All’alba del 24 giugno, l’attivista quarantatreenne Nizar Banat è stato prelevato dalle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) dall’abitazione di un suo cugino a Hebron. Secondo quanto dichiarato da Jibreen al-Bakri, governatore della città, l’arresto era legittimato da un ordine del Pubblico ministero; poco dopo, Banat sarebbe morto per cause naturali prima di poter essere trasportato in ospedale. L’autopsia richiesta dalla famiglia ha però stabilito come causa del decesso una lunga serie di percosse, probabilmente con spranghe di metallo.
Il mese scorso, ventiquattro persone sono state arrestate nella città cisgiordana di Ramallah. La loro colpa è stata di aver partecipato a una manifestazione pacifica per chiedere chiarezza sulla morte di Banat. La vicenda ha suscitato sdegno a livello sia interno che internazionale e l’ANP è stata attaccata, tra gli altri, anche da alcuni membri del Congresso statunitense, tanto che i dimostranti sono stati rilasciati nel giro di pochi giorni. Inoltre, i quattordici poliziotti coinvolti nell’assassinio di Banat del 24 giugno sono attualmente indagati.
Questa vicenda non è che una delle prove più recenti dei rapporti sempre più tesi tra l’Autorità Nazionale Palestinese e i cittadini che dovrebbe rappresentare.
Chi era e cosa rappresentava Nizar Banat
Nizar Banat era un attivista politico fortemente e apertamente critico nei confronti dell’ANP, di Fatah e del loro leader Mahmoud Abbas, noto anche con la “kunya” Abu Mazen (soprannome derivante dal nome del primo figlio nelle culture arabofone). In particolare, Banat si era scagliato contro il crescente autoritarismo, la corruzione dei vertici del potere e i rapporti tra Ramallah e Tel Aviv: una tale collaborazione era considerata un tradimento verso la causa palestinese e coloro che hanno mantenuto viva la resistenza contro l’occupazione israeliana. Banat era riuscito a ottenere un discreto seguito tra i propri concittadini non solo per le sue capacità oratorie e intellettuali, ma anche per il suo background: in quanto ex membro di Fatah, aveva una conoscenza approfondita dell’organizzazione. Pertanto, le sue critiche erano precise, affidabili e quindi potenzialmente pericolose.
L’omicidio di Banat, intenzionale o meno che fosse, ha eliminato un’importante voce critica contro l’establishment palestinese e una potenziale alternativa politica a quella che i palestinesi percepiscono come una scelta obbligata tra Fatah e Hamas. Banat era infatti candidato alle elezioni (le prime in quindici anni) per il Consiglio Legislativo Palestinese, programmate per lo scorso 22 maggio, ma annullate unilateralmente da Abbas poche settimane prima. Questo rinvio a tempo indeterminato è stato giustificato dal presunto divieto da parte delle autorità israeliane di tenere le votazioni a Gerusalemme Est.
Un’Autorità sempre più debole
L’omicidio di Nizar Banat e l’arresto dei dimostranti a Ramallah sono una prova della brutalità e della repressione di cui è capace l’Autorità Nazionale Palestinese, ma anche della sua crescente vulnerabilità. L’ANP sta infatti progressivamente perdendo la fiducia dei propri cittadini e di conseguenza anche la legittimità e il potere.
All’inizio di giugno, il Palestinian centre for policy and survey research (PCPSR) ha condotto un sondaggio tra la popolazione di Cisgiordania e Gaza. I risultati della ricerca hanno rivelato come gli eventi del mese precedente, ovvero le violenze a Gerusalemme Est, gli attacchi israeliani contro la Striscia, gli sgomberi di Sheykh Jarrah e la decisione di Abbas di rimandare le elezioni, abbiano profondamente influenzato la percezione che i cittadini hanno delle autorità.
L’84% dei partecipanti ha affermato che l’ANP è effettivamente corrotta e il 56% la considera un peso per il popolo palestinese. In aggiunta, i due terzi degli intervistati sono convinti che Abbas abbia deciso di cancellare le elezioni non a causa dei divieti israeliani, ma per il timore di uscirne sconfitto. Infatti, dopo il confronto contro le Israel defense forces (IDF), il 53% dei palestinesi ha dichiarato che il gruppo meritevole di guidarli e rappresentarli è Hamas, non Fatah (solo il 14% ha espresso l’opinione opposta), mentre il consenso verso il ritorno alla resistenza armata e all’Intifada è salito al 60%.
Il PCPSR ha fatto notare che percentuali simili erano già state registrate in passato a seguito di scontri tra Israele e Hamas, ma il grande supporto per quest’ultimo era scemato nel giro di pochi mesi, una volta svanito l’entusiasmo del momento. Tuttavia, questi oscillamenti avevano coinciso con la capacità da parte di Fatah e della ANP di riconquistare, in un modo o nell’altro, la fiducia dei cittadini: gli eventi degli ultimi mesi sembrano suggerire che questa volta potrebbero non esserne in grado. Inoltre, Fatah è sempre più frammentata al suo interno: l’autorità di Abbas è messa in discussione principalmente da Marwan al-Barghouti, attualmente detenuto in un carcere israeliano, e Mohammed Dahlan, ex leader di Fatah a Gaza. Se le elezioni di maggio si fossero tenute, entrambi avrebbero sfidato l’attuale leader del movimento.
L’eredità di Oslo
La soluzione finora adottata dall’ANP per mantenere il controllo della popolazione, nonostante la progressiva perdita di consenso, è stata ricorrere all’autoritarismo e alla repressione. Tuttavia, la crisi tra i leader palestinesi e i cittadini non è dovuta unicamente all’uso della coercizione da parte delle autorità o all’aumento dei consensi verso Hamas. Al contrario, è una delle conseguenze a lungo termine degli Accordi di Oslo.
Al momento della sua creazione, nel 1994, all’Autorità Nazionale Palestinese era stato assegnato il compito di rappresentare il popolo palestinese e tenere sotto controllo i gruppi di resistenza armati. Nel frattempo, l’intesa raggiunta tra Yasser Arafat, allora leader di Fatah e dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), e il premier israeliano Yitzhak Rabin sarebbe dovuta essere il punto di partenza per la creazione di uno Stato palestinese libero e sovrano.
Invece, l’ANP sembra limitarsi a seguire l’articolo 8 degli Accordi, ovvero mantenere l’ordine tramite le proprie forze di sicurezza, spesso coordinandosi con Tel Aviv. Questa collaborazione implica che gli attivisti palestinesi, che si oppongono all’occupazione israeliana e agli insediamenti illegali, siano arrestati dalla stessa autorità che dovrebbe garantire i loro diritti.
Per quanto riguarda la fondazione dello Stato palestinese, il processo avviato a Oslo non ha ancora portato a nulla: la Cisgiordania è ancora occupata e Gaza è sotto assedio da ben quattordici anni.
A chi fa comodo l’ANP?
La crescente sfiducia della popolazione nei confronti di Fatah e le divisioni interne al movimento forniranno sicuramente un vantaggio a Hamas. Tuttavia, le potenze straniere potrebbero cercare di ostacolare eventuali alterazioni della situazione attuale.
All’inizio di quest’anno, i capi dei servizi d’intelligence egiziani e giordani si sono incontrati con Abbas per cercare di convincerlo a non indire le elezioni per timore di una vittoria di Hamas. Sia il Cairo che Amman temono che una vittoria alle urne del movimento di resistenza islamista possa avere ripercussioni sulla propria stabilità interna, fomentando i gruppi islamisti locali. Anche Israele ha espresso più volte le proprie preoccupazioni verso un’eventuale ascesa al potere di Hamas in Cisgiordania. Tel Aviv ha approfittato dei propri contatti con l’ANP per prevenire questa possibilità, attraverso una campagna di arresti mirata a eliminare la presenza del movimento nella West Bank. Inoltre, Israele ha più volte minacciato i vertici dello Stato Palestinese che una vittoria elettorale di Hamas avrebbe portato al boicottaggio completo nei confronti dell’ANP, con il blocco del coordinamento per la sicurezza e il taglio dei fondi.
Anche al di fuori della regione, molti attori internazionali, primi fra tutti gli Stati Uniti, vogliono che il controllo venga mantenuto da Abbas e dai suoi alleati. La narrativa occidentale vede infatti l’ANP come un garante di sicurezza e stabilità, oltre che un baluardo contro i gruppi militanti di stampo islamista, che molti Paesi considerano organizzazioni terroristiche.
Pertanto, piuttosto che incoraggiare un cambiamento come quello auspicato da Nizar Banat, che potrebbe portare ulteriore consenso ad Hamas, si preferisce mantenere al potere una leadership autoritaria e violenta. A farne le spese sono i civili palestinesi, stretti tra l’incudine dell’occupazione israeliana e il martello dell inefficienza, corruzione e disonestà di quell’autorità che dovrebbe proteggerli, oltre a rappresentarli.
Fonti e approfondimenti
Adnan Abu Amer, Postponed Palestinian Elections: Causes and Repercussions, Carnegie Endowment, 11/05/2021.
Motasem A Dalloul, Why did the PA kill Nizar Banat?, Middle East Monitor, 24/06/2021.
Lubna Masarwa, Dania Akkad, Palestinian Authority losing control of West Bank, say insiders and activists, Middle East Eye, 26/08/2021.
Bethan McKernan, Quique Kierszenbaum, Nizar Banat’s death highlights brutality of Palestinian Authority, The Guardian, 31/08/2021.
Anjuman Rahman, The PA is an obstacle to freedom, Middle East Monitor, 27/08/2021.
Somdeep Sen, The PA was always meant to ‘kill’ the Palestinian cause, Aljazeera, 06/08/2021.
Editing a cura di Carolina Venco
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