fila del governo, dagli spazi di reale decisione politica. Le popolazioni Afar stanziate nel nord del Paese costituiscono il 35% dell’intera popolazione di Gibuti, contro il 60% delle popolazioni di lingua somala, a maggioranza Issa. Oltre ad abitare in quello che viene da molti considerato uno dei posti più aridi e inospitali del pianeta, sono state le principali vittime della contesa territoriale che nel 2008 ha opposto Gibuti ed Eritrea e che ha provocato lo sfollamento di oltre 30 mila civili.
Ad aprile Guelleh correrà per il quinto mandato. La sua vittoria, in assenza di vere e proprie forze di opposizione, è data per scontata.
Geografia e commercio: gli ingredienti del successo
Per comprendere per quale motivo dovremmo interessarci alle vicende di questo piccolo Stato africano, dobbiamo guardare alla carta geografica. Gibuti si affaccia sullo stretto di Bab el-Mandeb, una lingua di mare che separa la penisola arabica dal continente africano per soli 27 chilometri, e sul Golfo di Aden, la porta d’ingresso dei traffici che attraversano l’Oceano Indiano. Dall’altra parte dello stretto, attraverso il Mar Rosso e il Canale di Suez si raggiunge il Mar Mediterraneo. Gibuti si trova quindi al crocevia dei flussi commerciali che collegano Europa, Africa e Asia (compreso il Vicino Oriente): ciò significa che mediamente, al largo delle sue acque, transita ogni giorno circa il 5% del petrolio trasportato via mare e il 10% del commercio marittimo mondiale.
Approfittando della sua collocazione su una delle principali arterie del commercio mondiale e della vicinanza a luoghi di grande rilevanza strategica – come Suez, la Somalia e lo Yemen – il presidente Guelleh ha progressivamente trasformato il suo Paese in una sorta di caserma internazionale. Attualmente, infatti, a Gibuti si trovano dislocate le forze militari di otto potenze straniere: Francia, Stati Uniti, Cina, Germania, Giappone, India, Italia, Spagna. Tale concentrazione lo rende di fatto lo Stato con la più alta densità di basi militari straniere in Africa. Dall’ospitalità offerta agli eserciti delle potenze mondiali, Gibuti ricava complessivamente più di 300 milioni di dollari, un valore corrispondente a circa il 9% del PIL nazionale.
In virtù della sua speciale posizione geografica, il porto di Gibuti gestisce ogni anno 932 mila TEU (unità di misura per container “twenty-foot equivalent”), che corrispondono a più di 20 milioni di tonnellate di merce. Una larga percentuale di questo traffico commerciale proviene dalla vicina Etiopia, un Paese grande 47 volte Gibuti, con una popolazione di oltre 100 milioni di abitanti, ma privo di uno sbocco sul mare. Negli ultimi vent’anni e, in particolare, dallo scoppio della guerra tra Etiopia ed Eritrea nel 1998, il porto di Gibuti ha rappresentato per Addis Abeba la via principale, se non l’unica, per accedere alla rete globale dei traffici marittimi. Ancora oggi, da Gibuti transita oltre il 90% dell’export etiope.
Negli scorsi anni, la crescita vertiginosa del volume d’affari del porto ha esercitato una pressione sempre più insostenibile sulla capacità logistica delle infrastrutture portuali e viarie. La congestione stradale e il conseguente aumento dei costi e dei ritardi nelle spedizioni ha portato il governo di Addis Abeba a investire su soluzioni alternative al porto di Gibuti, in un’ottica di diversificazione dei canali di esportazione e approvvigionamento. La competizione sempre più agguerrita di altri porti nella regione, da Port Sudan a Berbera, rappresenta oggi una concreta minaccia per il piccolo Stato, il cui PIL in rapida crescita dipende in larga parte dal traffico con l’Etiopia e dai servizi ad esso connessi.
L’opera di rifacimento della linea ferroviaria Addis Abeba-Gibuti, caduta in disuso negli anni ’40, doveva servire il duplice scopo di ridurre il congestionamento stradale e i tempi di percorrenza, agevolando quindi il commercio tra Etiopia e Gibuti, e consolidare la presenza cinese nel Mar Rosso, come parte della strategia di proiezione e penetrazione economica conosciuta col nome di Belt and Road Initiative. I lavori, finanziati da banche cinesi per un valore di 3,4 miliardi di dollari, sono terminati con l’inaugurazione nel gennaio 2018 di un’opera colossale non solo per la lunghezza del percorso, 759 chilometri, ma anche per il suo impatto sulla geografia dei traffici commerciali e sui rapporti di forza tra le potenze presenti nella regione.
Gibuti e la concorrenza: scenari futuri
Secondo le previsioni, il PIL di Gibuti, dopo il brusco rallentamento provocato dall’epidemia da Covid-19, tornerà a crescere a un ritmo del 9% nel 2021, trainato dall’espansione del mercato etiope e dall’aumento di investimenti nel settore delle infrastrutture, dei trasporti, della logistica e delle telecomunicazioni.
Tuttavia, il monopolio finora esercitato sulla gestione dei flussi commerciali nel Corno d’Africa è messo in discussione. Gibuti guarda oggi con apprensione alla crescente competitività degli altri porti nella regione, stimolata dagli ingenti investimenti per la modernizzazione e l’ampliamento delle infrastrutture portuali somale, eritree e sudanesi. Queste dinamiche sono strettamente correlate alla diversificazione dei canali commerciali intrapresa dall’Etiopia sotto la spinta del primo ministro Abiy Ahmed, oltre che alla presenza di numerosi attori politici ed economici intenti a prendere parte alla competizione.
Nel 2016, il gigante emiratino della logistica portuale, DP World, si è insediato nel vicino porto di Berbera, nel Somaliland. Sottoscrivendo col governo autonomo di Hargheisa e con Addis Abeba un contratto trentennale per lo sfruttamento e i lavori di espansione del porto, DP World si è assicurato così la posizione di azionista di maggioranza (51%), mentre lo Stato del Somaliland e l’Etiopia detengono rispettivamente il 30% e il 19% dei diritti di sfruttamento del porto.
Ciononostante, perché Berbera possa essere considerata una valida alternativa al porto di Gibuti sono ancora necessari imponenti investimenti al sistema stradale e infrastrutturale. Il Somaliland sta quindi cercando di attirare finanziamenti mediante la costruzione di un nuovo aeroporto internazionale e la creazione di un’area di libero scambio, con l’obiettivo di portare la capacità dello scalo a 500 mila TEU all’anno. Nel 2019 è stato finanziato inoltre un progetto da 400 milioni di dollari per collegare la città etiope di Togochale con Berbera. La costruzione di vie alternative per accedere ai mercati etiopi allarma Gibuti, che si affida sempre più alla Cina per preservare il suo primato commerciale.
Per Gibuti la geografia è una benedizione e una maledizione allo stesso tempo. Data la sua posizione strategica, al centro di uno degli snodi principali del commercio globale, la sua sopravvivenza geopolitica e la legittimità della classe dirigente rimarranno in gran parte dipendenti dalla capacità del piccolo Stato africano di rendersi indispensabile sul piano commerciale e strategico-militare. Questa forma pura di extraversion, ovvero di posizionamento “attivo” in un rapporto di dipendenza con l’ambiente esterno, rappresenta una lama a doppio taglio per la presidenza Guelleh. L’alta concentrazione di forze militari straniere in uno spazio ristretto e in un contesto altamente instabile, la competizione dei porti che si affacciano sulla stessa arteria commerciale e la crescente tensione sino-americana sono tutte sfide che serbano la potenzialità di minare gli equilibri interni del Paese (e dell’intera regione).
Fonti e approfondimenti
Loza Seleshie, Will Somaliland’s Berbera port be a threat to Djibouti’s?, The Africa Report, 24/12/2020.
Mordechai Chaziza, China Consolidates its commercial foothold in Djibouti, The Diplomat, 26/01/2020.
Africa Times, Djibouti’s 73-year-old President Guelleh announces fifth term bid “for the youth”, 12/10/2020.
Ministère des Armées (Ministero della Difesa francese), Les forces françaises stationnées à Djibouti, 22/10/2020.
The World Bank, Djibouti, consultato il 25/01/2021.
Andreu Sola-Martin, Ports, military bases and treaties: Who’s who in the Red Sea, The Africa Report, 13/11/2020.
Thibaud Teillard, Transport maritime: les ambitions déçues de DP World, Jeune Afrique 21/02/2018.
Eromo Egbejule, Djibouti: Small country, big stakes, The Africa Report, 21/08/2018.
Jean-François Bayart, Stephen Ellis, Africa in the world: A history of extraversion, African Affairs, vol. 99, no. 395, 2000, pp. 217-267.
Editing a cura di Giulia Lamponi
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