Questione palestinese: da cosa è scaturito e cosa comporta il conflitto di maggio?

Il muro di Israele a Betlemme. Uno scatto dalla Palestina del 2011
Montecruz Foto - Flickr.com - License CC BY-SA 2.0

A cura di Redazione Medio Oriente 

 

Durante il mese di maggio, l’attenzione internazionale si è rivolta verso l’ultimo atto del conflitto israelo-palestinese, uno scontro ad armi impari che ha visto Israele e le fazioni palestinesi impegnate in undici giorni di guerra.

A esacerbare la tensione è stato un contenzioso su alcuni terreni di Gerusalemme Est (nel quartiere di Sheikh Jarrah), risultante nell’ordine di sfratto ai danni degli abitanti palestinesi della zona. L’istanza delle autorità israeliane si basa su documenti ottomani che attestano l’acquisto dell’area da parte di fiduciari ebrei nel 1876, ed è vista come l’ultima di una lunga serie di politiche di segregazione adottate da Israele nei confronti dei palestinesi

A seguito dei primi scontri tra manifestanti e forze di sicurezza israeliane, coincidenti con l’ultimo venerdì del Ramadan, la situazione è rapidamente precipitata, sfociando in combattimenti e lanci di missili da e sulla Striscia di Gaza. 

Sheikh Jarrah: una lunga storia di contese e tensioni

La storia del contenzioso che caratterizza il quartiere di Sheik Jarrah affonda le proprie radici nel secolo scorso. Fino al 1948, il quartiere era abitato da entrambe le comunità: nell’area vivevano famiglie palestinesi, insediatesi all’inizio del XX secolo, e una minoranza di ebrei, trasferitasi a Sheikh Jarrah nel 1876.

Il punto di rottura è arrivato proprio nel 1948, quando, a causa dei combattimenti durante la Guerra arabo-israeliana, i residenti di entrambe le comunità abbandonarono il quartiere. A fine conflitto, la comunità internazionale assegnò (tramite la risoluzione ONU 194) l’amministrazione di Gerusalemme Est, come gran parte dei territori a maggioranza araba, al Regno Hascemita di Giordania, Paese che accolse gran parte dei settecentoundicimila profughi palestinesi costretti a lasciare le loro case durante il conflitto. Anni dopo, nel 1956, il Regno di Giordania assegnò i territori di Sheikh Jarrah ad alcune famiglie palestinesi, nella speranza di diminuire la presenza di rifugiati nei campi costruiti sul suolo giordano negli anni successivi alla guerra. 

Nel 1967, però, un nuovo conflitto tra Israele e Stati arabi (la Guerra dei sei giorni) portò all’occupazione di Gerusalemme Est da parte dell’esercito israeliano, trasformando Sheikh Jarrah in uno dei simboli dei tentativi di delocalizzazione dei residenti non ebrei adoperati dai governi israeliani. Negli anni immediatamente successivi, infatti, diversi insediamenti israeliani furono costruiti nei dintorni del quartiere e, nel 1972, le autorità iniziarono a reclamare l’area: nonostante ai palestinesi fosse impedita ogni pretesa di restituzione dei territori e delle proprietà perse dopo la Nakba del 1948, agli israeliani fu concesso di richiedere la “restituzione” di territori appartenenti a famiglie ebree nei decenni precedenti alla costituzione dello Stato di Israele. Dal 1972 in poi, diverse famiglie palestinesi sono state sfrattate dalle loro abitazioni in Sheikh Jarrah, e i territori assegnati a compagnie o famiglie ebree.

Nonostante le autorità israeliane abbiano giustificato tali sfratti sulla base di contenziosi giuridici e dispute territoriali tra privati, le decisioni dei tribunali hanno sempre fatto parte di una strategia ben precisa, che punta a rendere la popolazione di Gerusalemme il più omogenea possibile, esattamente come nel 2002 affermò l’ex ministro del Turismo Benny Elon: «Il nostro obiettivo è quello di assicurare la presenza da Est a Ovest della comunità ebrea a Gerusalemme». Di fatto, la strategia dei governi israeliani, fino a ora, è stata quella di cambiare la composizione etnica della città in favore degli ebrei, nel tentativo di rendere legittime le pretese di Israele su Gerusalemme come capitale.

La rabbia dei palestinesi e la reazione della polizia israeliana 

Dopo l’ultima decisione di sfrattare sei famiglie arabe di Sheikh Jarrah, emanata ad aprile dalla Corte Suprema di Israele ed eseguita a maggio, i civili palestinesi sono scesi in strada per dimostrare il proprio dissenso e la propria rabbia. Punti focali delle proteste sono state la Porta di Damasco, via d’accesso più rapida sia per il Muro del Pianto sia per i luoghi sacri dell’islam, e la moschea di al-Aqsa, la più grande di Gerusalemme. Proprio davanti alla moschea, il 7 e l’8 maggio, si erano radunati quasi settantamila fedeli per la preghiera e la Laylat al-Qadr, una delle ultime notti del Ramadan. 

Durante la celebrazione della festività, la polizia israeliana è stata allarmata dai canti intonati dai fedeli in favore di Hamas, partito islamista che al momento gode di vasto supporto, vista la rottura tra cittadini palestinesi e Abu Mazen, presidente dell’Autorità nazionale palestinese. Quest’ultimo è stato accusato di aver rimandato le elezioni previste per il 22 maggio di quest’anno, con la scusa che Israele non avrebbe permesso agli abitanti di Gerusalemme Est di votare, nel tentativo di preservare il potere suo e del partito al-Fatah, che da anni ormai perde terreno nei confronti dei rivali di Hamas.

La situazione è rapidamente precipitata il 10 maggio, quando, in concomitanza con la preghiera dei fedeli musulmani, gruppi estremisti israeliani hanno festeggiato nei pressi di al-Aqsa la “Giornata di Gerusalemme”, celebrazione della conquista della città avvenuta nel 1967. Provocazioni, lanci di oggetti e violenze tra i due gruppi si sono verificate più volte nell’arco della giornata, fino all’intervento della polizia israeliana, che è culminato con un raid nella moschea di al-Aqsa, mentre i fedeli musulmani vi si erano radunati in preghiera

L’intervento di Hamas e il conflitto: un’occasione per il partito islamista o per lo Stato di Israele?

Di fronte all’intervento armato all’interno di uno dei luoghi sacri dell’islam, Hamas ha inviato un ultimatum affinché i militari israeliani si ritirassero entro le 18 del 10 maggio stesso. Non avendo ricevuto risposta, il gruppo che controlla la Striscia di Gaza ha iniziato a lanciare razzi contro le città di Tel Aviv, Ascalona e Sderot. Le forze armate israeliane non hanno esitato a reagire. Gli scontri, che si sono protratti per undici giorni, sono stati i più violenti dal 2014 e hanno causato duecentoquarantotto morti tra i palestinesi (di cui ottanta miliziani, il resto civili) e quindici (di cui tredici civili) tra gli israeliani.

La sera del 20 maggio, dopo undici giorni di combattimenti, Hamas, il Jihad islamico palestinese e Israele sono giunti a un accordo per il cessate il fuoco, mediato dall’Egitto ed entrato in vigore la notte del 21 maggio. L’intera comunità internazionale ha accolto la notizia con entusiasmo, mentre esperti e giornalisti si sono impegnati nel tentativo di designare il vincitore degli undici giorni di violenze. È stata una vittoria politica di Hamas, in grado di dimostrare di essere sempre pronta a combattere agli occhi dei palestinesi? Oppure è stata una vittoria militare di Israele, capace di inferire gravi perdite tra i leader delle milizie palestinesi e di incassare, ancora una volta, il sostegno degli alleati e il silenzio dei “nemici” arabi? 

Entrambe sono affermazioni corrette. Da un lato, Israele è riuscito a colpire diversi obiettivi sensibili di Hamas, come tunnel, uffici del partito e depositi di armi, il tutto limitando le perdite umane tra le proprie forze armate. L’uso efficace di aeronautica e missili ha concesso di evitare l’impiego di truppe di terra e la messa in atto di azioni militari nella Striscia di Gaza, che nel 2014 causarono decine di morti, mentre il sofisticato Iron Dome ha intercettato gran parte dei missili lanciati da Hamas. Dall’altro, Hamas ha dato l’ennesima prova di forza: mentre nel 2014 il partito islamista era riuscito a lanciare poco più di tremila missili in cinquanta giorni di combattimento, nei dieci giorni di maggio ne sono stati lanciati più di quattromila. Una dimostrazione militare, ma anche ideologica, di fondamentale importanza, soprattutto dopo il rinvio delle elezioni palestinesi voluto da Abu Mzen. La posizione di Hamas è chiara: al-Fatah ormai non fa più gli interessi dei palestinesi visto che il suo leader è troppo impegnato a difendere la sua posizione di potere, l’unica risposta a Israele è la lotta armata e Hamas è l’unico degno rappresentante dei palestinesi.

1967-2021: cinquantaquattro anni di occupazione e brutalità

Nonostante sia innegabile il ruolo di fomentatore ricoperto da Hamas, impegnato a raccogliere consenso politico anche a costo della vita degli abitanti della Striscia di Gaza, l’ultimo mese è solo il capitolo più recente della lunga storia di violenza generalizzata e oppressione che caratterizza l’illegittima occupazione di molti territori da parte israeliana

Nei territori amministrati da Israele, arresti a tappeto di manifestanti, giornalisti e attivisti arabo-palestinesi sono stati effettuati durante l’intero conflitto, mettendo a tacere qualsiasi tentativo di testimoniare la brutalità esercitata dagli agenti israeliani e dagli estremisti. Scopo perseguito anche tramite l’opera di censura digitale esercitata sui principali social network usati dai palestinesi (come Facebook e Instagram): l’organizzazione 7amleh ha riportato che, tra il 6 e il 19 maggio, alcune centinaia di post sono stati censurati e gli account di diversi utenti bloccati o sospesi. Le principali motivazioni addotte per l’oscuramento sono state il discorso d’odio e una generica violazione degli standard delle piattaforme. 

Con l’ultimo mese, il bilancio dell’occupazione dei territori della Palestina (dal 1967, anno della risoluzione ONU 242 che ne prevedeva la restituzione, a oggi) sale a un milione di arresti tra i palestinesi, tra i quali diciassettemila donne e più di cinquantamila minori. Delle persone arrestate, quasi settantamila sono state detenute in carcere per lunghi periodi (almeno un anno), e duecentoventisei di questi sono morti in prigionia: settantatre per le torture subite, settantuno per negligenza medica e ottantadue per esecuzioni sommarie perpetrate da agenti israeliani. 

Contemporaneamente, i coloni nei territori occupati sono aumentati: circa trecentomila vivono in Cisgiordania e duecentocinquantamila a Gerusalemme Est. L’edificazione di insediamenti nei territori occupati coincide, da decenni, con la delocalizzazione della popolazione palestinese, sia tramite sfratti che come risultato della distruzione generata dalle azioni militari. Secondo le Nazioni Unite, i rifugiati palestinesi sono più di cinque milioni, inclusi i discendenti dei profughi del 1948 e del 1967, gente nata, cresciuta e che forse morirà in campi di fortuna, lontani da casa.  

“Fuori” da Israele, nel frattempo, gli abitanti della Striscia di Gaza continuano a subire un inumano embargo, che impedisce lo sviluppo delle infrastrutture più basilari: la mancanza di acqua, elettricità, medicinali e generi alimentari fanno ormai parte della quotidianità dei palestinesi dal 2007. Alle difficoltà economiche vanno aggiunte le conseguenze degli attacchi israeliani su obiettivi civili: palazzine abitate, edifici governativi e anche la sede dell’emittente qatariota al-Jazeera sono stati colpiti da missili o attacchi aerei durante le ultime operazioni militari, giustificate dalla presunta presenza di uffici amministrativi e depositi di armi di Hamas. Va anche menzionato il fatto che Israele esercita un ferreo controllo sulle frontiere con la Striscia di Gaza: senza passaporto israeliano, o una valida giustificazione, giudicata tale in maniera arbitraria dalle autorità, abbandonare la Striscia è impossibile.

Cosa viene dopo il cessate il fuoco?

Il cessate il fuoco del 21 maggio è stato giustamente accolto con sollievo da parte dell’opinione pubblica e della comunità internazionale. Tuttavia, si tratta di un accordo temporaneo e non risolutivo, che è risultato più in un successo diplomatico dell’Egitto che altro. Il Paese guidato da al-Sisi, infatti, è sempre più intenzionato a ritagliarsi un ruolo da mediatore nella regione, in particolare per la questione palestinese, visti i legami economici ed energetici con Israele e il controllo del passaggio di Rafah, unico confine con la Striscia di Gaza non controllato da Israele. Da notare, piuttosto, l’indecisa e tardiva reazione degli altri Paesi arabi: firmatari dei recenti Accordi di Abramo, i Paesi del Golfo, così come il Marocco, si sono limitati a proteste formali e a un sostegno economico per i palestinesi. Lo scenario più probabile è il proseguimento della normalizzazione dei rapporti con Israele non appena le acque si saranno calmate.

Inoltre, l’ultimo conflitto è sicuramente interpretabile come una vittoria politica di Hamas, sempre più punto di riferimento per i palestinesi. In un clima sempre più teso, i prossimi mesi potrebbero offrire occasioni favorevoli alla lotta armata di Hamas. Infatti, una caratteristica della crisi di maggio è stata anche la lunga serie di violenze perpetrate in diverse città israeliane dalle due comunità: incendi, provocazioni e aggressioni a cose e persone hanno dimostrato l’importanza simbolica di Sheikh Jarrah e delle operazioni di polizia all’interno della moschea di al-Aqsa. La possibilità di altri focolai di violenza, miccia ideale per la riaccensione del conflitto, è presente se non probabile. Soprattutto in vista dell’insediamento di un governo israeliano nuovo, ma comunque orientato a destra e basato su Naftali Bennet, portatore di posizioni oltranziste sulla questione delle colonie, e Benyamin Gantz, che ha guidato le operazioni militari di maggio.

 

 

*L’articolo che stai leggendo è firmato a nome dell’intera redazione di area perché frutto di un lavoro collettivo o per l’impossibilità dell’autore e/o dell’autrice di firmarsi. Le idee espresse nell’articolo rappresentano la redazione che lo firma, che se ne assume anche la responsabilità.

 

Editing a cura di Niki Figus 

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