Diviso tra Kazakistan e Uzbekistan, il lago di Aral è un bacino salato di origine oceanica che ha avuto origine, come il mar Caspio e il mar Nero, 5 milioni di anni fa dalla separazione dell’antica Parateide, un bacino oceanico risalente al Giurassico. Con i suoi 68 mila chilometri quadrati è stato a lungo il quarto lago più grande del mondo, costituendo la principale fonte di lavoro e sostentamento per le popolazioni costiere. A partire dagli anni Sessanta, però, il lago ha cominciato a prosciugarsi fino a ridursi del 75% e oggi al suo posto rimangono due piccoli bacini, l’Aral settentrionale in Kazakistan e l’Aral meridionale in Uzbekistan (il satellite Terra della Nasa scatta ogni anno, in agosto, alcune foto della zona per registrarne il ritiro).
All’origine del prosciugamento del lago di Aral ci sono le politiche sovietiche per l’ampliamento delle aree coltivabili in Asia centrale, soprattutto in Uzbekistan. Il progetto è stato realizzato attraverso la costruzione di un vasto sistema di canali, in uso ancora oggi, che dirottano le acque dei due fiumi immissari del lago verso le nuove piantagioni. Il risultato è quella che viene descritta come una delle più grandi catastrofi ambientali della storia, le cui conseguenze sul territorio e sulla popolazione sono ancora oggi tra i problemi principali della regione.
Il prosciugamento del lago di Aral
I due fiumi che si immettono nel lago di Aral, Amu Darya e Syr Darya, sono stati per l’Asia centrale quello che il Nilo è stato per l’Egitto: l’arteria vitale che ha permesso la nascita della civiltà in mezzo al deserto. Nel corso della storia, il lago di Aral e i suoi immissari hanno garantito alle popolazioni locali disponibilità d’acqua e di risorse ittiche.
Le città circostanti il lago, come il porto ittico di Aralsk, sono state risparmiate dalla carestia che, tra il 1932 e il 1933, causò la morte di milioni di persone in URSS proprio grazie all’abbondanza di pesci, che ha fatto sì che alle popolazioni locali non mancasse il cibo. Il corso dei fiumi, inoltre, è sempre stato usato come via di comunicazione e l’abbondante presenza d’acqua ha mitigato il clima, rendendo il territorio adatto alle attività umane.
Tra gli obiettivi delle politiche agricole dell’Unione sovietica c’era il raggiungimento dell’autosufficienza nella produzione del cotone. A questo scopo, sotto la guida del primo segretario Nikita Khruščëv, negli anni Cinquanta fu ideato il progetto “Terre Vergini” che prevedeva la costruzione di un esteso sistema di irrigazione per rendere fertile la steppa della Fame, nella valle di Fergana (una regione che comprende territori kirghizi, uzbeki e tagiki). I corsi dell’Amu Darya e del Syr Darya furono deviati e le loro acque furono dirottate verso le piantagioni. I canali erano, però, di pessima qualità: la maggior parte dell’acqua evaporava e si disperdeva lungo il percorso.
Il progetto “Terre Vergini” rese coltivabili 5 milioni di ettari di terreno e la produzione di cotone in Asia centrale aumentò di circa 12 volte, ma determinò anche il rapido prosciugamento del lago di Aral. Anche questo era stato accuratamente previsto dagli ingegneri sovietici che avevano pianificato di trasformare in risaia l’area paludosa che sarebbe rimasta una volta che il lago fosse scomparso del tutto. Questo piano fu però abbandonato quando divenne evidente che il lago, ritirandosi, non originava una palude, ma una distesa di sale, impossibile da coltivare.
Per rendere fertile un territorio desertico coma la steppa della Fame non bastò l’acqua, fu necessario anche un uso massiccio di concimi chimici e pesticidi che inquinarono irrimediabilmente il lago di Aral, rendendo le sue acque inadatte alla vita della fauna ittica e inutilizzabili a fini potabili.
Oltre a tutto ciò, dopo la seconda guerra mondiale, l’URSS intensificò le ricerche in materia di armi biologiche. Tra 72 siti di sperimentazione segreti c’era l’isola della Rinascita, situata nel lago di Aral, dove venivano studiati antrace, vaiolo e peste. Quando i laboratori furono abbandonati nel 1992, il materiale pericoloso non fu smaltito correttamente e ancora oggi nel terreno sono presenti resti di sostanze tossiche.
La distruzione dell’ecosistema
Il ritiro del lago di Aral ha avuto innumerevoli conseguenze sull’ecosistema. Innanzitutto, il prosciugamento del lago ha causato la salinizzazione del suolo (con il ritirarsi delle acque il sale si deposita sul terreno), rendendolo inadatto all’agricoltura. A influire su questo ultimo aspetto si aggiunge il cambiamento climatico dovuto alla scomparsa dell’azione mitigatrice dell’acqua: la regione è dunque soggetta a una rapida desertificazione.
Tra gli effetti dell’inaridimento del suolo, spiccano l’incremento dell’escursione termica sia giornaliera che stagionale, la scomparsa di numerose specie animali e vegetali e l’aumento delle tempeste di sabbia. Ogni anno le bufere spargono per la regione circa 43 milioni di tonnellate di polveri tossiche contenenti residui di sostanze pericolose presenti nel terreno. Questo fenomeno ha un forte impatto sulla popolazione: nella regione circostante a quello che un tempo era il lago di Aral, il cancro alla gola e le malattie respiratorie sono molto diffusi, l’aspettativa di vita è inferiore di vent’anni rispetto alle altre aree dell’Asia centrale e la mortalità infantile è quattro volte più elevata.
Oltre ai danni alla salute pubblica, la distruzione dell’ecosistema ha causato anche il collasso dell’economia ittica, l’attività principale a cui si dedicavano le comunità locali. Negli anni Ottanta, quando la pesca divenne impossibile, per qualche anno le autorità sovietiche decisero di usare le strutture della zona per la lavorazione del pesce proveniente da altre regioni dell’URSS, ma questo sistema non era economicamente sostenibile e in poco tempo l’industria ittica locale fallì definitivamente.
La città di Aralsk, che nacque e prosperò come porto ittico, ne è un chiaro esempio: oggi il tasso di disoccupazione è molto alto e il numero degli abitanti si è dimezzato, poiché le persone sono costrette a trasferirsi altrove per cercare lavoro.
Nel primo decennio degli anni Duemila sono stati scoperti dei giacimenti di gas sotto la superficie del lago di Aral. Tuttavia, le comunità locali non ne hanno tratto alcun vantaggio economico: le nuove centrali termoelettriche a gas sono di proprietà di compagnie russe e cinesi, così come sono a forte maggioranza cinese gli operai che ci lavorano.
La rinascita del lago di Aral
Il lago di Aral si è ritirato a tal punto da dividersi in due bacini separati nel 1978, dando origine al piccolo Aral nella parte settentrionale (in Kazakistan) e al grande Aral nella parte meridionale (in Uzbekistan). L’intervento delle autorità kazake, che hanno fatto della rinascita del lago di Aral una delle proprie priorità, rappresenta un ottimo esempio di come il corso delle catastrofi ambientali si possa invertire grazie all’impegno politico e alla disponibilità di fondi.
Il progetto kazako per il piccolo Aral, sostenuto dal programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite, consiste in una serie di iniziative volte a far risalire il livello dell’acqua, a ripopolare il lago della sua fauna naturale e a fermare la desertificazione.
Tra le azioni intraprese, quelle di maggior rilievo sono la costruzione della diga di Kokaral, la modernizzazione del sistema di canali e la semina di saxual.
La diga di Kokaral è stata terminata nel 2005, grazie ai finanziamenti della Banca mondiale, e ha come obiettivo quello di impedire che l’acqua del piccolo Aral fluisca verso il grande Aral. I risultati sono promettenti: il livello dell’acqua è salito, la concentrazione di sale è diminuita e il lago si sta ripopolando di pesci, dando modo all’industria ittica di rinascere lentamente.
Il saxual, invece, è un arbusto autoctono dell’Asia centrale molto resistente che si trova generalmente in formazioni numerose che assomigliano a vere e proprie foreste. Il governo kazako ha deciso di piantare questi arbusti per fissare la sabbia al terreno e frenare il fenomeno delle tempeste di sabbia. Anche questo intervento sta avendo un riscontro positivo e le autorità prevedono che, nel giro di qualche anno, le foreste di saxual formeranno una barriera che proteggerà le città dalle polveri tossiche.
In Uzbekistan, invece, lo Stato non ha adottato alcun piano per salvare il grande Aral e la distruzione dell’ecosistema e delle attività umane legate a esso sembra irrimediabile.
L’ingegneria idraulica in Unione sovietica
Il cotone è definito l’oro bianco dell’Asia centrale (l’Uzbekistan è il sesto produttore mondiale e la sua economia si fonda su questo), ma in una regione arida come la valle di Fergana l’acqua è una risorsa ancora più importante. Il lago di Aral è stato il fulcro della vita delle popolazioni locali che lo hanno sfruttato rispettando l’ecosistema nel quale erano immerse. Le politiche agricole sovietiche, adottate senza tenere in considerazione le specificità del luogo, hanno causato la quasi totale scomparsa del lago di Aral e, di conseguenza, hanno determinato il deterioramento dell’area circostante, sia sul piano ambientale che su quello delle attività umane.
Quello del lago di Aral non è un caso isolato: l’ingegneria idraulica è stata uno degli strumenti prediletti dalle autorità sovietiche per consolidare il proprio potere su tutto il territorio dell’URSS. I piani quinquennali prevedevano lo sfruttamento massiccio delle risorse naturali e, a questo scopo, furono deviati corsi d’acqua e costruiti canali e dighe. Le conseguenze di questi interventi sull’ambiente sono state devastanti.
I settant’anni di Unione sovietica hanno avuto un impatto ancora oggi evidente non solo sulla cultura e l’economia di quelle che furono le Repubbliche socialiste sovietiche, ma anche sul loro territorio.
Fonti e approfondimenti
Thomas Reuters Foundation, “Come il lago di Aral rinasce dal deserto”, Internazionale, 12/06/2019.
Fatland, Erika, “Sovietistan. Un viaggio di Asia centrale”, Marsilio, 2017.
Maniscalco, Sara, “Cotone di Stato. Sfruttamento del lavoro e risorse naturali nella Repubblica dell’Uzbekistan”, ResearchGate, 2015.
Pala, Christopher, “Anthrax Island”, The New York Time, 12/01/2003.
Editing a cura di Elena Noventa