Dagli anni Ottanta del Novecento, l’idea della “privatizzazione” si è fatta progressivamente strada nel dibattito pubblico, incontrando un numero sempre maggiore di sostenitori da una parte all’altra del globo. In breve, la privatizzazione consiste nel trasferimento ad attori privati di beni e servizi, della loro gestione e più in generale di funzioni e responsabilità assunte fino a quel momento dallo Stato.
Negli Stati Uniti, uno dei settori in cui questa idea è riuscita a raccogliere più consensi è quello dell’istruzione, dove negli ultimi decenni le argomentazioni a favore di un aumento del ruolo degli enti privati nella gestione dei servizi pubblici hanno saputo raccogliere ampi consensi in tutti gli schieramenti politici in campo.
Una scuola a rischio?
Era il 1983 quando la Commissione Nazionale per l’Eccellenza nell’Educazione, sorta su iniziativa del Segretario dell’Istruzione del tempo, Terrell Bell, pubblicò il report “Una nazione a rischio“. Al suo interno, erano contenute diverse proposte che, nelle intenzioni della Commissione, avrebbero contribuito a migliorare il sistema scolastico statunitense, allora giudicato in una situazione di grave difficoltà.
Secondo il report, infatti, le basi educative della società erano “erose da una marea crescente di mediocrità che minaccia[va] lo stesso futuro [degli Stati Uniti] come nazione e popolo”. In estrema sintesi, la scuola pubblica stava mancando il suo obiettivo centrale, quello cioè di formare adeguatamente i cittadini della nazione, e senza un intervento adeguato la società statunitense si sarebbe presto trovata ad affrontare un declino irreversibile, già anticipato da alcuni trend economici in certe aree del Paese. La via di uscita veniva trovata allora nell’adozione di nuovi standard e meccanismi di responsabilità, attraverso i quali tanto il governo quanto i cittadini avrebbero potuto giudicare l’efficienza del sistema scolastico.
Diversi autori concordano nel ritenere che le conclusioni dell’indagine fossero largamente predeterminate: il report mirava a dipingere la scuola pubblica nel modo peggiore possibile agli occhi degli statunitensi, creando così le condizioni di un consenso diffuso attorno alla necessità di riformare il campo educativo. In ogni caso, è certo che in questo periodo “competizione”, “scelta” ed “efficienza” diventarono espressioni pervasive nel dibattito pubblico sulla scuola, mentre nel ceto politico iniziò a costituirsi un ampio fronte bipartisan che guardava con favore a un sistema scolastico maggiormente orientato al mercato. Nonostante le proposte di Reagan in materia furono perlopiù respinte dal Congresso, nel corso del suo mandato vennero gettate le basi ideologiche per un cambiamento radicale del settore scolastico.
L’era della performance
Negli anni di Bush e Clinton furono individuati i nuovi pilastri del sistema scolastico: le competenze sarebbero state valutate secondo indicatori di performance, mentre gli Stati avrebbero ricevuto delle sovvenzioni se si fossero dotati di strumenti appositi per misurare i livelli educativi raggiunti dagli studenti. Ma furono gli interventi delle amministrazioni Bush e Obama a segnare un passo ulteriore nel riconoscimento dei test come uno dei perni del sistema scolastico.
Nel 2002, la legge “No Child Left Behind”, promossa dall’amministrazione Bush, stabilì l’implementazione di test annuali di matematica e abilità linguistiche per gli studenti dagli 8 ai 14 anni. I risultati avrebbero mostrato i loro progressi e l’effettiva efficacia del sistema scolastico nel formarli: l’obiettivo dichiarato sarebbe stato arrivare al 2014 con il 100% della popolazione studentesca in grado di superare la soglia della competenza a metà tra “base” e “avanzato” (nella scala statunitense). In realtà, le implicazioni delle nuove forme di valutazione andavano molto oltre il semplice riscontro dell’apprendimento: i risultati sarebbero infatti stati determinanti per il giudizio relativo agli insegnanti, alle scuole e ai loro amministratori da parte dei cittadini e della classe politica statale.
Grazie ai test standardizzati, infatti, sarebbe stato possibile valutare in maniera oggettiva l’operato dell’intero sistema scolastico. Se le scuole non fossero riuscite a conseguire i risultati attesi, la legge prevedeva una sorta di “rimedi a cascata”, dalla possibilità per gli studenti di cambiare istituto a quella per lo Stato di prendere gradualmente il controllo della scuola, arrivando anche a chiuderla come estrema ratio. Questa dinamica sarebbe andata di pari passo con la crescita delle cosiddette charter school, scuole finanziate dal pubblico ma gestite da enti privati. In questo processo, pertanto, la questione della standardizzazione si intrecciava in più modi con quella della privatizzazione del sistema scolastico.
Una volta terminato il mandato Bush, l’amministrazione Obama decise di continuare sul medesimo tracciato: il programma “Race to the Top”, lanciato nel 2009, spinse gli Stati ad approvare apposite legislazioni per aumentare il numero di charter school e vincolare sempre più le valutazioni degli insegnanti agli esiti dei test. Inoltre, richiedendo agli Stati l’adozione di modelli nazionali comuni, favorì la diffusione del “Common Core Standard”, un insieme di standard educativi codificati per valutare le capacità linguistiche e matematiche degli studenti al termine di ogni “grado” del loro percorso scolastico. Decisivi nella vastissima adesione al metodo – adottato da 46 Stati – furono i cospicui finanziamenti da parte di alcune importanti fondazioni private, tra cui la Bill and Melinda Gates Foundation, rivolti ai sindacati degli insegnanti, ai dipartimenti statali dell’istruzione e ai diversi gruppi coinvolti nel mondo della scuola. Sebbene i cambiamenti nel campo della valutazione scolastica siano stati inizialmente salutati con entusiasmo tanto dal ceto politico quanto dai media, in un secondo momento sono state sollevate numerose critiche. I maggiori punti deboli riguardano l’autonomia degli insegnanti e il fatto che la valutazione fornita nei test non rivelasse informazioni utilizzabili da parte dei docenti per migliorare le abilità degli studenti. Le critiche, che hanno portato in più Stati a proteste organizzate da genitori e insegnanti, si sono nel tempo rivelate fondate. Come ha sottolineato l’esperto di politiche pubbliche Tom Loveless, 10 anni dopo la sua adozione, la mancanza di prove che il CCS abbia contribuito ad aumentare la qualità dell’educazione è “quantomeno notevole”.
A dispetto dei miliardi di dollari investiti, i risultati ottenuti dagli studenti statunitensi non hanno registrato miglioramenti, al punto che anche la Segretaria dell’Istruzione Betsy DeVos ha riconosciuto il totale insuccesso delle politiche passate. E così anche la storica dell’educazione Diane Revitch, secondo cui la standardizzazione è risultata in un fallimento generalizzato. Da un lato, ha finito col trasformare la scuola in uno specchio dello status quo, nel quale gli studenti provenienti da un ambiente sociale più avvantaggiato vengono premiati e quelli più in difficoltà costretti a confrontarsi continuamente con le proprie mancanze. Dall’altro, i punteggi dei test sarebbero stati utilizzati per identificare le scuole con il punteggio più basso, che sarebbero poi state chiuse o affidate alla gestione privata, finendo per creare una forte instabilità nelle comunità.
Le promesse mancate
Grazie al proprio potere economico, la fondazione di Bill e Melinda Gates e altri gruppi privati riuscirono e riescono tuttora a orientare in modo importante le politiche educative su molti fronti. Secondo il professor Hursh, le grandi corporations sono riuscite a sviluppare una fitta rete di strumenti affinché, anche nel campo dell’educazione, il potere decisionale fosse sempre più spostato verso le élite economiche e istituzionali, marginalizzando così insegnanti, genitori, studenti e altri membri delle comunità locali. Così l’educazione pubblica è stata radicalmente trasformata in un modello concorrenziale di mercato, nel quale la valutazione della performance è diventata un metro di misura universale.
Un esempio emblematico, da questo punto di vista, è quello delle charter school – di seguito “CS”- che a partire dal 1992, anno di inaugurazione della prima scuola di questo tipo in Minnesota, hanno registrato una continua e turbolenta crescita nel tessuto sociale statunitense. Le CS sono scuole che stipulano un contratto (charter) con un ente o istituzione pubblica che attribuisce loro il diritto di ricevere fondi pubblici in cambio del rispetto degli impegni assunti nel contratto. Tuttavia, pur ricevendo fondi pubblici, esse non sono gestite dallo Stato ma da organizzazioni senza o con fini di lucro.
Per i promotori delle CS, tra cui numerose fondazioni e gruppi miliardari, la possibilità di competere con il settore pubblico, aprendo in questo modo un ampio ventaglio di scelte per le famiglie, accrescerebbe la qualità dell’educazione. Nella realtà, il meccanismo di finanziamento distorce il modello concorrenziale. Infatti, agli enti privati che gestiscono la scuola viene assegnato un lotto di fondi per ogni studente iscritto, ma i fondi provengono dal budget previsto per la scuole pubbliche distrettuali, per cui queste ultime, in base al successo delle CS a loro vicine, si trovano a dover gestire le stesse spese fisse, ma con una minor capacità economica.
Tuttavia, anche a fronte di un sostegno bipartisan prolungato nel tempo, la sostenibilità economica e soprattutto sociale delle CS è stata fortemente messa in discussione. Nel report “Promesse mancate”, la Network for Public Education ricostruisce la storia delle CS degli ultimi vent’anni, facendo emergere diversi lati oscuri. Ad esempio, tra il 1998 e il 2015, più del 40% delle CS aperte negli Stati Uniti sono state chiuse, con poco meno di un milione di studenti che ha dovuto fare i conti con questa situazione di instabilità. Inoltre, negli ultimi anni sono emersi diversi scandali legati alla trasparenza delle CS, una questione su cui molte associazioni reclamavano da tempo una stretta da parte del potere pubblico e alla quale alcuni governatori hanno risposto ponendo dei limiti al finanziamento e norme più rigide sul loro operato.
In conclusione, le politiche scolastiche perseguite a partire dagli anni di Reagan, privilegiando criteri di mercato rispetto agli obiettivi di crescita personale delle alunne e degli alunni statunitensi, hanno di fatto contribuito al cedimento del potere pubblico a beneficio di quello privato. Un fenomeno strettamente connesso alla cristallizzazione delle disuguaglianze sociali ed economiche. Infatti, come rilevato da più studi, è la scuola pubblica a garantire un tasso più elevato di mobilità sociale. Dopo i Teacher’s Strike, che hanno posto al centro del dibattito l’educazione e il ruolo degli insegnanti, e la riscoperta importanza della scuola da parte dei media durante la pandemia, l’amministrazione Biden sarà obbligata a muoversi per riabilitare questa istituzione così fondamentale per il futuro degli USA.
Fonti e approfondimenti
An S., Cardona-Maguidad A., “Common Core: Higher Expectations, Flat Results”, NPR, 3/12/2019.
Barkan, J. “Death by a thousand cuts” in Steiner-Khamsi, G., Draxler, A.. “The State, Business and Education”, Edward Elgar Publishing, 2018.
Blanc E., “The Teachers’ “Red for Ed” Movement Is Far From Dead”, Jacobin, 13/10/2020.
Gaffney, L., “The Common Core State Standards and Intellectual Freedom”, Journal of Intellettual Freedom and Privacy, 2016.
Goldstein D. “After 10 Years of Hopes and Setbacks, What Happened to the Common Core?”, The New York Times, 6/12/2019.
Greene P., “Common Core Is Dead. Long Live Common Core”, Forbes, 30/1/2020.
Layton L., “How Bill Gates pulled off the swift Common Core revolution”, Washington Post, 7/6/2014.
Loveless, T., “Common Core Has Not Worked”, Education Next, 2019.
Network for Public Education, “Broken Promises“, 2020.
Strauss V., “ The 5 most serious charter school scandals in 2019”, Washington Post, 27/1/2020.
The National Commission on Excellence in Education, “A Nation at Risk”, 1983.
Editing a cura di Federica Affinita